giovane critica - n. 3 - feb.-mar. 1964

altri valori, non meno specificamente cinematografici. E' per questo che la profondità di campo non rappresenta una caratteristir.a dell'operatore, come l'uso dei filtri o un certo tipo di illuminazione, ma un·acquisizione capitale della regia: un progresso dialettico nella storia del linguaggio cinematografico. Del resto, anche le opere del neorealismo mirano ad un racconto cinematografico capace di esprimere tutto senza spezzettare il mondo, di rilevare il significato profondo degli esseri e delle cose senza infrangerne la naturale unità e il loro tempo reale. • Segnalo un episodio sintomatico che scarnisce il nostro argomento: il dibattito sull' Eclisse, proposto da Il contemporaneo nel giugno 1962. La posizione di Galvano della Volpe, intesa a difendere la prerogativa per il cinema di esprimere concetti e pensieri, proprio come capita ad altri mezzi di espressione (anche se con linguaggio diverso), senza preoccuparsi di esclusioni o limiti: questa posizione viene fronteggiata da una serie di interventi stravaganti che per giudicare l'opera di Antonioni argomentano in questi termini:, il film di Antonioni non va perché questo regista ha una vocazione letteraria e invece si affanna ad adoperare la struttura filmica: gli occorrono le parole e non le immagini; altri interlocutori rimproverano al regista di avere un montaggio interno elaborato e non un montaggio per stacco: e quindi sembra ad essi che Antonioni tradisca e violenti il mezzo espressivo. Difatti, il cinema non potrebbe rendere psicologie sfumate, pensieri, meditazioni, proprio come « la musica non può dare i volumi come la scultura » ecc. 44 - 5) Infine, significa che dentro quella misura storica dello specifico cinematografico, le direzioni del linguaggio del cinema sono infinite e parimenti legittime (o pure, come si dice): con l'intreccio o senza, con personaggio e no, romanzo o antiromanzo, documentario o spettacolo, ellissi o descrizione, figurazione e no, emozione o avvenimenti e fatti, corpi materiati o astrazioni, caratteri o simboli e allegorie, spazio stretto (L'uomo di Aran, Giovanna d'Arco, Luci d'inverno, ecc.) e spazio largo (le praterie di Ombre rosse); tempi stretti e tempi larghi, montaggio classico sovietico a pezzi brevi, o montaggio lento nel quadro, ecc.: il valore, il peso, il distinguere stanno sempre nell'interno dell'opera, nella specifica individualità di ogni opera: e qui va ricondotto il giudizio e l'esegesi critica. Sicché diventa irrilevante (a meno che non si voglia spingere verso approcci culturali necessari o giusti suggerimenti di appoggio creativo) il discorso sulle parentele del cinema e l'altro, simmetrico, dell'assolutezza incontaminata del cinema (che, poniamo, prescrive il montaggio tagliato alla prima maniera sovietica). E quindi, in conclusione: non si «riduce» o traduce in cinema una pagina di Kafka, una lirica del Petrarca, la Ginestra leopardiana, una evocazione proustiana o la Quinta sinfonia, ecc. - ma non perché il cinema non possa esprimere il mondo dei contenuti concettuali o l'addensarsi di situazioni interiori, spirituali - ma per la ragione che in nessun'altra forma si possono ridurre o tradurre quelle opere: non si traduce, in effetti, neanche da una lingua ad un'altra o da un episodio letterario ad un equivalente episodio letterario: proprio come (secondo l'esempio ormai canonico) non si deve posporre anche una sola parola in una medesima composizione verbale: caro mi fu sempre questo colle al posto di sempre caro ecc.•. Pio Bnldelli

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