giovane critica - n. 4 - apr.-mag. 1964

ha detto che non bisognerebbe fare del rumore, rompere le frontiere, lottare contro i mulini a vento, inviare robot sulla luna, essere preda di visioni, giocare con la dinamite o strappare brandelli di carne a se stessi e agli altri? Perché non si dovrebbe spaventare i produttori di film? E' il loro mestiere aver paura: sono pagati per farsi venire l'ulcera allo stomaco ». Per chi immagina Bergman fanaticamente chiuso nel culto di una personale austera ispirazione senza concessioni allo spettacolo, suona sorprendente la definizione del cinema che « deve produrre oggetti di consumo per gli uomini d'oggi ». Ma egli intende comunicare certi argomenti complessi adoperando forme ed intrecci capaci di calamitare un largo pubblico. Secondo Bergman, la gente preferisce essere introdotta nella discussione, eccitata da un problema, interessata da un intersecarsi di toni e di situazioni. Il regista pone domande e presenta circostanze: « più sono inquietanti, più sono scabrose. tanto meglio provocheranno lo spettatore ad interloquire idealmente ». In fondo, Bergman non dispregia gli ingredienti tradizionali. Il primo monito che rivolge a se stesso dice: Sii sempre divertente. « Ciò significa che il pubblico che va a vedere i frutti del mio lavoro, e conseguentemente paga la mia vita, ha diritto di richiedere una sensazione, un'angoscia, un piacere, un sentimento. Ed è mio dovere verso di loro soddisfarlo, in modo da legittimare la mia esistenza "· Questo primo comandamento, tuttavia, non prostituisce l'ispirazione, in quanto viene integrato dal secondo che dice: Segui sempre la tua coscienza artistica. « Per non inciampare nelle buche che si trovano sulla mia strada, ricorro poi al mio terzo comandamento: Ogni film è il mio ultimo ». Le complicazioni finanziarie delle industrie cinematografiche, l'indifferenza improvvisa degli spettatori, forse la nausea di se stesso o la stanchezza potrebbero mettere fuori giuoco il lavoro del regista. « Odio il pubblico. Mi spaventa e mi attrae. Provo l'incontrollabile dcesiderio di agitare, di piacere, di angosciare, di mortificare e di insultare. La mia servitù è penosa, ma stimolante, odiosa, ma appagante. Ogni atto che compio è spiato da migliaia di sguardi, di cervelli, di cuori e di corpi. Con un'amara tenerezza. offro quel che possiedo, e quanto posso acquisire o sottrarre. E questo non mi diventa possibile se non convincendo me stesso che ogni mio nuovo film sarà l'ultimo ». L'idea prediletta che, secondo Bergman, dipinge il mestiere di regista avvicina il cinema all'illusionismo: « Sono, dunque, o un ingannatore, o, nel caso di un pubblico cosciente dell'inganno, un illusionista. Mistifico ed ho a mia disposizione il più prezioso e stupendo degli apparecchi magici che sia mai stato, nel corso della storia del mondo, tra le mani di un prestigiatore ( ...) A costo di affermare una cosa che non posso provare, vorrei dire che, secondo me, noi che facciamo dei film non utilizziamo che una parte minima di un potere spaventoso, non moviamo che il mignolo di un gigante, di un gigante che è lungi dal non presentare pericoli ». - 27

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