giovane critica - n. 4 - apr.-mag. 1964

Situazione pratica e contrappunto profano nell'espressione di Bcrgman 36 - al lettore con « l'immediatezza e la pregnanza di quattro romanzi, come opere cli per sé letterarie, con una propria forza poetica e concettuale »). Mentre l'immagine cinematografica risulta assai più espressiva c signilicativa cli quegli avverbi, ecc., e proprio in quella medesima direzione interna. E non è affatto vero che Bergman ignori, a differenza cli Antonioni, come qui dice Chiarini, una « forma rigorosamente filmica » e che tenti invece « di imitare le strutture proprie del romanzo ». Si potrebbe dire, al contrario, che la cosa che colpisce cli più in Bergman sta proprio in quella prodigiosa maestria nell'impiego della forma cinematografica: tanto da impressionare, talora nonostante la pochezza cli certi contenuti e della materia raccontata, ossia nonostante la parte dialogata e parlata: per accorgersi del divario basta un confronto tra la noia dei testi scritti e il prodigio << cinematografico » delle immagini: non deve sfuggire la pochezza della parola senza la immagine. 3) Il dialogo e la parola sono dovute venire « in soccorso dell'immagine », si dice. E con questo? A me interessa il risultato, con qualunque mezzo lo si raggiunga: e non vedo la ragione per cui un grande film non dovrebbe avere copia di parole ( non superflue, si capisce, ma necessarie e funzionali), e perché non dovrebbe esprimersi compiutamente anche col narratore che usi l'avverbio e il resto ( a parte il fatto che il linguaggio cinematografico riesce ad esprimere diversamente le parti del suo discorso, senza con questo perdere i colpi semantici)? Che importa il modo, di fronte al risultato? 4) E se intendiamo esprimere un giudizio di merito sui limiti del film in questione, dobbiamo imputare le mancanze ad altro che non all'abbondanza del dialogo, o alla resistenza delle immagini ad un 'articolazione - che sarebbe propria invece al racconto romanzesco ( il peso della parola, quella dei dialoghi e della narrazione) - che, secondo Chiarini, non riesca a tradursi in immagine. Bergman sta radicato in una sorta di situazione perpetua di adolescenza: preso alla gola, in forma inattesa, dall'angoscia per l'egoismo educato, cerimonioso, adulto ( dei genitori, dei coniugi, della metropoli). L'opprime la morsa della vita condotta in « autarchia » ( coniugale, individuale, delle società mascherate dal benessere), nell'indifferenza per gli altri, per il prossimo. D'improvviso, la vita invecchia; dopo l'azione rimane un pugno di cenere, l'individuo avvilisce, subentra la paura psicologica degli altri ( la massa uniforme, il prossimo « superstizioso »), l'orrore del buio ignoto, l'orrore dell'improvvisa rottura del cerchio egocentrico con cui prima si riparava l'individuo, della morte ignota, della brevità biologica, del

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