giovane critica - n. 5 - ott.-nov. 1964

Bcr~man: la ricerca e il silenzio 36 - Q sponsabilità di carnefici («Voi dovrete uccidermi!>, e il voi viene gridato dallo schermo direttamente agli spettatori) e la disperata ribellione finale, su cui si stacca l'immagine del fungo atomico, simbolo premonitore di una estrema, incombente alienazione e sconfitta. Sviluppando il suo personale discorso «all'interno» di quello kafkiano, in una sorta di libera traduzione interlineare, Welles non riesce naturalmente ad evitare tutta una serie di semplificazioni (la figura dell'avvocato, vittima e sacerdote del rituale burocratico, ne risulta assai sacrificata e impoverita, grazie anche alla prestazione « monstre » dello stesso Welles) e forzature, avvertibili soprattutto, nella prima parte, per la figura di K., che non ha radici e consistenza del tutto persuasive e fondate. Ma il rapporto fra il personaggio e le varie immagini e forme del sistema si risolve in talune pagine di alta e geniale tragicità: le visite di K. alle cancellerie del tribunale e gli incontri con le vittime e gli aguzzini, l'impossibile e penoso colloquio col vecchio, la fuga disperata nel tunnel accompagnata dallo stridulo coro delle ragazzine. Ritrovando le proprie ascendenze e mutuazioni espressionistiche (in particolare il Lang di Metropolis e di M), Welles costruisce intorno a K. una allucinata scenografia del disumano e del mostruoso, una sterminata prigione divenuta ormai cornice e «habitat» di un popolo di iloti. Nondimeno, l'incoercibile tendenza del regista a fuggire per la tangente visionaria ha spesso il sopravvento, con frequenti cadute nel barocco scenografico, nell'impiego difforme del materiale plastico, nella gratuità visiva. E' certo tuttavia che, nella filmografia di Welles, Il processo si riconnette alle sue prove più personali e trascinanti, se non compiutamente decantate e risolte, e, per le più recenti, a L'infernale Quinlan di cui riprende, in accordo e in contrasto con una problematica viva nella cultura e nel cinema contemporanei, il tema della persecuzione come componente fondamentale della nostra epoca. Il silenzio di Ingmar Bergman (1963), terzo momento - dopo Come in uno specchio e Luci d'inverno - di una trilogia che lo stesso autore presentò a suo tempo come una meditazione sul significato della vita e sul problema di Dio, conferma in primo luogo come fossero nel giusto quanti accolsero freddamente, alcuni anni fa, un film come La fontana della vergine e avanzarono dubbi fondati sul suo approdo, apparentemente pacificato, a una soluzione certa dei tormenti e dei dilemmi, laceranti e insolu-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==