giovane critica - n. 3 - feb.-mar. 1964

In un memorabile saggio polemico del 1954, Cinema controrealista (ripubblicato in Realismo e controrealismo, Milano, Del Duca, 1958), Carlo Muscetta - condividendo almeno parzialmente le posizioni di Aristarco e di Chiarini e contraddicendo le opinioni e aristocratiche> di Di Giammatteo o quelle gesuiticamente e pie> di Gian Luigi Rondi - offriva una lucida analisi programmatica di tutto un filone evasivo ed eversivo del nostro cinema di allora che tendeva a identificarsi con il cinema italiano tout court. Il Muscetta esemplificava il suo primo dubbio sostanziale riferendo la storiella del veliero carico d'agrumi affondato per bombardamento nel porto di Napoli. « Ogni sostanza galleggiante, quel giorno, lieta di confondere il suo specifico odore tra l'insolito profumo di qualche bel frutto, danzava sulle acque e cantava: Oggi siamo tutti arance>. Per dieci anni - aggiungeva Muscetta -, chiunque abbia mostrato anche la più ambigua e la più vaga aspirazione all'epiteto di realista lo ha potuto sfoggiare quasi senza obiezioni: tutti realisti; e rilevava: « Oggi la critica comincia ad usare più sobriamente questo vocabolo e si comincia a intravvedere che, nell'àmbito della poetica predominante nell'arte contemporanea, una certa corrente, pur continuando a valersi dei modi formali conquistati dalle opere più avanzate, segue un indirizzo evidentemente reazionario>. Sono osservazioni, queste, che non possono oggi non svelare la loro completa e piena attualità, anche se necessita loro un inevitabile adeguamento (secondo le linee di una diversa condizione storica e di un mutato atteggiamento socio-psicologico) e se, a parere di molti, di troppi - lo sottolineo in funzione polemica - 10 - Noia, corruzLone e successo quel tale « realismo » non dovrebbe costituire più la « poetica predominante nell'arte contemporanea,, proprio come sempre quando accade che processi di «massificazione» e di teorizzata «alienazione> voluti da una certa « industria culturale » subentrino allo stadio artigianale della ricerca espressiva e del contatto uomo-società (quando, in altre parole, la « civiltà dell'immagine» si pone all'incondizionato e indiscriminato servizio di un'aberrante psicosi collettiva, e l'esperienza - intesa come possibilità di continuo confronto con la realtà sensibile, di cui siamo complici e compartecipi, e di meditato vaglio ideologico - cede il passo all'esperimento postulato come teorica dell'inconcluso, si tratti del!' «opera aperta> alla Eco o delle conseguenze di un « eclissi intellettuale> alla Zolla, cioè - per usare grezzi termini politici - della poetica programmatrice di « centro-sinistra > o di «centro-destra>, rispettivamente). Il Muscetta, scrivendo in quegli anni, ovviamente e giustamente si riferiva a esempi intitolati Due soldi di speranza e Pane, amore e fantasia, entrambi prototipi - in discendenza diretta l'un l'altro - di una diseducazione contenutistica (e, ancor prima, formale). Il primo « era gesuitico perchè ci presentava il quadro di una realtà tutta consolata e lambita da una luce di idillio, proprio quando questa realtà n!'llla storia che viviamo è caratterizzata da una tensione di cui ogni giorno vediamo i conflitti >; il secondo perchè - mutuando le parole dello stesso Muscetta - « moralizzava esteriormente una stari~, la quale, proprio nei suoi momenti poetici, appariva giocata su una finissima sensualità, che trascorreva musicalmente dai personaggi al paesaggio, (e quest'ultima affer-

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