giovane critica - n. 4 - apr.-mag. 1964

GIOVANE CRITICA centro • un1ver sitario • cinema tograf • lCO

• giovane • • cr1t1ca Aprile - Maggio direttore responsabile: redazione: copertina, tema grafico e disegni: GIOVANE CRITICA ■ ■■■ ■■■ 1C ■■■ centro univer Il■ sitario 4 cinema ■ tograf 1964 ico Pietro Battiato e/o Giampiero Mughini, via F. Cilea 119, Catania Roberto Laganà L'abbonamento alla rivista - che dà diritto a quattro numeri e ai corrispondenti opuscoli - è fissato in L. 1.000 da vcnftrc all'indirizzo redazionale. Un numero separato: L 350 - un numero doppio: L. 500. Finito di elampare nella tipografia dcli" Università di Catania il 14 maggio 1964 Autorizzazione 3 geooaio 1964 n. 292 del Regutro Periodici del Tribunale di Catania

s01n1nar10 Pac-t. 3 g. r.n. » 4 Lorenzo Pellizzari » 8 Francesco i\lauuino Antonino Recupero » 16 Pio Balclelli » 4l Giampiero Mughini » 48 Leonardo Sciascia » 55 Franco fortini » 67 Guido Oldrini " 80 Zibaldone Germinale 1961 Funzione della critica e disfunzione del cmen1a Da Brecht a Pabst: licenze musicali e diver.Q:enze politiche Dibattito sui problemi della critica Ambi_u:uit;Ì di sacro e profano ,n lngmar Bergman Taccuino Schegge critiche Materiali La veglia di Azana Saggi e studi Mandato de_gli scrittori e limiti dello antifascismo La teorica cinemato.irralica in Italia durante il fascismo Recensioni

zibaldone Germinale 1961 Il termine cinéma-vérité, come altri in voga presso il giornalismo cinematografico, è, come si sa, piuttosto plurivalente; cela Istanze e insoddisfazioni di natura diversa; diventa discutibile quando pretende di elevarsi al rango di unica 'poetica' valida per i registi del nostri giorni. Un esempio clamoroso e nobilissimo di cinema Improntato a quei canoni è Octoòre à Paris che abbiamo potuto vedere, ultimamente, In una proiezione semiclandestina. E' costituito per la massima parte da materiale ricostruito: testimonianze di torturati, brevi ricognizioni in loco ecc.; Il 'punto di visia ' dell'autore - degli autori? - trapana dalle immagini, uomini e cose, fotografate sempre senza impicci retorici e senza artifizi spettacolari; nonché da talune escogitazioni di linguaggio e dall'uso creativo del mezzo cinematografico; intervento che risulta determinante sul plano estetico. Prendiamo una sequenza chiave: quella della manifestazione dell'ottobre '61, che costituisce un po' Il nerbo drammatico del film. E' ottenuta, specie all'inizio, mediante la riproduzione d'una serie di foto fisse filmate - galvanizzate dal commento sonoro e a cui si alternano immagini animate - che si succedono sullo schermo: torrenti di folla, i fltcs schierati con tracotanza, le prime avvisaglie del tumulto; a un tratto due o tre di queste foto, repentine, riproducono mani di dimostranti che applaudono. Per meglio dire si tratta di ' dettagli ' dt foto, debitamente ingranditi, su cui l'aut~re ha centrato il suo mirino. Lo spettatore, probabilmente, non ne comprende il valore testuale che è, invece, decisivo. Quelle palme nude sbattute le une contro le altre stanno a sottolineare come i dimostranti siano disarmati, assolutamente inermi; a questo scopo, durante la manifestazione ( e quella che si vuol fare è una manifestazione ... non una rivoluzione > dice il delegato F.L.N. nella riunione che precede), i dimostranti applaudivano e rizzavano le braccia in alto; e le successive foto utilizzate li ritraggono ripetutamente mentre mentre alzano vistosamente le braccia verso l'alto (cui fa seguito un coriandolìo di foto e di immagini sconvolgenti: uomini braccati dai Jlics, volti stracciati, corpi schiantati sul selciato). TI 'dettaglio' da noi citato conferisce una eccezionale carica drammatica al contesto: uomini inermi contro quei manganellatori cinici, specialisti dell'assassinio legale. Nel ' caos' della dimostrazione gli autori hanno scalpellato un elemento portandolo in primo piano e illuminando cosi il resto; la 'verità' poetica, cui è annesso il massimo di potenza persuasiva e di provocazione razionale, sta sempre nella disciplina della materia «grezza> (come rispondere alla violenza istituzionalizzata? Si pensa, a questo punto, a Frantz Fanon, il cui libro, avverte Sartre, è scritto anche per noi europei: e Le nostre vittime ci conoscono dalle loro ferite e dai loro ferri: questo rende la loro testimonianza irrefutabile. Basta che ci mostrino quel che abbiamo fatto di loro, perché conosciamo quel che abblam fatto di noi >). Ancora una volta, stando al brano da noi citato, il divario tra e documento > e e opera d'arte > ap- -3

pare, contrariamente a quanto ne dice Morin, sensibile e tutt'altro che e incerto>; quest'ultima è sempre frutto di un impulso attivo del creatore che interroga e forza espressivamente i fatti: in questo caso la successione di foto, il loro significato; anche se, in Octobre à Paris, l'esito poetico ha la sua origine nella materia lancinante della cronaca affrontata di prima mano; come appunto auspicano gli assertori del cinéma-vérité (stupenda, in questo senso, la sequenza che precede la manifestazione - quegli uomini che escono dalle bidonvilles sudicie e sbrindellate -; in cui la funzione principale viene assolta dalla banda sonora - una scarica di batteria - che crea una eccezionale tensione: come di una crosta che si spezza, un germinare di uomini che rivendicano il loro diritto di umana cittadinanza). E siamo d'accordo. Dove non siamo d'accordo è quando si dice, e ci riferiamo ancora a Morin, che la alternativa cui il cinéma-vérité è chiamato sta nell'optare e o per la materia grezza e a diventare cosi un cinema-documento; oppure per il montaggio, e a trasformarsi in un cinema-saggio>; laddove, e lo stesso Morin lo riconosce, le e interferenze> fra i due atteggiamenti sono continue, e auspicabili. Viene in mente un lucidissimo corollario di Pudovkin: e Nel caso che si vogliano riprendere dei dimostranti che passano per una via, il risultato non sarà una fotografia dell'avvenimento, ma una particolare figurazione dell'avvenimento stesso: tra gli avvenimenti reali e la loro riproduzione sullo schermo esiste una grande e significante differenza: e in questa differenza sta tutto ciò che fa del film un'opera d'arte>. E con questo non si vuole certo degradare quanto, pur non costituendo opera d'arte, è documentazione tempestiva e delucidazione razionale; specie in questi tempi di grossolane mistificazioni. Piuttosto mi pare si possa dissentire da quanto scriveva tempo fa (su Partisans), a proposito del cinema hors-la-loi, l'amico Thirard e cioè che i due poli 4del cinema futuro potrebbero essere rappresentati da Spartacus e da J'ai huit ans, e le géant et le pygmée, la liberté posslble et la liberté arrachée >, la verità ' spettacolare ' buona per il palato del più e la verità 'artigianale' riservata, almeno oggi, a pochi; qui tertium datur, necessariamente, ed è nostro compito favorirlo con tutti i mezzi, di esercizio critico, di modificazioni organizzative e strutturali. Anche se, permanendo l'attuale stagnante situazione del cinema italiano, la strada di J'ai huit ans sarebbe da battere con sempre maggiore frequenza e modestia. g. m. Funzione della critica e disfunzione del Clnema Un'ampia ed esauriente inchiesta condotta da Mino Argentieri per Rinascita', e un singolare « manifesto » a tre (Tommaso Chiaretti, Giuseppe Ferrara e Adelio Ferrero), apparso su Mondo Nuovo 2 , ci consentono non soltanto di constatare le posizioni, più o meno ufficiali, del due partiti della sinistra d'opposizione nei confronti della legge per il cinema e dell'attuale grave crisi industriale, bensl anche di introdurre un circostanziato e documentato bilancio sul film italiano odierno, dalla creazione alla fruizione, ovvero - in termini meno sociologici ma più realistici - dalla fabbricazione al consumo. Di là da ogni valutazione politica, un primo dato è inoppugnabile. Mentre il PSI, sia sull'Avanti!, pur guidato dalla mano sapiente e dignitosa di Lombardi, sia sulla propria rivista specializzata, Filmseleztone, diretta dall'on. Luciano Paolicchi, ben noto per quelle sue trite polemiche nel settore dello spettacolo che preludevano alla marcia sul centro-sinistra, e da Ma-

rio Gallo, un critico-documentarista (ahimè!, ben lontano dall'essere sempre un documentarista critico, come dimostrano esempi recenti), si limita ad esprimere unicamente i segni della propria soddisfazione per 11 conseguimento di una poltrona ministeriale, ad auspicare la concessione di maggiori e non meglio precisati e poteri > al detto dicastero e a dichiarare il proprio parere sugli e enti di Stato, la cui vita rachitica è inutile, se devono solo spendere per sopravvivere senza operare> (dichiarazione che, nel contesto, assume, in fondo, le tinte di una sfiducia implicita nell'iniziativa statale, giungendo a definire e lodevole collaborazione > quella fra le organizzazioni private e gli organi del pubblico potere, purché non significhi subordinazione del secondi alle prime)', ben più consapevole appare invece la ferma determinazione del PCI e del PSTIJP. Certo, molti non mancheranno di sostenere - come già sostengono nei confronti di altri settori di azione o di riflessione politica e culturale - che tale determinazione è piuttosto e facile>, non essendo impegnati I due partiti in una collaborazione governativa e non dovendo quindi sottomettere la propria linea ideologica alle e: ragioni> e alle e esigenze> della pratica quotidiana e contingente. Può essere. Ma ciò non spiega né tantomeno giustifica sia certi atteggiamenti pubblici del ministro Corona• sia la acquiescenza degli organi di stampa e dei responsabili parlamentari del PSI al e desiderata > del partito di maggioranza e delle gerarchie ecclesiastiche, mai come in questo momento espressi con tanta sicura tracotanza e con tanto dispiego di energie e di mezzi (per una finalità della più netta evidenza e che, se non può forse essere definita e censura Ideologica>, può venir efficacemente battezzata e Inibizione ideologica> e diffusione di. una e moralità > - o e Immoralità > - a senso unico). In proposito, 1 problemi, come sempre, sono problemi di struttura, e ciò è chiaramente posto in luce sia dall'Argentieri, sia da Chiaretti e compagni, i quali concretizzano la questione in una serie di realistiche proposte, decisamente pratiche ed attuabili, anzi congegnate proprio tenendo presente la loro attuabilità. E' questo, nella nostra cultura cinematografica, un aspetto relativamente nuovo, che va salutato con il massimo risalto. In passato, infatti, accadeva spesso, anche ai migliori esponenti della nostra critica, di anteporre aspetti astratti e ideali circa lo svecchiamento e lo snellimento del settore, alle norme concrete per una loro effettiva realizzazione. Battaglie nobilissime sono state condotte da parte degli autori e della stampa specializzata o quotidiana, dai tempi di Piazza del Popolo alle ultime Consulte: spesso, tuttavia, era legittimo nutrire il dubbio che la chiarezza di vedute per quanto riguardava i mali da colpire e da evitare, non corrispondesse a un'altrettanto lucida e limpida azione di proposta. Le associazioni industriali e commerciali, nonché i rappresentanti governativi, potevano frequentemente aver buon gioco nel dibattito, essendo in grado - sia pure da posizioni di forza - di rispondere a ogni tentativo esterno di innovazione con l'appello risolutorio a quelle e esigenze> di vario ordine (economiche, fiscali, organizzative, ecc.) non sempre tenute nel debito conto dai proponenti d'opposizione. Oggi, viceversa, mentre l'azione della maggioranza e delle categorie padronali s'impantana sempre più in una serie di disposizioni e controdisposizioni, quali anacronistiche, quali particolaristiche, quali decisamente reazionarie e antieconomiche al tempo stesso, la parte migliore della critica cinematografica di sinistra si rivela preparata, attiva, fautrice di una chiarezza organica e funzionale. E' sempre più frequente imbattersi, nel corso di una recensione, di un articolo, di un saggio, in pertinenti riferimenti alla situazione industriale ed economica, e non soltanto per deprecare il -5

condizionamento operato dalle strutture esistenti sulla e libera creazione artistica> ma soprattutto per porvi rimedio, e presto e bene,, e per intervenire sulle strutture stesse, nell'àmbito di una politica unitaria di sinistra, oggi indispensabile. Enti di Stato, Ente di Gestione, credito cinematografico, oneri fiscali, cineattualità, film per la gioventù, documentari, ristorni e tasse, MEC, Unitalia, piccolo esercizio, censura amministrativa e via dicendo, sono i problemi sui quali è necessario dibattersi, incontrarsi, prontamente agire, come ottimamente fanno i collaboratori di Rinascita e di Mondo Nuovo (nonché alcuni socialisti autonomisti, ormai però ridotti a una implicita fronda); come hanno fatto e continueranno a fare le riviste specializzate, da Cinema Nuovo a Cinema 60. Ma, in connessione a questi, altri problemi si affacciano - con carattere di non minor urgenza e di più sottile incidenza - nella complessa sfera dei rapporti morali, sociologici, di costume e intellettuali. e Il cinema - concludono Chiaretti, Ferrara e Ferrero - può riconquistare, insomma, la sua libertà, il suo posto, le sue possibilità di sviluppo, ove venga riconosciuta la sua Insostituibile funzione, che è innanzitutto, e senza alcun dubbio, una funzione culturale,. E' da questa considerazione, logicamente condividibile senza la minima riserva, che muov~ però tutta una serie di complessi e delicati problemi, i quali non trovano quasi mai riscontro nel cinema italiano d'oggi o lo trovano lo termini che non sarebbe segno di ottimismo, bensl di follia o di assoluta indifferenza, definire positivi. Assistiamo, Infatti, a una precisa e disfunzione del cinema,, che non è soltanto di tipica natura glandolare, recante come tale all'elefantiasi e all'immobilismo, ma è anche ln primo luogo una lenta corruzione Ideologica e morale. Affrontati gli essenziali problemi della struttura economica, industriale e distributiva, e le questioni dell'Intervento statale a essi 6connesse, occorre quindi che la e funzione della critica, - l'elemento positivo in questa bipolarità che può provocare corti circuiti non prontamente sanabili - si rivolga a un'intensa e attiva opera di educazione tesa a influire sulle componenti di preferenza del pubblico e a vittoriosamente contrastare le direttive e le persuasioni, più o meno occulte, contrabbandate tramite gli uffici-stampa delle case di produzione e di distribuzione e i loro diretti responsab111 (equiparati, come sottolineava Ferrara nello scorso numero di Giovane Critica, agli autentici giornalisti e critici cinematografici, non si sa bene a quale titolo) in modo decisamente diseducante. Troppi nipotini nostrani del magnate Zukor (o di chi per esso) sostengono ancora che e il pubblico ha sempre ragione > e conformano la propria azione a tale presunta superiore esigenza. Altri sottovalutano - certo, In buona fede, ma senza rendersi conto che in tal modo concorrono al felice esito di un gioco patrocinato dal grande capitale e dagli ambienti più retrivi del Paese - l'Importanza del fatto pragmatistico dell'arte nel confronti del fatto estetico della stessa, con il risultato di lasciarsi attrarre dalle superfici, più o meno smaglianti e tentatrici, dei fenomeni presi in considerazione, di recare al proprio pubblico soltanto i frutti di umori dispersivi e di meditazioni mal rimasticate, e di dar adito a ulteriori confusioni programmatiche e pratiche. In altre parole, non si pretende di voler imporre al pubblico certe opere e certi autori sulla base di criteri pregiudiziali e presoclologlcl, che non tengano conto anche dei bisogni di semplice divertimento e di intelligente svago: bensl di voler commisurare questo a quello e di giungere a una paziente e lenta - non importa se ingrata - azione progressista di proposta, sia nell'àmbito dei e clnéma d'essai, o dei circoli culturali, sia nel settore più vasto delle proiezioni regolari, soprattutto non soltanto a livello delle prime visioni ma

.. anche in quelle successive (che inferiscono poi nel delicato conformarsi del piccolo esercizio). Interviene però, a questo punto, un altro aspetto della tormentata questione. Ovvero, la e cattiva coscienza, di molti (troppi) del nostri registi, soggettisti, sceneggiatori e collaboratori creativi varli (non ultimi gli attori). Ogni sforzo teso a trasformare (o a rivoluzionare?) le dette strutture del cinema nazionale, sarà destinato a una sterilità davvero preoccupante (o a una controproducibilltà) se, accanto alla azione educativa nei confronti del pubblico, specie di quello popolare e di massa, non corrisponderà infine un'azione a livello di e élite, nei riguardi degli autori: azione atta a prontamente e decisamente respingere ogni compromesso e ogni concessione, ogni falso intellettualismo e ogni sottomissione al qualunquismo , Inchiesta sul cinema italiano d'oggi, in Rinascita, Roma, a. XXI, nn. 5 del I• febbraio 1964, 6 dell'8 febbraio, 7 del 15 febbraio, 8 del 22 febbraio, 9 del 29 febbraio. • L'iniziativa è allo Stato, in Mondo Nuovo, Roma, a. VI, n. 11 dell'll marzo 1964. SI veda anche un precedente articolo di Chiaretti, Fisco, credito e megalomanie, sul n. 10, 8 marzo, dello stesso settimanale. > crr. Filmselezione, n. 19-20, settembre-dicembre 1963. In questo editoriale dal titolo Un socialista allo spettacolo, Paolic• chi afferma che finora la gestione politica di tale settore « era sempre stata democristiana. Anzi, tranne una recente eccezione, era stata sempre una gestione democristiana di destra (. ..) ». Ora a parte Il lontano e Isolato caso di Ragghiantl, sottosegretario per le Belle Arti e lo Spettacolo nel Ministero Parri del 1945 (cfr. la ricerca effettuata da Gianpiero Berengo Gardln per Il numero speciale de Il Ponte, novembre 1961, dedicato a Censura e spettacolo in Italia), perché Paollcchi dimentica Il Sottosegretariato tenuto dal socialdemocratico Ariosto fra Il luglio 1958 e il febbraio 1959? Forse perché. l'esponente del PSDl, esclusa qualche ormlli facile concessione per certi film stranieri fino a quel momento tenuti in quarantena, non si rivelò molto diverso dal preimperante, alla e dolce vita, e alla e bella confusione,. La critica - noi - ha a disposizione le armi dell'intransigenza e del rigore (che nulla potrà spuntare se non l'autolesionistica volontà o la malintesa obiettività dei singoli interessati). Le si sappia usare, senza cedere a caritatevoli « distinguo , e senza distribuire comode patenti di anticonformismo. Altrimenti, ogni struttura, sia pur modificata, perfezionata o rivoluzionata nel senso da tutti auspicato, non servirà che ad accogliere e a diffondere squallidi e poveri prodotti di una cultura (o di un mercato) antiprogresslsta e accademica, in tutto e per tutto convenzionale (anche quando spaccia per avanguardia e sperimentalismo la propria congenita o connaturata incapacità a esistere, a proporsi, a rinnovarsi). Lorenzo Pellizz.ari cedenti colleghi democristiani? O forse per creare una patente di priorità all'on. Corona ed eliminare ogni sospetto dalla sua persona e dalla sua scelta? • Tipico il caso dell'« incontro » fra !'on. Corona e la critica milanese, svoltosi al Circolo della Stampa a fine gennaio: dopo una lunga attesa dei numerosi convenuti, il tutto si è risolto in pochi minuti con un anonimo e accorto discorsetto di circostanza, dove nessun problema è stato minimamente sollevato, il contraddittorio è stato accuratamente evitato e i còmpiti della critica equiparati dallo stesso ministro a qualcosa fra la pratica scandalistica e il gusto della polemica fine a se stessa. Conclusione, un « beviamoci sopra », prontamente messo in pratica da Corona e altrettanto prontamente imitato dai partecipanti. Il presentatore, l'immancabile Ferruccio Lanfranchi, ha inoltre più volte attribuito al ministro Il titolo di ' Eccellenza ': titolo, se non vado errato, dichiarato Illegale nelrimmedlato dopoguerra su proposta dell 'al· lora • compagno ' Nenni, Per chi non sappia di cose vichiane, esistono anche i corsi e ricorsi storici. Detto fra parentesi, e senza voler istituire alcun parallelo, leggo in Flaubert, L'educaz1one sentimentale: « Il centro sinistro si sarebbe dovuto ricordare un poco meglio delle proprie origini ». -7

Da Brecht a Pabst: licenze 'musicali e divergen~e politiche 1. - In un ciclo di proiezioni che il Cuc Catania ha recentemente dedicato al cinema tedesco degli anni 1930-33era compresa la Dreigroschenoper (L'opera da tre soldi) di G. W. Pabst '. La visione retrospettiva di questo film ha offerto lo spunto per uno studio di cui si offrono qui i primi risultati e le conclusioni provvisorie. Il punto di partenza ne è stato il confronto tra la diversa funzione della musica di Kurt Weill nel film e nella versione teatrale, come indice del e tradimento> compiuto da Pabst nei confronti del testo di Bertolt Brecht'· Questo tradimento, valutato sia in senso positivo che in senso negativo, costituisce una vecchia questione per la critica cinematografica, anche perché il rilievo del testo scelto da Pabst chiama in causa l'ingente problema dei rapporti tra testo letterario e film. Prescindendo da quest'ultimo problema, e accantonando per il momento le esigenze di un giudizio di valore sul film, ci pare che la lettura che Pabst ha fatto del testo brechtiano sia indicativa della profonda divergenza politica sui problemi dell'arte e della cultura che esisteva tra Brecht e Pabst solo in quanto spaccava anche tutto lo schieramento della sinistra europea. Visto in questa luce, il problema della Dreigroschenoper si connette con alcune delle questioni più dolorose e più vive della cultura europea tra le due guerre, che evidentemente trascendono la portata di queste note. D'altra parte la critica italiana ha individuato più o meno compiutamente la figura dei due artisti in questione, lasciando spazio solo per qualche nota in margine'· Pur sapendo non essere questo un 8correttissimo metro di giudizio critico, ci preme tuttavia additare come Pabst si sia in sostanza rifiutato alla occasione che Brecht gli aveva offerta, e non solo nella forma del testo di partenza, di realizzare un film ben più innovatore di quanto in effetti non sia; meglio, in altri termini, come la Dreigroschenoper film sia un esempio di come la rinunzia ad un determinato linguaggio artistico possa coinvolgere una necessaria rinunzia - anche al di là delle intenzioni dell'autore - alla carica ideologica che quel linguaggio esprimeva originariamente. Ci preme inoltre scartare subito l'argomento della differenza tra il linguaggio (lo « specifico >) delle due arti, teatro e cinema, se portato a sostegno della tesi della impossibilità di una traduzione dall'uno all'altro. Almeno se il problema è quello che si pone Bernard Oort parlando del nostro film •, cioè il divario tra il cinema « fondato sull'identificazione>, e il teatro brechtiano fondato sull'effetto di straniamento, la risposta è unica, è quella data dallo stesso critico: che lo straniamento è solo il mezzo di cui Brecht si serve per mostrare le contraddizioni della società borghese, e non un elemento ontologicamente componente del linguaggio teatrale. (Tra l'altro non pare per nulla pacifico che il cinema - quello d'arte - sia fondato sull'identificazione: la polemica brechtiana contro lo spettacolo-narcotico si estende da sé al cinema industriale). Sembra indubbio che Brecht rifiutò di avallare la versione filmica di Pabst non in quanto nonteatrale, ma in quanto non-dialettica (quindi, a suo modo, propriamente non-filmica). Si può dimostrare

inoltre la straordinaria lucidità della idee di Brecht sul cinema per quanto un incontro fecondo del poeta con questo mezzo d'arte non avvenisse mai •. Cl sentiamo in grado di trarre queste conclusioni perché siamo ora a conoscenza di un documento che non ci risulta fosse noto prima d'ora in Italia (e comunque non è mal stato preso In considerazione direttamente: anche l'ultimo studio sulla Dreigroschenoper, a firma Fernaldo Di Giammatteo • lo Ignora). SI tratta della sceneggiatura originale che Brecht scrisse agli inizi del lavoro per il film, nel 1930, e che porta la firma dello stesso Brecht, di Caspar Neher, Leo Lanla e Slatan Dudow, ed è Intitolata Il bozzo (Dte Beule) 1 • Questa sceneggiatura fu poi sostituita da quella, definitiva, firmata da Ladislaus Vajda, Béla Balàzs e Leo Lanla e al quale Brecht aveva affidato il compito di sorvegliare il lavoro di Pabst >1 • Siamo alle origini del processo che il poeta intentò alla Nerofilm, e in cui fini con l'essere condannato per rottura di contratto, nel novembre del 1930. Questo testo, che esamineremo più oltre, ci ha fornito interessanti elementi di giudizio. 2. - Il carattere rivoluzionario della prima rappresentazione berlinese (1928) della Dreigroschenoper consisté indubbiamente nella realizzazione sulle scene e nell'assorbimento da parte di un vasto pubblico dei principi del teatro epico brechtiano, che qui cl Interessa dal punto di vista dell'utilizzazione della musica. La diffusione In Italia delle opere di Brecht ha familiarizzato il lettore con I principi e gli obiettivi del teatro epico: coinvolgere lo spettatore nella azione scenica, ma liberandolo dallo stato di narcosi In cui lo getta il teatro <drammatico> <verista> borghese: costringere il pubblico a prender partito di fronte a quanto gli vien narr~to. ma Indurlo a sentire prima, per distinguere poi all'Interno della complessità dialettica del reale, portandolo a considerare quanto gli attori gli mostrano come <una vicenda ·storica·: cioè come un fatto che si verifica una volta sola, transitorio, connesso con una determinata epoca> •, esercitandolo a considerare l'esistenza umana come <l'insieme di tutti i rapporti sociali> 10 • In particolare la Dreigroschenoper e mette in questione le concezioni borghesi non solo come contenuto, in quanto cioè le rappresenta, ma anche per H modo nel quale le rappresenta >; essa e dà un quadro della società borghese (e non solo di • elementi della teppaglia'). Questa società borghese ha prodotto, per conto suo, un ordine borghese del mondo, ossia una ben precisa Weltanschauung, dalla quale non può in alcun modo prescindere> 11 • Il problema era quello di mettere lo spettatore in grado di osservare in trasparenza questo <ordine borghese del mondo >, di afferrarne la necessaria disumanità e le contraddizioni ad esso interne. (<Si deve esercitare lo spettatore ad una visione complessa; e, in verità, quasi più importante del pensare• nella corrente' è il pensare • al di sopra della corrente'> 12 , cioè insegnare ad osservare storicisticamente, e non solo a godere l'opera come oggetto di <gastronomia>). Di qui l'equivalenza metaforica tra mondo borghese e mondo della malavita, che costituisce la spina dorsale dell'opera. Di qui tutti quegli elementi di linguaggio, quelle tecniche, di cui vive il teatro epico: la letterarizzazlone del teatro (uso di cartel11, scritte) e l'< effetto-A>, o di straniamento 13 • Con riferimento specifico alla Dreigroschenoper, e usando le parole di Brecht: nel teatro tradizionale e una scena serve l'altra >; in quello epico <ogni scena sta per sé>; nel primo si ha <crescita>, nel secondo e montaggio>. Ma questo, non per gusto di novità, bensl perché nel teatro tradizionale si esalta e l'uomo come dato fisso> e nel secondo invece si celebra <l'uomo come processo > 1♦ Il rinnovamento artistico è tale, e non caos linguistico perché per Brecht e l'uomo è 11destino dell'uomo>. Se una salda (ra- -9

zionale) fede nel destino dell'uomo e una volontà di mutarne la condizione non sorreggessero quest'arte, si cadrebbe almeno in dada 15 • Il rinnovamento dell'arte serve il rinnovamento dell'uomo, la rivoluzione. Ci sono voluti dieci anni di « teatro politico> in Russia e in Germania, tutte le sperimentazioni di Piscator, per giungere a questo equilibrio tra avanguardia e coscienza storica, tra accensione di fede nell'uomo e e saggezza > legata alle cose. 3. - La Dreigroschenoper, nel suo allestimento scenico, nacque dalla stretta collaborazione di Brecht e Kurt Weill. Per la partitura questi mise a profitto quei moduli espressivi tipici della tendenza musicale detta gebrauchmusik " e che per il loro carattere di semplicità e di chiarezza espressiva interpretavano e la sinistra stanchezza, l'amarezza della Germania tra le due guerre, quando il tragico crollo dei valori morali e politici preparava l'avvento del nazismo> 17 • Lo accostamento di Brecht ai problemi musicali e a Weill, non è casuale. Nel processo di rinnovamento dell'opera teatrale - o più propriamente del singspiel - Bertolt Brecht con le sue teorie e con la sua pratica teatrale era venuto a costituire per un gruppo di musicisti tedeschi, quali erano quelli provenienti dalla esperienza del Novembergruppe 18 , e Weill con essi, un punto d.! riferimento ideologico ed una stimolante occasione di rinnovamento"· Al compositore Brecht consigliava esposizioni semplici e nitide, melodie e ritmi facili ed orecchiabili, forme senza particolari difficoltà tecniche; posizione che non tendeva a svilire la musica, bensl ad indicarle una nuova prospettiva, almeno per quanto riguarda il teatro operistico: la e musica gestuale"· e La musica gestuale è una musica che consente all'attore di compiere determinati gesti fondamentali >; essa adempie alla e necessità di dare definizioni praticabili> 20 ; essa cioè rivela In trasparenza la struttura della società. 10 - Agli inizi, Brecht compose da sé la musica per il suo teatro. Solo però quando, con la messa in scena di Mann ist Mann (1927), ebbe luogo l'incontro con Kurt Weill, proveniente dalle esperienze sopra accennate « la musica assunse carattere d'arte, cioè valore autonomo» 21 , come ebbe a dire Brecht stesso. Weill scriverà la musica, oltre che per opere minori, anche per Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny (1929). Weill riusci a servire le esigenze brechtiane trovando una felice fusione tra dialogo e songs (canzoni), e usando comunissimi ritmi di danza, canzoni da chitarra, di tono smaccatamente sentimentale, utilizzando tango, fox-trot, blue, shimmy. E' una musica cui non si adatta affatto il canto «educato» (dice Brecht: e esiste un modo di ' parlare contro la musica ' che può ottenere grandi effetti») 22 • Stilisticamente il song di Weill derivava « dal tipo di canzone per le serve, un genere di canzoni lacrimogene, da cantarsi in tempo rubato, ed eseguite nei cortili di una grande città 23 accompagnate dall'organetto o dalla fisarmonica (...) Weill ne accentuò il tipo mediante sincopi da ritmo di macchina, sconcordanze e ritardi dell'armonia, (...) e piccoli procedimenti polifonici nell'accompagnamento>". Stile del resto da non assimilare alla musica atonale o dodecafonica, dalla quale Weill si distacca sia per motivi di ispirazione, sia per l'effettiva realizzazione tecnicomusicale. Nell'edizione del 1928 della Dreigroschenoper I songs venivano cantati con mutamento di luci, mentre cartelli calati dall'alto ne indicavano titolo e argomento. SI verificavano le teorie di Brecht per cui il canto, essendo solo uno del tre piani (discorso corrente, discorso elevato e canto) del discorso drammatico non è in nulla più e elevato> degli altri. e Il cantante diventa un relatore I cui privati sentimenti debbono rimanere affare privato> 2 •. « Soprattutto nelle canzoni Importa che 'chi indica sia indicato'> 20 • e La

musica, proprio con l'atteggiarsi a pura sentimentalità, con lo sfruttare accuratamente tutti gli abituali lenoncini narcotizzanti, aiutava a svelare le ideologie borghesi, adempiva, diciamo, ad un compito di sollevatrice di sudiciume, di provocatrice, di denunziante, 27 • Senza essere forse il punto più alto della creazione poetica brechtiana, la Dreigroschenoper ebbe il valore di una grande innovazione: riprendeva, sfruttava e concludeva tutti i discorsi dell'avanguardia teatrale (Piscator), mentre risolveva in arte la funzione didattica. e Quest'opera uscita di getto, rappresenta forse l'atto d'accusa più circostanziato contro la civiltà contemporanea che il linguaggio dell'arte abbia saputo dettare( ...) e poiché in questo processo l'individualità artistica del poeta e del musicista si fanno sentire in modo inconfondibile, si sono cosi raggiunte le condizioni dell'arte, "· 4. - Spesso la critica ha indicato l'ambiguità che c'è alla base del film Dretgroschenoper tra atmosfera fantastica e tendenze « realistiche > Il Pabst regista di Westfront e di Kamaradschaft, interprete cinematografico della Neue Sachlichkeit, avrebbe qui adottato un linguaggio per lui inconsueto, basato su una rievocazione fantastica, in un alone di sogno (nella realizzazione del quale però hanno grandissima parte lo scenografo Andrej Andrejeff e il fotografo F. A. Wagner). Questa e attribuzione delle parti > ha le sue radici in Kracauer ••, che molto giustamente Individua le differenze tra testo originale e film a) nelle varie innovazioni di sceneggiatura, per esempio la e farsa bancaria>; b) nel flusso narrativo che unisce in un tessuto compatto episodi in origine e montati>, folgorati l'uno dopo l'altro. In parole povere, un fatto di contenuto e un fatto di linguaggio. Per quanto riguarda 11primo punto la conoscenza del testo Il bozzo ci rivela in modo inequivocabile che tutti t mutamenti di sceneggiatura, tl cui merito (o demerito) era stato attribuito finora a Pabst, erano gtà stati scritti da Brecht, insieme con molti altri che Pabst ha poi lasciato cadere. Se valutiamo il famoso tradimento nei confronti de Il bozzo, e non del testo poetico, ci rendiamo subito conto come non una delle varianti di sceneggiatura del film sia originale; ma anzi come tutte siano soltanto brani superstiti della ben più ampia rielaborazione brechtiana. Due esempi. Il carattere di Gionata Peachum, variante religioso-puritana della violenza di Macheath veniva resa ne Il bozzo con l'espediente di far accompagnare Peachum da uno dei suoi uomini, che è stato picchiato dalla banda Macheath e ne ha ricevuto come ricordo un bozzo in testa. L'elemento caratterizzante del cinismo ipocrita di Peachum era quindi il suo invocare e giustizia per il vecchio Sam >. Quando il bozzo del vecchio Sam accennava a calare era Peachum stesso a farlo rispuntare a suon di botte. Per caratterizzare Peachum Pabst ricorre invece ad elementi non drammatici, ma descrittivi: la barbetta, il magazzino pieno di cianfrusaglie, le scritte bibliche, l'untuosità servile. Il personaggio del film in definitiva deve meno al regista che non ad Andrejeff o all'attore Fritz Rasp. Ancora: la sfilata dei mendicanti - e cioè la dimostrazione delle forze dei diseredati, che traboccano oltre i limiti loro fissati - non doveva secondo Brecht aver luogo realmente nel film; tuttavia non poteva mancare, per il suo valore e pedagogico>. Faceva quindi parte di un sogno, nella cattiva coscienza del capo della polizia. Cioè dovevano esser chiari, contemporaneamente, sia il fatto e proletariato>, sia la prontezza con cui i borghesi depongono le loro rivalità quando sono minacciati in quanto classe. Nella versione di Pabst la marcia dei mendicanti avviene realmente (ma non ha perduto il carattere di incubo) con il risultato di mostrare non il leone dormiente, bensl un leone che dopo aver ruggito, -11

inspiegabilmente torna nelle tenebre. Veniamo così al fatto e linguaggio>. Pabst non ha saputo sottrarsi alla suggestione del testo brechtiano - ma si è rifiutato di accettarlo fino in fondo e ha creato un tessuto narrativo tradizionale. I risultati contrastano quindi con la lettera e con lo spirito dell'originale. Un esame del destino della musica nel film ci conferma che le modificazioni finiscono con l'essere delle diminuzioni, se non pure dei fraintendimenti. Pabst Infatti mantiene nel film una scelta di quei songs già collaudati dal gusto popolare, ma introduce delle novità di tal peso che finiscono con l'alterare non solo la funzione della musica, ma anche il suo valore. Vediamo anzitutto cosa è rimasto. Pabst ingigantl, assegnandole funzioni rapsodiche, la figura del cantastorie che apriva la versione teatrale cantando il famoso Moritat con e La veridica storia di Mackie Messer>••. Nel film li cantastorie (il grande interprete di Brecht Ernst Busch) funge da filo connettivo della storia, Interrompendo a tratti l'azione per riassumerla, commentarla o anticiparla (come quando una strofetta sulle e virtù> femminili prepara lo spettatore al tradimento di Jenny e al successo di Polly). Canta inoltre la Ballata della vita piacevole, che originariamente era in bocca a Macheath in carcere. Compaiono ancora nel film: alcune strofette augurali cant~te dai banditi al loro capo che si sposa; la bellissima Canzone di Barbara ( e Con una canzoncina Polly annuncia al genitori le sue nozze col bandito Macheath >), cantata da Polly al matrimonio per rallegrare la compagnia di delinquenti; le poche battute del duetto d'addio, sulla scala del covo, tra Polly e Macheath; la meritatamente famosa Canzone dei cannoni. Riducendo un'opera musicata, un singspiel, a film, era ovvio che Pabst operasse una scelta all'interno della lunga partitura. La musica di Welll tuttavia permetteva ampi margini di equivalenza tra un brano e 12 - l'altro. Che durante le nozze Polly canti la Canzone di Barbara, invece di Jenny dei pirati, come nell'originale, ha meno importanza del fatto in sé e per sé che Polly canti una canzone, in quel contesto, in quel momento e con quel tono. E' che nel film il song appare sempre aggiunto. Abbiamo visto cosa Brecht intendesse per funzione della musica nel teatro epico. Il punto di vista di Weill stesso appare altrettanto chiaro (semmai fin troppo e parallelo> a quello di Brecht) quando egli scrive: eLa musica gestuale non è affatto legata al testo: si tratterà di fissare ritmicamente Il testo ( ...) la fissione ritmica basata sul testo non è dunque, per il compositore, un vincolo maggiore di quello che, per esempio, ponevano al musicista del passato gli schemi formali della fuga, della sonata, del rondeau. Nel quadro di una musica cosi predeterminata sotto l'aspetto ritmico sono ora possibili tutti i mezzi della espansione melodica e della differenziazione armonica e ritmica, purché gli archi di tensione musicali corrispondano all'evento gestuale>". Mettendo in luce la rivendicazione della autonomia musicale nei confronti del testo pure nello stretto legame col testo stesso, Weill ci fa capire che nel film di Pabst ciò che scompare è proprio questo carattere autonomo della musica, che, nella misura in cui viene sganciata dalle esigenze sceniche da cui era nata, perde non solo la sua funzione, ma il suo valore. La posizione dei brani superstiti nel film è infatti tale da contraddire alla loro natura. Mai usati a fini espressivi, ma elementi di contorno e di facile richiamo, i songs vengono cantati Interpolandoli artificialmente all'azione: tanto è vero che Pabst si è preoccupato di far cantare I personaggi quando logicamente sussisteva un motivo per farlo, non differentemente da qualsiasi commedia hollywoodiana. Cosi durante il banchetto; cosi alla fine del film quando I tre delinquenti festeggiano con la Canzone dei cannoni Il raggiunto accordo. L'unica volta in cui si passa direttamente dal discorso cor-

rente al canto, e cioè nel duetto d'addio sulle scale, lo spettatore non risce a coglierne il perché. Il moritat, che apre e chiude il film, acquista carattere di musica di scena, ovvero di una suite di brani musicali tendenti ad e interpretare , una situazione o uno stato d'animo. Non musica che agisce sull'azione, ma che la segue; non musica che denarcotizza lo spettatore, ma musica che si lascia <godere>, musica gastronomica. Cioè, nella sost_anza, il peggior nemico di Brecht e Weill. Ma, come si è detto, la conseguenza più grave di questa incomprensione pabstiana è il fatto che la musica di Welll, mutate le funzioni perde il suo valore, e non il suo valore scenico, ma propriamente il suo valore autonomo di fatto musicale. Un accompagnamento che casualmente è al posto di qualsiasi altro possibile accompagnamento, che potrebbe essere stato scritto da qualsiasi alto autore dotato di quella facilità inventiva che della musica di Weill è in fondo' l'elemento meno importante. Indubbiamente - e la stessa scelta dell'opera da • Abbiamo preso in esame la copia con la versione tedesca del film, gentilmente fornita dalla Cineteca Italiana di Milano. Tra gli interpreti di questa versione figurano i nomi più prestigiosi del cine e del teatro tedesco dell'epoca: Rudolf Forster (Mackie Messer), Carola Neher (Polly), Lotte Lenia (Jenny), Frltz Rasp (Peachum), Valenska Gert (Signora Peachum), Reinhold Schlinzel (Tiger Brown, capo della Polizia). Scenogr.: AndreJ AndreJeU; Fot.: Frltz Amo Wagner. 2 Le musiche di Weill sono state controllate sul disco Philips TW30074, che riproduce una incisione, del dicembre 1930, della prima versione teatrale dell'opera. Una discografia completa di Brecht, ma che indica solo titoli recenti, sta in appendice a BERTOLT BRECHT, Poesie e Canzoni, Traduz. di Ruth Leiser e Franco Fortini, Einaudi 1959. • In particolare, per quanto riguarda Pabst, si troverà una bibliografia aggiornata sulla ENCICLOPEDIA DELLO Sl'ffrACOLOa,lla voce Pabst, cui è da aggiungere oltre alle voci delle note (4) e (6), Gumo AIIISTARCO, Il cinema tedesco e Il passato nazista, Cinestudlo filmare lo conferma - Pabst intendeva riprendere la polemica sociale insita nella Dreigroschenoper di Brecht, ma non era disposto a scostarsi da criteri tradizionali di regia; poteva rinunciare ai suoi temi e al suo <stile > preferito, ma non tentare la strada dell'esperimento, che era l'unica per avvicinare un testo cosi rivoluzionarlo. Potrà trattarsi, come sostiene Di Giammatteo 32 di una e stanchezza , che prefigura le future compromissioni col nazismo. Certo il discorso e la revisione da intraprendere, anche per quanto riguarda i film e pacifisti, ed e internazionalisti , dello stesso periodo, Westfront e K amaradschaft, è ancora da iniziare, a quanto ci risulta. Ma è illuminante che l'occasione che Brecht gli offriva, col suo testo e col suo aiuto diretto, di tentare un rinnovamento integrale del linguaggio artistico sia una occasione perduta. Fraoccsco Maooioo Antonino Recupero n. 7 (Quaderni del Circolo Monzese del Cinema), Mo112a,Marzo 1963. • BERNARD DoRT, Per una critica brechtiana del cinema, in Il Nuovo Spettatore Cienmatografico, nuova serie n. 2, dedicato a « Brecht e il cinema 11. • Il Nuovo Spettatore Cinematografico, cit., pp. 3-4. • FERNAUlO DI GIAMMATIEO, 'Die Dreigroschenoper ' ritratto del Pabst prenazista, in Bianco e Nero, XXI (1960) n. 8-9. 1 Il Nuovo Spettatore Cinematografico, cit., pp. 5-18. • Ibid., p. 62. 9 BERTOLT BRECHT, Nuova tecnica dell'arte drammatica, in Scritti Teatrali, cit., pp. 13-15. •• BERTOLT BRECHT, Letterarizzazione del teatro, in Scritti Teatrali, cit., p. 25. 11 ibld., p. 21 e 26. " ibld., p. 22. u BERTOLT BRECHT, Il teatro moderno è il teatro epico, in Scritti Teatrali cit., pp. 13-15. - 13

" BERTOLT BRECHT, Opera - ma novità, in Scritti Teatrali, c!t., p. 21. 15 Tuttavia il particolare peso del movimento dadaista nella sua versione tedesca non può assolutamente essere ignorato per il suo valore di incubatore delle successive « avanguardie » politicamente e artisticamente coscienti. Né d'altro canto, come capita di leggere (In Stuckenschrnidt, p. es.), « avanguardia e rivoluzione andavano a braccetto » tout court. Almeno per quanto ri• guarda le esperienze connesse con il teatro, basta la lettura delle memorie di P1SCAroR (11 teatro politico, Einaudi, 1960, specie i capp. I-II) per renderci conto di quanto disperata fosse la lotta per creare una nuova arte come linguaggio nuovo di un mondo rinnovato, anch'esso da creare; in ambedue i casi, l'artista politico non ha nulla alle sue spalle; il che significa propriamente « avanguardia ». Nel caso di Piscator si trattava di utilizzare le « avanguardie » per la creazione della nuova arte: una battaglia niente affatto vinta in partenza. La posizione di Brecht è peraltro infinitamente più ricca di mediazioni. 10 « musica pratica, destinata ali 'esecuzione di buoni dilettanti e scritta quindi in modo a loro adeguata con corretta e solida fattura, chiara, senza eccessive di!ficoltà » cosi la definisce MA.sSIMO MILA (Breve Storia della musica, Einaudi, 1963, p. 383). Le musiche nei drammi di Brecht e Weill sono ottimi esempi di gebrauchmusik ad allo livello; Brecht, proprio rendendosi conto del pericolo che anche queste musiche originassero nell'ascoltatore un atteggiamento passivo, ha saputo usarle « dialetticamente» (v. Scritti Teatrali, cit., p. 18). 17 MAss1Mo MILA, Breve storia della Musica, c!t., pp. ~- u' H. H. STUCKENSCHMWT, La musica moderna, Einaudi 1960, p. 230. ,. ibid., pp. 231-2. 20 BERTOLT BRECHT, La musica nel teatro epico, In Scritti Teatrali, cit., pp. 183-5. 21 ibid., p. 181. 22 BERTOLT BRECHT, Letterarizzazione del teatro, In Scritti Teatrali, cit., p. 24. 22 In due film tedeschi all'Incirca dello stesso periodo, M di Fritz Lang e Kuhle Wampe di Brecht e Dudow compaiono ripetu. tamentc immagini di codesti suonatori, generalmente invalidi di guerra, girovaganti per i cortili. " H. H. STUClU'.NSCHMWT, La musica moderna, c!t., p. 234. 14 - 2s BERTOLT BRECHT, Letterarizzazione del teatro, in Scritti Teatrali, cit., p. 15. 2• ibid., p. 24. " BERTOLT BRECHT, La musica nel teatro epico, In Scritti Teatrali, cit., p. 182. 21 LUIGIROGNONI, Espressionismo e dodecafonia, Einaudi, 1954, p. 94. 2 • SIEGFRIEDKRACAUER, Cinema tedesco (Da Caligart a Hitler), Mondadori, 1954, pp. 293-7. ,o La figura del cantastorie è del resto familiare al teatro e anche alla lirica brechtiana. " Da uno scritto di Kurt Weill, apparso per la prima volta in italiano su Rinascita del 29 febbraio 1964. L'articolo non porta indicazioni sulla data della composizione ma è certamente anteriore al trasferimento di Weill negli S. U. ,. ' Die Dreigroschenoper ' ritratto del Pabst pre-nazista, cit. (v. nota 6).

,,-; _:•. . .... ~-. :-. ') ...... · .... dibattito • SUI . ... problemi della • • cr1.t1.ca

16 - Ambiguità di sacro e profano in Ingmar Bergman Dal calderone biografico cli Bergman potremmo pescare in copia episodi, leg• gende e testimonianze, da giustificare poi in intelaiature ideologiche anche op• poste. Ma in sostanza si ricavano due indicazioni che permettono cli accostarci al regista pur con grosse approssimazioni per difetto o per eccesso. Anzitutto, una impressione cli doppiezza cli casi, di aneddotica contradditoria, di brio cupo, cli ascetica macerazione e cinismo un poco dozzinale, sentenzioso. Materia posta a con• trasto, che consente ai cronisti di sguazzare negli andirivieni della descrizione psicologica di << questo uomo psicopatico e instabile ( alla quarta moglie e al settimo figlio)», sempre combattuto « tra il desiderio della carne e la solitudine dell'animo », col volto che sembra « diviso anch'esso in due metà: la destra è come morta, la sinistra è più viva, tanto che l'occhio sinistro è più acuto e da quell'orecchio ci sente meglio », come scrive l'inviata de L'espresso. Si proclama credente, ma affrettandosi a sfuggire alla presa confessionale: anche qui non confuso con la massa dei fedeli, isolato ed inaccessibile: « Se Dio non esiste la vita non ha senso ( ...) Notate che io Credo in Dio, non nella Chiesa, protestante o no che sia. Credo in un'idea superiore che viene chiamata Dio. Lo voglio ed è necessario. Credo che sia assolutamente necessario. Il materialismo integrale non potrebbe condurre la umanità che in un vicolo cieco senza calore. Per me, i problemi religiosi sono sem• pre vivi. Non cessano mai di interessarmi ad ogni ora del giorno. Però questo non avviene sul piano emotivo ma su quello intellettuale. L'emozione religiosa, il sentimentalismo religioso, è qualcosa di cui mi sono sbarazzato da un pezzo, o almeno lo spero. Il problema religioso, per me è un problema di tipo intellettuale. Il problema del rapporto tra la mia mente e la mia intuizione. Il risultato di solito è una specie cli caos ». Oscillando sul caos, riesce a tenere a bada coloro che invocano la conversione: « Quando mi chiedono se sono credente, rispondo sì, incondizionatamente, se si intende che sono convinto che esiste una realtà al di fuori di ciò che noi vediamo e tocchiamo. Se mi si chiede se sono cristiano, debbo rispondere con più titubanza. E nemmeno penso a convertirmi al cattolicesimo. Quando si

è educati da un padre nella regione evangelico-luterana, da un padre che possiede una devozione profonda, allora si sa che cos'è quella religione. Non c'è alcuna ragione di cominciare a gironzolare attorno ad altro, nella convinzione che possa soddisfare di più un intellettuale ». Tanto polivalente era questa ricerca di Dio che il Dr. Wieselgren, professore al Teatro Reale, antico insegnante di Bergman e di Bjornstrand, drammatizzava l'ipotesi di un dissidio inconciliabile: « Quanto alla posizione religiosa di Bergman, penso che egli possa dire come il padre del figlio ammalato: Credo. Adiuva incredulitatem meam! (M. C. IX 24) ». A sostegno di tale macerazione religiosa si citano i momenti in cui l'assalirebbe la paura della morte, contratta nell'infanzia, un senso cupo di inutilità, il peso della solitudine: << Nessuno - ripete il regista - può vivere con la morte, ed io mi sento la morte addosso ». Ma sull'altro versante, ecco una vita vissuta pienamente, equilibrata, ordinata, carnale, riparata egotisticamente dietro le opere e il lavoro: « lo non conosco che una sola lealtà: la lealtà verso il film a cui sto lavorando. Per esso potrei mentire, prostituirmi, rubare. Potrei persino uccidere i miei migliori amici se ciò fosse necessario al mio lavoro ». I rapporti con le donne sono numerosi, burrascosi, anch'essi contradditori, spesso addirittura crudeli. Le donne, dice, lo interessano tutte, ma più" come animali da esperimento che come essere umani. « Qualcuna mi piacerebbe ucciderla. Da altre vorrei essere ucciso ». Ma poi le parti si invertono, e la donna viene presentata come guida, come protezione, consolazione, chiarezza, forza vitale. In patria Bcrgman lavora appartato, anzi si isola e si lascia difficilmente accostare, polemizza con la gerarchia dei valori nel sistema svedese, non raccoglie troppe simpatie fra i suoi compatrioti. Eppure non riesce a lavorare distante dalla Svezia. All'estero viene assalito da quella che chiama la grande paura. Gli alberghi lo infastidiscono, il contatto col pubblico l'esaspera; soffre di claustrofobia, d'agorafobia, di misantropia. Egli stesso racconta la sensazione di gioia che determinò in lui la sua decisione definitiva di rifiutare una lusinghiera proposta del cinema americano: « ( .•.) pensavo che evidentemente sarebbe stato bello avere centocinquantamila dollari, che sarebbe stato piacevole avere delle rotaie non contorte, un carrello che non andasse in pezzi, una macchina da presa che non facesse un rumore d'inferno, che sarebbe stato certamente interessante permettersi, per una volta, di fare un film di costo forse superiore ai centocinquantamila dollari, e che ognuno è ben libero di sperimentare delle novità. Nonostante tutto questo, decisi di dir no all'offerta americana. Bruscamente, sentii una gioia violenta e un sollievo, ebbi una sensazione di sicurezza, la sensazione di chi si trova nella propria casa ». E, finalmente, parie lancia in resta contro certi miti svedesi della convivenza nel benessere, eppure al tempo stesso non perde occasione per proclamarsi conservatore: « Io non ho mai avuto bisogno di imborghesirmi. Sono sempre stato -17

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