giovane critica - n. 5 - ott.-nov. 1964

Un deserto di colori ,n un mondo pazzo quattro volte Il film è brutto, convenzionale e velleitario ma il suo titolo può servire per la riflessione iniziale, la questione: è veramente e pazzo> quattro volte equesto mondo> cinematografico? Il film cineramico concavo ha un titolo-campanello d'allarme che tutti interpretano però al modo sbagliato. Senza capire cioè che e questo mondo> pazzo quattro volte (troppe per una pazzia autentica, anche se planetaria - non è vero?) sta dando segni di una saggia, troppo saggia pazzia, o di una pazza saggezza. In primo luogo, esorcizza la pazzia terrestre ma ne fissa persino gli antidoti: la risata terapeutica con cui si conclude la rassegna di una serie di tipi (molto e tipici> e quindi pochissimo tipici) fatti a pezzi dalla propria idiozia. In secondo luogo, proprio obbedendo al principio per 11quale mai si parla tanto di una cosa come quando questa cosa non c'è o non c'è più (il Dottor Faustus a proposito dei valori correnti nel mondo), riproduce la pazzia esaltante nei e film pazzi> veramente del primi decenni del secolo e, dopo averla disinnescata, getta la bomba dello sregolamento del sensi ottici e motori fra le gambe della gente. Tutto finisce bene anche quando finisce male, Il lieto fine è il fine peggiore, il mondo è pazzo ma sotto controllo, anche i controllori sono controllati, all'Infinito: divertitevi, gente, tutt'al più vi romperete l'osso del collo ma potrete sempre ridere, anche in extremis, se qualcuno di voi, incolume, si rompe l'ultima gamba ... Il discorso, ovviamente, non prende sul serio il film di Kramer se non sul plano del costume o di una linea culturale sociologica. Serve soltanto, il film scel14to per l'avvio del discorso, come pretesto delle considerazioni da collegare - perché non valgano soltanto nel caso del cinema - a proposito dei rapporti tra metafora e cinema, tra poesia e cinema, con tutto quel che ne segue. Il cinema sembra aver rinunciato, ormai, alla metafora, cioè alle figure, ai tropi, ai procedimenti innovativi del linguaggio-pensiero, alle formule distile, alle variazioni semantiche. Al cinema niente è più ~come>, o e come se>, ma ogni cosa è quello che è. Nei film di Mack Sennet, o di Ridolini o di Chaplin, il mondo, il pazzo mondo capitalistico, o semplicemente industriale, si disfaceva sotto gli urti ingenui, semplici e spontanei dell'uomo non ancora meccanizzato, resistente con la sua piccola ma solida eredità poetica al furto di se stesso operato dallo stesso meccanismo sociale riproduttore di cose, di oggetti-paesaggio (il nuovo orizzonte umano, la seconda, la terza natura). Si disfaceva nei suol nessi, nelle sue associazioni di significato corrente e d'uso, quel e pazzo mondo >, ma nello stesso tempo in maniera del tutto metaforica, perciò più vera, universalizzata. Per questo l'uomo che saltava di grattacielo in grattacielo non era più soggetto alla forza di gravità, e 11suo cranio martellato dalle presse era infrangibile, la sua struttura umana invulnerabile qualunque fosse la prova cui le cose lo sottoponessero. Nei film comici ultimi - e questo mondo pazzo pazzo pazzo all'infinito > è soltanto una sintesi di tutti gli altri - non troverete più neppure per sbaglio la felicità nichillsta della metafora, il potere allegramente sarcasticamente distruttivo dei tropi poetici. Crollano anche gll edifici ma la

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