giovane critica - n. 4 - apr.-mag. 1964

i quali non c'era il bisogno di additare Verga e Brancati, come ha fatto un critico noto per i suoi parallelismi un po' azzardati. Con Omicron Gregoretti si è conquistato meritoriamente un posto di rilievo nel casellario dei nostri giovani registi più promettenti, più intellettualmente attivi; il brio dell'autore de I nuovi angeli si è materiato di un più saldo bagaglio culturale, si è fatto meno disposto alle improvvisazioni scanzonate e ai giochi di parole goliardici. In tal senso Omicron costituisce una generosa testimonianza di uno sforzo di affinamento democratico, in una direzione un po' anarchicheggiante e incline alla schematizzazione polemica, ma decisamente simpatica (e a un maestro dell'avanguardia di piglio anarchico, nell'àmbito della produzione cinematografica, a un René Clair, rimandano alcuni spunti satirici contenuti nel film). Ciò che spiega il taglio pamphlettistico, da maniera illuminista, del film, consentaneo evidentemente alla ideologia dell'autore, alla sua attuale teoria della società, partita in creature «di prima scelta > e in altre e di secondo scelta>. Ci interessa qui soprattutto spiegare a livello metodologico, le ragioni dello sbandamento in cui il film incappa nella seconda parte; constatato da quasi tutta la critica all'apparire del film, a Venezia. A cosa è dovuto, in altre parole, il progressivo essiccarsi delle felicissime invenzioni d'avvio (la raffica di pernacchie, il pianto come nutrimento, il sonno come dovere, la scena del ballo, la lettura ultrarapida ecc.: stilizzazioni comiche e iperboli che fanno pensare al « comico dei gesti e dei movimenti > analizzato da Bergson, quel Bergson che ha influenzato il Clair di Entracte, probabilmente tenuto presente da Gregoretti) che si traduce, sul piano artistico, in un eccessivo irrigidirsi programmatico delle figure - i «sovversivi>, ad esempio - e delle situazioni? Sembra che il giudizio sulla società sia maturato in una sede e il film, che di quel giudizio è latore, in un'altra, l'uno giustapposto all'altro, com'è appunto di tanta produzione di marca illuminista (non dei capolavori «dialettici> di Diderot) e ne costituisce il limite sul piano artistico. Mi martellava in testa, al riguardo, la valutazione che il De Sanctis faceva, nel Leopardi, delle Operette morali, più precisamente della natura del comico in esse contenuto. De Sanctis lodava l'< arsenale copiosissimo di favole e di storie antiche e nuove > di cui Leopardi faceva uso e riconosceva che da esso potevano scaturire e i più felici e straordinari effetti estetici, specialmente comici >; ma tale ricchezza inventiva veniva sperperata lungo la composizione del dialogo: e Ora la fantasia, che è stata potente a trovare una posizione artistica, si ritira subito e lascia fare al- - 43

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