giovane critica - n. 4 - apr.-mag. 1964

30 - che « vincono la paura della morte » costituirebbe la « dottrina positiva » di Bergman, il superamento del male: la « prigione della solitudine » sarebbe positivamente annientata mediante la « dottrina dell'amore »: « L'amore contiene, in questo senso, la risposta a tutti i quesiti. I puri, gli innocenti sono coloro che amano ». Successivamente, nell'àmbito dell'interpretazione esistenzialreligiosa, si verificarono tentativi di integrazione confessionale (protestante o cattolica), per cui pare che l'autore testimoni il vuoto dell'immanenza, la miseria della vita laica, per superare definitivamente i quali occorre presto l'innesto sul vecchio ceppo religioso; oppure si decolora l'opera del regista individuandovi, senz'altro, la fisionomia religioso-confessionale. Recuperi del genere li ha tentati, diligentemente, la rivista Cineforum. La pubblicistica cattolica ha in genere accentuato lo sforzo di accaparramento ideologico in occasione della proiezione di Luci d'inverno. Per es., nella circostanza G. L. Rondi scriveva: « La crisi si risolve da sola senza interventi tangibili dall'alto, quando il pastore capisce la necessità della sua missione, il dovere di condurla a termine con fermezza, liberandosi da tutte le scorie umane, da tutte le debolezze, sopratutto da tutte le mediazioni tra la sua anima e Dio. Solo, perciò, rinunciando a tutto, neJI'avvilimento, nella desolazione, nella macerazione, egli si consacra di nuovo al suo ministero, nella speranza che l'esercizio stesso delle sue funzioni, anche nell'aridità, finirà per arrecargli il compenso desiderato. Ricongiungendosi, in questo, ai mistici cattolici della notte oscura e al nuovo ascetismo moderno che vede il raggiungimento della perfezione sopratutto nel dovere compiuto e non nella soddisfazione, anche solo intima, raccolta ». Da tempo il recupero « confessionale >i di Bergman stava prendendo piede. Le prime avvisaglie comparvero con la proiezione de Il settimo sigillo. A quell'epoca il padre Guido Sommavilla S. J. pubblicava su L'eco di Bergamo un articolo, ripreso poi da numerosi quotidiani e periodici cattolici. Affermava che un fenomeno come la peste segnala una venuta di Dio e una prova della sua esistenza o al contrario una prova della sua assenza ed inesistenza. Il film compie una scelta. Senza dubbio il dilemma sta nell'ispirazione di Bergman, ma il regista non esita a scegliere la prova dell'esistenza di Dio: infatti « lo scudiero rimane ribelle fino alla fine, ma siccome le predilezioni dello spettatore probabilmente si fissano sul cavaliere che è la figura di massima simpatia del film », sembra chiaro che il dilemma si risolva nella fede: « nel cieco abbandono ai sempre giusti e misericordiosi e segreti giudizi di Dio i>. Che mi pare una base assai fragile, in quanto il regista non fa convergere affatto la massima simpatia dello spettatore sul cavaliere, anzi giuoca ambiguamente sull'equilibrio della simpatia per i due personaggi, il cavaliere e lo scudiero. Comunque, il padre gesuita s'affretta a parare due successive obiezioni. In che modo spiegare l'insistenza del regista sui particolari

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