giovane critica - n. 3 - feb.-mar. 1964

" Cfr. Intervista con Mario Monicelli, nel volume (curato da Pio BALDELLI) J compagni, Cappelli, 1963, pp. 43-52. 34 - di assistere a un fatto, il cozzo tra la classe operaia embrionalmente organizzata e il padrone - occasione già cara a numerosi autori della letteratura moderna e da loro elaborata in opere di diversa fattura e qualità: dal Zola di Germinale, all'Aragon della prima parte de Le campane di Basilea, allo Steinbeck de La battaglia -, qualitativamente contemporaneo. Tutto il lavoro coi collaboratori viene impostato da Monicelli in tal senso: cosi al maestro Rustichelli, autore del commento musicale, egli chiede che "scremi continuamente il superfluo di sentimento». Lo stesso avviene per il lavoro cogli attori che Monicelli cerca di ficcare dentro il blocco operaio, evitandone gli « a solo> da primadonna, i ghirigori divistici o toni recitativi troppo spiccati. Monicelli è personalmente interessato al genere comico, ma a una sorta di comico del tutto desueta in Italia ove, dice Monicelli, « Circondati da una serie di intoccabili feticci, imbrigliati nelle maglie di un conformismo ufficiale, pieno di miti, di idoli, di paure, il comico cinematografico percorre l'unica via permessa, si limita alla risata superficiale, alla barzelletta che fa ridere non perché mette in caricatura uomini e istituzioni (e ha quindi un suo aspetto critico, un risultato positivo) ma soltanto perché è sconcia>. Al regista, e ai suoi sceneggiatori, sta dunque a cuore una misura spettacolare e «popolare" - senza che questo sottintenda, parafrasando quanto Lukàcs dice di Keller, un chinarsi verso il popolo - degli eventi, non tale però da esaurirne le ragioni vive che continuano a palpitare sotto le guise del comico. Naturalmente la scelta del genere non poggia su ragioni di predilezione formale, o comunque causali, ma ha le sue radici nella personale tempra di Monicelli, nella sua specifica capacità di dosatura narrativa: le penombre e gli intervalli del genere comico gli permettono di meglio padroneggiare la materia che egli è incapace a reggere se condotta su un unico acceso tono drammatico (atteggiamento che lo ha condotto a risultati, come La grande guerra, tutt'altro che disprezzabili e, a loro modo, affatto originali). Purtroppo il film non conferma, o solo minimamente, questi interessanti propositi; la temperatura del racconto rimane assai bassa e solo raramente lo sberleffo, la smorfia o l'inciampo comico non diluiscono la vicenda. Si veda, ad esempio, la stilizzazione dozzinale di personaggi-chiave come Pautasso (caratterizzato con tutta una serie di particolari d'accatto: la pagnotta enorme da trangugiare, la manata facile, l'andamento scimmiesco, l'entusiasmo battagliero) e l'emigrato siciliano (e particolarmente falsa ci è parsa l'introduzione nella catapecchia in cui questi abitp.va: con quel repertorio ambientale da arcaica maniera neorealista: il bambino scoperto sul

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