giovane critica - n. 4 - apr.-mag. 1964

26 - del pubblico », appare incerto, imbarazzato. Finché una mattina lo si vede entrare di corsa: ha il viso teso, gli occhi inquieti, il basco inclinato da una parte. << Bisogna vederlo » raccontano i suoi collaboratori; « maneggia la pellicola come un chirurgo il bisturi ». Pallidissimo, ma con una specie di rabbia spietata, comincia a tagliare. In tale lavoro d'aggiustatura, come in ogni momento dell'ideazione del film e delle riprese, Bergman mantiene la presa, da una parte, con le aspettative del pubblico e, dall'altra, con la sua autonomia di autore. Il creatore di film - suole ripetere - ha a che fare con un mezzo d'espressione che interessa non solo lui stesso ma anche milioni di altre persone, e prova per lo più lo stesso desiderio degli altri artisti: « lo voglio riuscire, oggi. lo voglio la fama adesso. lo voglio piacere, incantare, commuovere subito ». A metà strada tra questo desiderio e 1a sua realizzazione si trova il pubblico, che non esige dal film che una cosa: « Ho pagato, voglio essere divertito, intrattenuto, occupato, voglio dimenticare i miei dispiaceri, il mio prossimo, il mio lavoro, voglio evadere da me stesso. Sono là, seduto nella oscurità, e voglio, come una donna sul punto di partorire, la liberazione ». Personalmente - prosegue il regista -, mi pongo continuamente la domanda: posso espri• merm'1 più semplicemente, più puramente, più brevemente? Comprenderanno tutti ciò che voglio dire adesso? Potrà lo spirito più semplice seguire il corso della vicenda? E questo, che è il più importante: Fino a dove ho il diritto di ammettere il compromesso e dove cominciano i miei doveri verso me stesso? Qualunque espe• rimento implica necessariamente un grande rischio, perché allontana sempre dal pubblico. Bergman teme sopratutto questo distacco: l'allontanamento dal pubblico può portare alla sterilità, all'isolamento in una torre d'avorio. « Sarebbe auspicabile che i produttori mettessero dei lavoratori a disposizione dei registi. Ma essi non si affidano che agli ingegneri, immaginano stupidamente che la salvezza dell'industria cinematografica dipenda dalle invenzioni e dalle complicazioni tecniche. E' facile mettere lo spettatore in uno stato d'animo peggiore di quand'era arrivato, ma è difficile metterlo in uno migliore: è questo tuttavia che egli desidera ogni volta che siede nella sala oscura di un cinema. Ora, quante volte e con quali mezzi gli diamo questa soddisfazione? E' così che io ragiono, pur sapendo che questo ragionamento è pericoloso, perché comporta il rischio di condannare tutti gli insuc• cessi, di confondere gli ideali e l'orgoglio, di considerare come assolute le frontiere che il pubblico e la critica gli rizzano di fronte, quando voi non le riconoscete e quando non sono vostre. Da una parte sono tentato di adattarmi, ma dall'altra parte sento che sarebbe la fine di tutto, poiché ciò presupporrebbe una totale indif. ferenza ,,. Il lavoro di Bergman punta su questo equilibrio tra l'adattamento alle richieste del pubblico e la salvaguardia della propria indipendenza espressiva. « Chi

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