giovane critica - n. 5 - ott.-nov. 1964

.. IO ANWNIO BANl'I, FUoso/1 contemporanei, Parenti 1961, pag. 258. Il GUIDO AluSTAROO, Il lfllenzlo e i generali, 1n Cinema Nucvo, anno XIII n. 168, marzo.aprile 1964. della vita del credente > che per Banfl era l'aspetto più caratteristico della religiosità kierkegaardiana ••. Nella lunga sequenza dell'agonia di Ester - un'altra conferma lampante di quella eterogeneità di impasti culturali e stilistici dai quali non sempre riesce a Bergman di trarre un risultato limpido e raggiunto - 11 regista non rifugge dai più esasperati e impietosi imprestiti naturalistici, corretti, ma non decantati e risolti, dal rigore figurativo della composizione. Accanto a questi due personaggi ve n'è un altro fondamentale, quello di Johan, 11 figlio di Anna, che, In quella breve sosta a Timoka, apre gli occhi sul mondo e ne avverte per la prima volta, in una pausa di oscura e dolorosa sospensione, la disperante difficoltà del vivere: Bergman descrive 11 suo incerto vagabondare per i lunghi e deserti ambulacri dell'albergo - in quelle che sono forse le pagine più ispirate e trepide del film - ne segue gli incontri sgomentanti con un vecchio cameriere, lugubre e patetica comparsa esclusa da ogni possibilità di comunicazione e di intervento attivo. A Johan, che ha precocemente avvertito quale peso abbiano l'angoscia e la solitudine nella vita dell'uomo, Ester affida, prima di morire, una lettera in cui sono trascritte le poche parole che ella è riuscita a tradurre dalla lingua straniera di Timoka. Esse alludono a una vaga possibilità di accordo, di rinnovata armonia, nell'uomo e fra gli uomini, sotto 11segno della spiritualità. Ma 11senso di quelle parole riesce impenetrabile a Johan, la loro prospettiva incerta. Il film si chiude ancora una volta, come è stato giustamente osservato da Ar!starco, su una e ambivalenza > che sembra consentire le più contrastanti interpretazioni 11 • Non ci sembra che, a differenza di quanto avveniva nei grandi e complessi apologhi de Il settimo sigillo e de Il posto delle fragole, l'allegoria risulti questa volta ricca di complesse implicazioni ideali e pregnante di risonanze inquietanti. La struttura allegorica del film non è innervata da una bruciante tensione di conoscere e rappresentare in profondità una condizione umana ricca di motivazioni e riscontri e attuali> - come avviene, ad esempio, nel Welles de Il processo - ma tradisce se ma! l'impoverimento e la schematizzazione di un discorso che è stato sempre contraddittorio e tormentato, ma di una contraddittorietà e irrequietezza aperte tuttavia a possibilità, scandagli e acquisizioni sofferte e stimolanti sulla condizione spirituale dell'uomo d'oggi. Ne Il silenzio, come già nel primo film della trilogia ma con maggior intransigenza a determinazione, 11 discorso si fa più chiuso e astratto: la disperazione autentica e sofferta, che ne costituisce pur sempre la matrice autobiogra- - 39

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