giovane critica - n. 1-2 - dic.-gen. 1963/64

GIOVANE CRITICA centro • un1ver si tari o • cinema tograf • lCO

• • cr1t1ca GIOVANE ■ CRITICA ■■■ ■■■ 1e ■--~~~!:~ 1 2 Il■ s!tario cmema ■ ~ograf !CO Dicembre - Gennaio 1963/64 direttore responsabile: comitato <li redazione: redazione: copertina, tema grafico e disegni: Pietro Battiato Miriam Campanella, Vittorio Campione, Gaetano Leo, Giampiero Mughini, Antonino Recupero e/o Giampiero Mughini, via F. Cilea 119, Catania Roberto Laganà L'abbono.mento alla rivista - che dà diritto a quattro numeri e ai corrispondenti opu1coli è fissato in L. 1.000 da versare oll'.indirizzo rcdaaionalc. Un numero separato: L 350 • un numero doppio: L. 500. Finito di stampare nella tipografia dcli' Università di Catania il 4 gennaio 1964.

4E' facile obbiettarci che difformità e attriti non mancano nell'àmbito di questo schieramento (che è, dichiaratamente, uno schieramento « di parte >; e di essere anche noi e partigiani>, apertamente e senza reticenze, è l'unica cosa di cui ci vantiamo e siamo orgogliosi, specie in questi tempi di sgangherate compromissioni e di nauseanti abbracci). Lo riconosciamo senza difficoltà; e non ci lascia attoniti e meno che mai ne facciamo un trauma. Indubbiamente la situazione della critica cinematografica, e il recente Convegno di Porretta lo ha confermato, è assai fluida e problematica; non esiste, neppure nell'àmbito della critica «militante>, un'unità granitica di valutazioni e di apprezzamenti. Ma i problemi e gli assilli dell'Qggi, in ogni campo e a ogni livello, sono tali da far comprendere e condividere i dubbi, i ripensamenti, le richieste di cautela e di verifica che si inoltrano da più parti; oggi, in questa fase storicamente di transizione, lenta e s;-1ervante, le quotazioni delle verità orgogliosamente possedute sono assai basse: è tempo di dubbi e di esitazioni, gravi ma forieri, si diceva a Porretta, « di nuove e più autentiche certezze». Ed è questo atteggiamento che guida l'articolazione del dibattito, che tanto ci sta a cuore, sui problemi metodologici della critica. Occorre poi ribadire come non essere e provinciali > non significa certo dimenticare ed eludere il terreno concreto, nelle sue varie coordinate socialipolitiche-culturali o di pretesa culturale, nel quale ci siamo formati dal quale siamo in larga parte condizionati. Intendiamo cioè rovistare nelle penombre e nei simulacri della provincia, nella stia inerzia e nei suoi fermenti e agitazioni vive, illuminare quanto ci sia in esse di significativo e di rivelatore, su scala minore, di una topografia nazionale. E questo spiega, ad esempio, un'iniziativa come l'inchiesta su e cultura in provincia > e le altre, similari, che seguiranno. Ci rendiamo conto inoltre di essere e giovani > e sappiamo quanto questa condizione sia limitativa e gravosa; dell'esser giovani rifiutiamo però un sintomo frequente: le sfuriate garibaldine contro tutto e tutti, i proclami stizzosi: e prima di noi nulla>; riaffermiamo che prima di noi ci sono stati molte opere e molti autori senza i quali non avremmo capito neppure l'abc del tempo in cui viviamo, e di questo siamo loro, e non accademicamente, grati. Elencarli sarebbe troppo lungo. Come siamo grati, e lo diciamo qui una volta per tutte, a Pio Baldelli, Adelio Ferrero, Lorenzo Pellizzari, Ezio Stringa, senza i cui aiuti e consigli, sempre fraterni e disinteressati, questa rivista non sarebbe mai nata.

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La stampo dei quotidiani. dei rotocalchi, delle riviste e delle <«collane» sov,veoziooate. 6Linee organizzative e critiche della pubblicistica cinematografica Se consideriamo tutta la pubblicistica cinematografica nel suo complesso, dal servizio reclamistico contornato da attricette spogliate, al saggio ponderoso con ambizioni al premio Viareggio, salta subito agli occhi la prepoodera~a schiacciante di un tipo di stampa condizionato, vorremmo dire foraggiato, dalrindustria cinematografica. La constatazione è ovvia, e tuttavia merita di essere meditata a fondo, rifacendoci ad alcuni punti di quello stupendo saggio che è Cinéma et monopoles di Heori Mercilloo. Sappiamo cioè che il cinema, invece di adallare l'offerta ai bisogni della domanda, « mobilita soprallulto la propria energia nel senso d'adattaziooe della domanda ad una offerta preesistente », e per far questo deve per esempio fornire io anticipo agli spettatori una discreta conoscenza dei films prossimi ad apparire sul mercato. La pubblicistica cinematografica sarà sempre, perciò, uno dei migliori mezzi per arrivare ad un adattamento della domanda. Chiedersi quali siano io prevalenza le linee organizzative della stampa sul film vuol dire allora chiedersi, nè più, oè meno, quali siano gli indirizzi pubblicitari degli uifici stampa delle maggiori case cinematografiche. Mi riferisco a circa l'ollaota per cento de!Ja carta stampala dedicata al cinema io Italia; mi riferisco ai quotidiani, ai rotocalchi, a certe riviste specializzate, a certe collane di libri cinematografici, persino a!Je rubriche radiotelevisive. Questi indirizzi si sono molto modificati negli ultimi dieci anni, da quando cioè il cinema italiano, que!Jo industrialmente più qualifcato, sta cercando di mellersi su un piano hollywoodiano, non solo io senso produttivo, ma addirittura in senso psicologico. Siamo al punto cioè che anche gli autori più indipendenti, quando cominciano una sceneggiatura non possono fare a meno di vederla subito sotto un profilo internazionale. Pontecorvo non gira Paras finchè non avrà Paul Newmao; Visconti ha abilmente truccato Lancaster da nobile siciliano mentre pensa a Marlon Brando per Lo straniero; Rosi ha caratterizzato con Rod Steiger un farabutto italiano, e così di seguito. C'è l'ambizione di rivolgersi, come ha sempre fatto il cinema americano alle platee di tutto il mondo attraverso lo star-system, col rischio di dedicarsi alla distrazione evasiva « d'una immensa piccola borghesia »

1 HENRI MERCtLLO~, Cinema e monopoli, Boe.. ca, 1956, pag. 140. occidentale, col rischio di un livellamento e uno standard espressivo cui pericoli sono evidenti. Dal canto loro, gli « uffici stampa » delle maggiori case cinematografiche, finito lo spaesamento del primo decennio dopo la guerra, hanno cominciato a scimmiottare i colleghi americani e forse, in alcuni dettagli non proprio corretti, anche a sopravanzarli. E' significativo come una pagina del Mercillon scrilla nel '53 per individuare il ruolo della pubblicità nel cinema americano cominci ad adattarsi anche agli alluali indirizzi pubblicitari dell'industria italiana: « li ruolo principale della pubblicità sarà anzitullo quello di imporre il cinema quale sola e vera soddisfazione del bisogno di distrazione. Bisognerà negare gli altri bisogni che potrebbero cercare d'esprimersi: quelli in relazione con i problemi politici, morali e culturali. Si cerca dunque di agire fisicamente sugli spettatori per creare in essi un'abitudine: l'abitudine di una distrazione non attiua e gregaria. La pubblicità ha sovente l'incarico di risolvere il problema della soddisfazione di clientele molto diverse fra loro che, in linea generale, desidererebbero dei prodolli molto dif. ferenziati. Bisogna dare l'impressione ad ogni classe sociale che il film la concerne e corrisponde a ciò che essa s'allende dal film stesso. Ben inteso è importante eliminare rapidamente i non conformisti che cercano di trasformare iJ valore d'uso standard del prodollo ed a dargli altri valori d'uso, il che spiega la stretta sorveglianza esercitata sugli sceneggiatori (gli intellettuali della professione) da parte dei produttori e della censura. Al contrario la pubblicità rafforzerà ancora la popolarità degli attori e dei registi, il cui lavoro corrisponde esattamente allo standard dell'anierican tvay o/ li/e, realtà sicura diventata rapidamente mitica grazie al cinema » 1 • Può darsi che, grazie alla nostra organizzazione pubblicitaria, l'italian tvav o/ li/ e, l'Italia del miracolo economico, riesca a riflettersi nella popolarità di Fellini, della Cardinale, di Gassman e di Sordi. Intendiamoci, l'organizzazione degli uffici italiani non raggiungerà facilmente la perfezione quasi scientifica americana, che si serve con metodo delle inchieste Gallup, di serie indicazioni di mercato, di un perfetto apparato tecnico e specialistico. L'approssimazione della nostra industria del film, la mancanza di reali capitali, il gioco con le cambiali e col credito, si riflettono inevitabilmente in approssimazione pubblicitaria: quasi sempre i nostri « capi uffici stampa » sono dei giornalisti mancati, brillanti nella conver-- sazione, disponibili ed elastici, persino capaci di scrivere un articolo. Tuttavia nessuno di loro proviene da un qualsiasi istituto professionale di pubblicità che forse in Italia non esiste neppure. Sono, escluse poche eccezioni, dei « faciloni » del lancio divistico e del sondaggio d'opinione. La loro capacità direttiva è comunque minima e spesso priva di iniziativa: si limitano a mettere in pratica le istanze stt· -7

8periori. Tipico il caso della società De Laurentiis, dove chi decide le linee principali pubblicitarie è lo stesso presidente. In effetti questa casa più di tulle tende all'imitazione dei sistemi americani, e pare sulla strada di riuscirci, sia pure con uno strano e congruo aiuto della Cassa del Mezzogiorno. Di tipica ispirazione USA (l'aspirazione al « ciclo completo») è stato l'acquisto, da parte di De Laurentiis. del rotocalco Le ore, il cui direttore, l'ex critico cinematografico Vittorio Bonicelli, anche consulente per i soggetti da produrre, sembra quasi il simbolo di una situazione che potrebbe definirsi comodamente delJa critica neocapitalistica, della critica integrata nel sistema. Ma il controllo della stampa dei rotocalchi da parte delJ'industria del film è sempre stato effettivo, sfacciatamente manifesto, come nel caso del settimanale di Rizzoli, o persino nella creazione di un rotocalco cinematografico da parte della Titanus. In fondo questa pubblicistica, che solo nel dopoguerra ha avuto grande diffusione, si rivolge proprio alJa borghesia indifferenziata che determina il successo o l'insuccesso di un film. Da qui, nell'imminenza di una « prima » piuttosto importante, il piovere, su quelJe pagine lucide, delle notizi<- biografiche sul regista, dei servizi pieni di aneddoti sulla lavorazione e sugli attori, di interviste scoppiettanti a questa o a quella personalità: sono le bordate di preparazione, condite da foto e copertine dove il sesso è di prammatica, sono le tecniche dell'offerta del film come prodotto cli consumo attraverso il così detto « giornalismo brillante », prediletto dalle scrittrici mondane. Che importanza ha, se alla scrittrice in questione del cinema non importa un accidente, e sbaglia date, trame e titoli del film? Il pubblico, quello vero, non frequenta le cineteche, nè tanto meno legge la storia del cinema. Poi, nella settimana dell'uscita del « capolavoro », ecco la recensione - molto richieste quelle eseguite da scrittori di vaglia - che si risolve in un altro invito a vedere la pellicola. Infine, se qualche Trombi ci ha messo la coda, un bel servizio scandalistico magari con le immagini proibite è una fortuna insperata. L'ufficio stampa, il centro organizzativo di questa pubblicistica, segna intanto i compensi nel « budget » dedicato agli articoli. Questo « budget » è particolarmente importante per quanto riguarda la critica dei quotidiani. Diverse case di produzione sono solite mandare ai giornalisti una cc gratifica », a benevolo titolo di ringraziamento, quando il giornale pubblica un servizio sul film che si intende propagandare. Questo trattamento così squisito verso i redattori cinematografici esclude ben pochi quotidiani; non si fanno discriminazioni politiche, anzi è preferibile che una notizia appaia in giornali di partiti opposti, perchè in tal modo si raggiunge una penetrazione maggiore. Di solito i giornalisti che rivelano più sensibilità verso tali gratifiche dimostrano, per gli uffici stampa, di avere spiccatl' attitudini alla pubblicistica cinematografica, ed è molto facile per loro essere as-

sunti poi da questo o quel produttore come aiutanti del capo-ufficio. La cuj abilità sopraffina sta, riguardo ai quotidiani, nell'ottenere il maggior numero di recensioru favorevoli nel giorno dell'uscita del film. Si sa infatti che una discreta percentuale dj spettatori può essere indirizzata o sviata dalla visione di una pellicola a seconda del tono positivo o negativo delJa recensione. on succede mai comunque, specialmente negli ultimi tempi, di leggere una solenne stroncatura di films italiani importanli su cui i nostri produttori puntano carte fondamentali. Chi mai può volere la morte del cinema italiano? Una volta che un critico osò dfr peste e cornll di un banale film celebrativo su] risorgimento ci fu una specie ili solJevazione nazionale. E' probabilmente casuale, ma oggi lo stesso criLico non scrive più su quotidiani. L'influenza delJ'indusLria cinematografica verso ]'organizzazione pubblicistica non si ferma a questo massiccio controllo dei giornali e dei rotocalchi. cl " budget » è anche prevista una cifra per operazioni edjtoriali diciamo ili prestigio. E' il momento, del tutto apparente, in cui l'industria sembra voler scendere, con aria da mecenate, a braccetto con la « cultura ». In realtà questa forma di pubblicità ili tipo più « spirituale » è completamente bandjta dai produttori non appena c·è aria di crisi: allora, i donativi più o meno interessati a questo o a quell'eilitore vengono ritenuti superflui. Il fatto è che per l'industriale di cinema disLribuire agli eleganti spettatori della " prima » di una pellicola una lussuosa copia della sceneggiatura del film in questione, ha il medesimo significato culturale ili regalare in altra occasione una orchidea o uno speciale profumo alle << gentili signore presenti in sala ». Nel periodo del « boom » del nostro cinema bastava che un eilitore alzasse la mano con l'intenzione di pubblicare una sceneggiatura ili un film e subito trovava modo dj finanziare il libro. Il pioruere di questa attività eilitoriale è stato l'eilitore Cappelli, che ha però trovato nel di.rettore della collana, Renzo Renzi, uno strenuo difensore del film d'autore, riuscendo così ad arrivare ad un compromesso non inutile tra industria e cultura. Pochi sono i titoli sbag)jati della collana e spesso i volumi sono una ricca fonte di documentazione. Gli imitatori del genere non hanno avuto lo stesso gusto, come l'edjtore Sciascia, o hanno preso quello che è capitato ( come l'iniziativa di Giorgio Trentin). o sono precipitati, dopo pochi volumi nell'infuriare della crisi del cinema. Conclusione: l'attività di Cappelli è rallentata, quelle ili Trentin e di Sciascia non danno più segnj ili vita, e le edizioni F. M., djrelle da Enrico Rossetti, dopo aver pubblicato i libri tipograficamente più curati, c probabilmente più sovvenzionati, han chiuso i battenti. Lo stesso Rossetti ha tentato, come Renzi, un concordato Lra interessi culturali e interessi industriali con La Fiera del cinema, che ha rappresentato finchè sostenuta dalla Titanus, qualcosa di più di una pubblicazione di prestigio. -9

10 - Poteva essere cioè anche una discreta arma di pubblicità in un settore particolare. Ma se la collana di Renzi può far appello alla preziosità del « documento », per una rivista il discorso, io un tentativo così complesso e tutto sommato ibrido, si fa assai difficile. on si oltrepassa cioè l'orizzonte culturale di una rubrica televisiva, come la vecchia Cinelandia di Di Giammatteo e Cinema d'oggi di Pintus. on si capisce mai se si tratta di pubblicità culturalizzata o di serie in• tenzioni divulgative. Si avverte sempre che l'ANICA, l'associazione dei produttori. sta dietro la porta a guardare e impedire un discorso preciso, sul piano culturale. Dove c'è precisione di contorni, invece, è sul piano pubblicitario. La Fiera del cinema, così come le rubriche televisive, contribuiscono nettamente a rafforzare la popolarità di attori e registi con Io scopo di creare quella abitudine di una « distrazione non attiva e gregaria » a cui accennava il Mercillon. E allora ci si reo• de presto conto che la lotta è impari e il tentativo di giungere a un compromesso, se di tentativo si può parlare. risulta sterile. Il maggior risultato ottenibile in questa direzione sarà quello della rivista Ferrania, diretta da Guido Bezzola: ossia un'onesta accademia. Ma qui siamo di nuovo alla pubblicazione di prestigio, persino sfioriamo la grossa rivista aziendale; e la Fiat concede a Bezzola più carta bianca a Milano di quanto la Titaous a Roma ne abbia lasciata a Rossetti. Il quale, con gli ultimi numeri della Fiera, dopo il rovescio subito da Lombardo, ha assunto anche la veste di editore. Ma la struttura organizzativa che ha fatto nascere la pubblicazione è evidentemente rimasta intatta, perchè non si sono avvertiti cambiamenti di rilievo. Il discorso è sempre fatto a metà, con palesi svantaggi per una delle parli, e anche quando si affronta un tema abbastanza succoso come quello del divismo, non si sa andare oltre un fumetto vagamente culturalizzato. Sottolineata questa pesantezza di legami all'industria cinematografica da parte delJa pubblicistica dei rotocalchi, dei quotidiani e di pubblicazioni specializzate. il discorso sulle loro « linee culturali » si esaurisce automaticamente. Se si escludono poche eccezioni, questa critica non è nemmeno degna del nome. Emblematicamente è la critica che assegna il nastro d'argento a Gina Lollobrigida per la sua interpretazione io Venere imperiale. Non dimentichiamo tuttavia le eccezioni, anche tenendo conto dei forti limiti oggettivi in cui questi giornalisti sono CO• stretti ad operare. Non solo c'è un lavoro massacrante che trasforma il recensore di quotidiano in una specie di macchina a gettone, ma le pelJicole che è chiamato a giudicare sono il più delle volte assai lontane da una qualunque dimensione culturale. Da qui, anche per la asistematicità e la aculturalità del lavoro, il ripiegare su una critica di carattere informativo, con qualche ambizioncella ancor residua di divulgare il così detto <e buon cinema ». Alla resa dei conti, si fa di ogni erba un fascio e si pongono sullo stesso piano opere fondamentali, di rottura, con ope•

2 LtNO M1cc1cHÈ, La crilica ilaliana, io Film Selezione o. 4/5, 1960. re di intrattenimento. D'accordo, c'è sempre un giudizio diverso: il film di rottura è giudicato bello, il film di intrattenimento è giudicato brutto; e tuttavia la tecnica della recensione, diciamo il bagaglio critico del giornalista, procede con la stessa prospettiva estetica. Sarebbe come se un critico musicale dedicasse lo stesso impegno nella recensione di un concerto e di una serata di canzonette; o un critico letterario si mettesse ad analizzare un'opera di Thomas Mano con lo stesso metro con cui giudica un libro di Liala. E tuttavia il critico cinematografico fa proprio questo, con imperturbabilità grande. Il motivo di tale confusione di piani non è di origine culturale, come sembra credere Lino Miccichè, quando scrive: « E' stra• no, se si vuole, che su autori in senso proprio come Chaplin, Eisenstein, Stroheim, Dreyer, Mizoguchi e pochi altri ci sia ancora tulio o quasi tulio da dire, mentre serie infinite di articoli e saggi illustrino da ogni possibile punto di vista la tematica e la problematica di cineasti meno che medi. E' strano dicevamo, ma lo è solo fino a un certo punto: la necessità di salvarsi in ,, corner » ( .... ), non può portare a luogo che a questi risultati. Critica e giornalismo sono certamente due cose del tulio diverse, egualmente importanti per certo, ma tuttavia diverse. La confusione che ancora tra esse regna è certamente frutto della confusione men maggiore in cui vive il cinema stesso, dove la comune caratteristica industriale, porta a met• !ere sullo stesso piano il « si gira » di FelJini e quello di Amendola, ambedue punti di partenza per arrivare a un << prodotto » che, per lo meno in teoria. si rivolge ad uno stesso pubblico, e fatto con gli stessi mezzi, costa, magari, un uguale numero di milioni. Per il produttore, in altri termini, esclusione fatta per l'eventuale discorso sui milioni in più che un regista può fruttargli rispetto ad un altro, la realtà non muta: prodotto è l'uno e prodotto è l'altro, ma il produttore ha certamente una sua giustificazione professionale: non crediamo, d'altro canto, che l'editore faccia differenza da un punto di vista strettamente editoriale, tra la collana di « gialli » popolari e quella di classici. Sta al critico di distinguere, dividere i campi, separare i « prodotti» dalle « opere ii. Così continuando sulla strada della confusione, il critico giornalista ( quello, per intenderci, sempre delle rubriche) si riduce ad essere non un esperto di cinema, cioè di un fatto obiettivo, ma un semplice esperto della scrittura sul cinema; non uno che sa giudicare il cinema, ma uno che sa scrivere su di esso ii 2 • Benissimo, condividiamo pienamente. Solo che bisogna sottolineare che la giustificazione professionale del produttore pesa, sia pure in modo indiretto, sul metro critico del giornaHsta; influenza cioè anche le firme migliori a considerare con la stessa prospettiva Luci di inverno di Bergman e Il sorpasso di Risi. Potremmo definire questo fenomeno un aspetto indiretto della pressione industriale nei confronti della pubblicistica itaHana. Se fosse una confusione di piani dovuta -11

3 Da Come si guarda il film, a cura di G. Gambetti cd E. Sermasi, Calcati, 1958. • Da Cahicrs du ci11éma, n. 126, 1961. 5 FERNAtDO D1 CrAMMATTEO, Perchè la critica no. se tutto è in crisi?, in Bianco e Nero, n. l, 1962. 12 - ad una deficienza metodologica, allora non si spiegherebbe perchè i nostri cnt1c1, quando appunto vengono interrogali sul « metodo », hanno subito pronte risposte acute e rivelanti una preparazione storicistica almeno universitaria. Provate a sfogliare l'inchiesta del '58 sulla critica condotta da Gambetti-Sermasi, e troverete risposte abbastanza appropriate. Leggo alcuni brani teorici scritti da quelli che ritengo tra i migliori critici di quotidiani e settimanali: «Nel cercare la giusta chiave di interpretazione dell'opera cinematografica, il critico dovrebbe tenere più spesso presente l'antinomia arte-industria ». « Mi sforzo di giudicare ( .... ) perseguendo ( ....) la più assoluta obiettività e considerando l'opera cinematografica anche nella sua cc sistemazione » in una corrente, in un problema, in un costume ». « Se un rimprovero s'ha da muovere alla critica cinematografica come si pratica sulla stampa quotidiana in Italia è quello che troppo spesso i recensori usano il medesimo tono, il medesimo impegno (e a volte anche lo spazio) per giudicarn films molto diversi per importanza ». « La critica cinematografica. al pari delle altre attività razionali, deve servire a porsi con chiarezza e con metodo il problema conoscitivo. I principi da cui parte sono, in senso lato, quelli crociani: autonomia e sufficienza del fatto estetico. Naturalmente con aggiunti i succhi della cultura moderna, nostri e altrui » 3 , eccetera. A parole la coscienza culturale c'è. Basta confrontare questa inchiesta con un 'altra simile apparsa nei Cahiers du cinéma del '61, per rendersi conto dell'enorme impreparazione della critica francese e, di conseguenza, della preparazione della nostra ( sempre, insisto, nei casi migliori). on capiterà mai, in Italia, di leggere sciocchezze come queste: « L'unica cosa che so della critica cinematografica, è che non serve a niente. E' un gioco, un esercizio gentile, ora umile ora sfacciato. E' un mezzo d'espressione, non un mezzo di analisi, di osservazione, di riflessione. E' un alibi, una maschera una mimetizzazione ». Ancora: « V'è assurdità, nella critica: instabilità, oscurità. Pcrchè si è critici? Per giustificare l'arte, forse. Ma la critica s'è presto resa conto che l'arte si giustifica da sè, o che se ne infischia delle giustificazioni. Nulla nella critica e in ciò che attiene alla critica soddisfa » •. Va bene, allora: mentre i critici francesi mancano assolutamente di lezioni storicistiche - e provando quindi una giusta insoddisfazione per la critica impressionistica da loro esercitata passano più produttivamente alla regia -, i nostri esegeti si attaccano invece a sfilacciature crociane, restano critici tutta la vita, subendo, più o meno incosciamcnte, le agguerrite pressioni dell'industria. II fatto è che la crisi della critica cinematografica, proprio di quella avveduta, rientra nella più ampia crisi della cultura, come giustamente ha sottolineato Di Giammatteo 5 • E soprattutto, aggiungiamo, della cultura borghese. Gli strumenti di analisi del crocianesimo e del postcrocianesimo non sono sufficienti per « reggere » all'insidia,

L'organizzazione delle riviste e l'editoria cine• matografica. • Dall'inchiesta I critici alla sbarra, in L'i//u. slra;ione ilaliano, n. 1, 1962. alla suggestione alla forza dei detentori del potere. Si asserisce, a parole, di capire questo pericolo, di tenerlo lontano, ma alla fine l'unica difesa possibile è il rifugio comodissimo del giudizio estetico, di poesia - non poesia, di bello e brutto. La « turris eburnea », lo sappiamo, è ostacolo meno che fragile, è un alibi ormai frusto. Sicchè riesce persino troppo facile dar ragione a Pasolini quando afferma che « ora sia nascendo un nuovo tipo di critica: quello presupposto dal neo-capitalismo per le masse consumatrici. Sarà divertente vedere la critica farsi sempre più chiara e accessibile e imporre alle masse quello che le masse sono presupposte di imporre. In questo giro di cultura aprioristica e preordinata i critici si ridurranno ad essere degli inventori di slogans. Per adesso viviamo ancora dei resti della civiltà agricola e commerciale: che spiega quel tanto di classicamente idillico che c'è sempre in tutta la critica letteraria non solo italiana, e anche quel tanto di ferocemente paesano, di provinciale, negli strati bassi » •. Nel gioco degli slogans la critica cinematografica già sta in esercizio. Proprio per il bisogno che ha l'economia filmica di adattare la domanda ad una offerta preesistente, la nostra pubblicistica non poteva che essere all'avanguardia del fenomeno. Restano le riviste periodiche specializzate. Restano gli sparsi, rari volumi sul cinema che ogni tanto editori non so quanto sensibili si arrischiano a pubblicare. Restano quelle pochissime pubblicazioni sellimanali e mensili che per essere la espressione dei movimenti operai sono, o almeno dovrebbero essere, di.rette antagoniste delle pressioni industriali. Dunque una pubblicistica di opposizione, nelle linee generali. Opposizione ad un cinema di semplice distrazione e volgare intrattenimento, per affermare al contrario un cinema d'arte, e, con varie sfumature, socialmente educativo. Distinguiamo subito il gruppo delle riviste specializzate di orientament<1 cattolico da quelle per così dire « laiche ». Cioè da un lato abbiamo: Cinema domani, Cinema nuovo, Cinema '60, Filmcritica, Film Selezione, Il nuovo spettatore cinematografico, e dall'altro Bianco e nero, Cineforum. La rivista del cinematografo. Di quest'ultima converrà sgombrare il campo, in quanto ci sembra troppo legata a interessi categoriali, quelli degli esercenti callolici. La situiamo in buona compagnia, insieme a Il giornale dello spettacolo, settimanale degli esercenti laici, a L'araldo dello spettacolo, quotidiano pubblicitario dei produttori, a Cinemundus, a Cinematografia italiana, etc., tutte pubblicazioni che hanno la sola funzione di fare i portavoce dei padroni del vapore cinematografico, e che ci danno ben poco fastidio. Di tiratura limitala, non hanno distribuzione nelle edicole, e vengono inviate a una ristrella cerchia di tecnici e di persone interessate all'industria del film. - 13

14In realtà, sebbene raggiungano le edicole dei massimi centri italiani, anche per le sei riviste laiche parole come « tiratura limitata » e « cerchia rislretta » sono di prammatica. Per Bianco e nero e Cineforum il problema è senza peso perchè alle loro spalle stanno, rispettivamente, il Ceolro Sperimentale di Cinematografia e la Federazione Italiana Cineforum, che non lesinano contributi e abbonamenti omaggio. Per le riviste indipendenti è dolorosamente diverso. Vorrei essere smentito con una documentazione adeguata ma le cifre prevedibili riguardanti la loro diffusione sono del tutto fallimentari: per sei testate esisteranno si e no diecimila lettori paganti, parlo di quelli che richiedono le riviste dal giornalaio. Si badi che la stessa persona può comprare più riviste e quindi il numero degli appassionati di questo genere di pubblicistica può essere anche inferiore. Ci sono, è vero, gli abbonati. Diciamo in media, che si superi il migliaio per ogni rivista. Alla fine dei conti la tiratura complessiva non andrà oltré le ventimila copie. E poichè quattro delle sei riviste sono bimestrali, mentre le due che sono mensili pubblicano spesso numeri doppi e anche tripli - evidentemente è assai difficile arrivare a dodici numeri all'anno, non uno di meno - andremo molto vicini alla verità quando diremo che io media la tiratura mensile di queste riviste è di circa dodicimila copie. Sarebbe senz'altro ingiusto confrontare questa esile cifra con i milioni di copie che i rotocalchi sfornano settimanalmente; e tuttavia la constatazione può servire come un indice statistico della estrema impotenza organizzativa di questa 5tampa di opposizione. Si controbatterà che sono stati proprio i rotocalchi, con l'enorme massa di notizie sullo spettacolo che essi cooteogooo, a spingere la critica cinematografica impegnata nelle riviste di « élite ». La morte dei quindicinali Cinema e Cinema nuovo sono soltanto, si dice, la conseguenza di questo fenomeno; inoltre, - ci si consola - tutte le riviste di cultura hanno tu-ature limitate. Il problema però è un altro: non si tratta di confrontare la nostra tiratura complessiva con quella, per esempio, delJe riviste letterarie ( anche se il confronto andrebbe sempre a nostro grande svantaggio); il problema è, dopo averlo riconosciuto, individuare nelle sue cause effettive il fallimento organizzativo delle riviste di cinema, che non può essere altrimenti che organizzativo e culturale insieme. In realtà la giovane e la vecchia critica italiana di forze ne ha persino da vendere. Tutte però sul piano personale. Basta vedere come una testata importantissima, quelJa di Cinema nuovo, sia riuscita a conservare, meglio di tutte le altre un'organizzazione redazionale effi. cieote, nei suoi limiti funzionale e omogenea. Basta vedere l'entusiasmo con cui critici di professione collaborano alle riviste specializzate, quasi sempre rinunciando a veder compensato il loro lavoro. Basta vedere l'ottimismo di non pochi tra di noi che non tenendo conto degli iodici assolutamente negativi dell'editoria

1 ANTONIO GRAMSCI, Gli inte/lelluali e l'organi::a:ione della cultura, Einaudi, 1949, pag. 139. cinematografica italiana, pagando di persona si gettano a capofitto nella fondazione di nuove riviste. Basta vedere il continuo fervore, a livello universitario, che caratterizza certe pubblicazioni u periferiche », rivelanti un impegno critico già maturo ( mi riferisco in particolare ai quaderni del C.U.C. di Catania, o di quello milanese o di altri circoli del cinema); impegno che non tarderà a trasferirsi sulle pubblicazioni « centrali », dandoci così la sensazione che la nostra critica ha possibilità insperate di rinverdimento. E allora? Allora, nonostante queste potenziali energie, la pubblicistica italiana seria attraversa una delle crisi più profonde. U perchè di questa crisi possiamo trovarlo parzialmente in quanto scrive Gramsci a proposito dell'organizzazione delle riviste: « Le redazioni, se non sono legate a un movimento disciplinato di base, tendono, o a diventare conventicole di ' profeti disarmali ' o a scindersi secondo i movimenti incomposti e caotici che si determinano tra i diversi gruppi e strati di lettori. Bisogna quindi riconoscere apertamente che le riviste di per sé sono sterili, se non diventano la forza motrice e formatrice di istituzioni culturali a tipo associativo di massa, cioè non a quadri chiusi. Ciò deve dirsi anche per le riviste di partito; non bisogna credere che il partito costituisco di per sé l" istituzione' culturale di massa della rivista. Il partito è essenzialmente politico e anche la sua attività culturale è attività di politica culturale; le 'istituzioni' culturali devono essere non solo di 'politica culturale', ma di 'tecnica culturale'. Esempio: in un partito vi sono degli analfabeti e la politica culturale del partito è la lotta contro l'analfabetismo. Un gruppo per la lotta contro l'analfabetismo, non è ancora una ' scuola per analfabeti '; in una scuola per analfabeti si insegna a leggere e a scrivere; in un gruppo per la lolla contro l'analfabetismo si predispongono i mezzi più emcaci per estirpare l'analfabetismo dalle grandi masse della popolazione di un paese, eccetera » 1 • La faccenda dei rotocalchi che invadono il margine della povera critica impegnata è allora, sotto questa prospettiva, do buttare presto alle ortiche. Le sei deboli riviste in questione sono organizzativamente e culturalmente deboli per un grosso errore di impostazione. Abbiamo fatto queste riviste affidandoci ad un ragionamento economico-borghese. Abbiamo cercato un editore, siamo diventati editori noi stessi, limitandoci a mettere sul mercato la nostra rivista in concorrenza con le altre, come un qualsiasi prodotto editoriale. Praticamente la nostra organizzazione è stata tutta affidata alle case di distribuzione e ai rivenditori, dai quali siamo considerati quasi degli accattoni della pubblicistica, con le note conseguenze di scarsa capillarità nella distribuzione e nessuna evidenza nelle edicole. Con le loro basse tirature era più che ovvio che le riviste di cinema sarebbero rimaste schiacciate. C'è la eccezione costituita da Filin Selezione cbe - 15

16 - si appoggia al partito socialista. Ma è un appoggio limitato alla sola « politica culturale » e non si azzarda mai a scendere o meglio, a salire al livello cli « tecnica culturale », a costituire, o a tentare di costituire un movimento organizzalo di base ( tra l'altro, questa è stata una delle ragioni che mj costrinsero ad abbandonare la direzione del periodico). Film Selezione, è stata così concepita almeno nella seconda serie, come una qualsiasi rivista cli tipo borghese dove i gruppi a livello direttivo si alternavano a seconda degli umori politici delle correnti, in modo piuttosto confuso. La terza serie mostra invece una prospettiva più chiara, e da posizioni culturali tipiche del qualunquismo cli sinistra, passa a posizioni ideologicamente nette. Pii1 coerente ci sembra invece l'esperimento cli Cinema '60 per la sua caparbia e lineare lotta verso un cinema djsancorato dagli impacci e dagli schemi linguistici dell'indusria con evidenti impegni ribellistici rispetto a concezioni di politica culturale - nell'ambito del partito comunista - ormai ·sorpassati. La vitalità cli questa rivista, direi proprio lo scatto all'azione che possiede deriva in effetti dalla chiarezza cli propositi dei suoi redattori e dal rigore politico dell'analisi, ossia dall'essere più vicina cli tutte le altre alla formazione « di istituzioni culturali a tipo associativo cli massa ». Se tuttavia essa rimarrà, come finora è rimasta, una specie cli movimento critico di fronda del partito comunista, e non approfondirà la sua azione, il suo compito si identificherà con quello dj Cinema nuovo, con la differenza non sostanziale di avere più « profeti disarmati » invece di uno solo. Preciso subito di conoscere assai bene non pocru meriti, e non cli fresca data, di Cinema nuovo, che rimane senza dubbio la rivista più bella, direi più armonica e più conseguente che si pubblichi in Italia. E non vuol essere questo un elogio formalista. Conseguenza vuol dire per noi dirittura morale, rigore di ricerca, netto rifiuto di compromessi, che in tempi dj ammorbidimento come quelli che viviamo han voluto dir molto per tutti, sono stati esempi che han fruttato persino nell'esperienza di Cinema '60. Vuol dire essersi battuti per anni anche in momenti assai difficili, persecutori, per la prospettiva realistica nel cinema che è quanto sta anche a noi più a cuore. Probabilmente la situazione storica che ha portato alle ultime vicende cli questo periodjco non prevedeva altra soluzione che quella aventiniana, il rifugio in un astratto moralismo saggistico da « scuola ristretta », che in questo momento sinceramente non ci soddjsfa. Credo che soprattutto per Cinema nuovo, proprio perchè possiede un amalgamato e fervido vivaio cli giovani firme, si imponga urgentemente una revisione sostanziale della propria organizzazione culturale, veramente un 'apertura, per non correre il rischio dell'accademia critica di orientamento marxista. Stesso discorso deve essere rivolto a Il nuovo spettatore cinematografico, di recente felicemente trasformatosi con la fusione ad un prege-

vole periodico universitario ( Centrofilm). Questa nv1sta, nella sua ultima vivace edizione ci sembra assumere un ruolo equidistante tra Cinema nuovo e Cinema '60. Il discorso però è sempre lo stesso. Lo sforzo editoriale pagato di persona, il serio lavoro di filologia bibliografica, di accurata e direi amorevole documentazione, non bastano a giustificare in tutte le sue dimensioni la presenza culturale di una rivista. Così come gli « astratti furori » dei direttori di Cinema domani, questi particolari ribelli dell'alienazione, sfociano più in sfo. ghi soggettivistici che in un concreto discorso con la realtà. Non che la critica debba essere spersonalizzata, o mescolarsi agli agit-prop dei partiti. Qui si discute che se ci preme eHettivamente la penetrazione delle nostre idee, se vogliamo realmente preparare un cinema di domani, se quel che pensiamo ha una sua intrinseca validità, ebbene dobbiamo verificarlo attraverso strumenti a livello di base. In questa prospettiva assai poco si giustificano le riviste come Filmcritica, di cui si può solo apprezzare la tenacia del suo direttore, unico e solo autore del periodico, che riesce sempre a riunire, quasi ogni mese, l'intervista col famoso regista, l'articolo tradotto del critico straniero, la sceneggiatura di Bergman, e soprattutto i fondi per stampare il fascicolo. Direi invece che si giustifica di più una rivista cattolica come Cineforum, la quale, a parte alcune ingenuità che tuttavia non offuscano la pulitezza e l'onestà di fondo della pubblicazione si dimostra pe~lomeno funzionale al movimento dei cineforum che da sedici anni portano avanti un discorso particolare su un cinema spiritualista per altro a noi assai remoto. E' chiaro che la rivista ha il fiato corto, cerca Cristo in Eisenstein e ospita meditazioni estetiche che farebbe meglio a non ospitare, però sembra - dico sembra, perchè potrebbe trattarsi di un fenomeno alla fin fine chiuso a poche firme e non seguito dalla base cattolica - sembra percorrere una strada concreta sfuggita purtroppo alle riviste laiche. Tra pochi giorni a Rimini i cineforum terranno un convegno su questo tema piuttosto stimolante: « L'azione culturale dei cineforum e la loro metodologia nell'attuale situazione del cinema italiano e in rapporto all'evoluzione del gusto del pubblico ». Non mi risulta che le federazioni dei circoli del cinema laici si pongano tali problemi, nè tanto meno che le riviste si facciano patrocinatrici di dibattiti del genere. In effetti, coerenti alla loro politica organizzativa di tipo borghese, le riviste non hanno mai degnato della loro attenzione, specialmente negli ultimi anni, i circoli del cinema, che sono andati pian piano svuotandosi da ogni funzione anche per questa volontà di abbandono da parte della pubblicistica cinematografica. Ci sono i C.U.C., d'accordo, ma possiamo benissimo riconoscere di non avere contribuito minimamente alla loro vitalità; e son loro anzi che cercano il contatto con le riviste, son loro a promuovere convegni sulla « giovane critica cinematografica », come quello di - 17

18 - Catania, con una partecipazione notevole al dibattito sulla cultura contemporanea che non mi pare sia stata mai sottolineata oè riportata con un qualche articolello nelle nostre pubblicazioni ( eppure era segno notevole di speranza). In realtà la Federazione Italiana Circoli del Cinema tentò di costituire una rivista, per l'appunto Filrncritica, ma quando essa, per una serie gustosa di falli che un giorno si dovranno raccontare, rimase in esclusiva al suo direttore, l'esperienza fu evidentemente considerata infelice e non più ritentala. I circoli del cinema da allora andarono impoverendosi e non potevano permettersi il lusso di finanziare una rivista. Logico però sarebbe stato il contrario, e cioè che una rivista o un gruppo di riviste si mellessero a disposizione dei cineclub. Questa impotenza ad allargare completamente la propria dimensione culturale si riflette io alcune deficienze delle riviste stesse e nella complessiva pubblicistica libraria. Da tempo si può infatti constatare una vera e propria decadénza della saggistica cinematografica, a cui viene sostituendosi, nei periodici, la nota più o meno impegnata e interrogativa, gli << appunti » su questo o quel problema ( la cui approfondita disamina si rimanda a tempi migliori, o a peone più preparate), la recensione di ampio respiro, le lunghe interviste documentarie, e così via. Da tempo i volumi pubblicati in Italia sul cinema dalle case editrici più serie non solo non tengono conto di piani organici sulla materia, ma scarseggiano anche di un reale storicismo critico. Va bene avere nuove edizioni della Storia delle teoriche del film di Aristarco e del Cinema Italiano di Lizza o i, ma sarebbe assai triste che la nostra saggistica non andasse oltre queste prove pur fondamentali. Scorrendo i cataloghi delle varie case editrici cadono le braccia. Qua e là qualche pamphlet sulla libertà di espressione, la ristampa degli scritti di Barbaro, la riunione intelligente e finemente speculativa di alcune analisi del Chiarini e del Baldelli che già conoscevamo attraverso le riviste. Direi che siamo a un livello di pubblicazioni di occasione, non di lavori assolutamente nuovi e organici che lascino veramente un segno. I critici francesi saranno storicisticameote meno preparati, ma hanno una editoria senz'altro più fervida. Basta pensare ai saggi io volume dedicati in Francia ad Anlonioni, mentre io Italia non ve n'è nessuno. Anche la collana assai pregevole di Guaoda ha rallentato la sua attività, e beo poco si può dire dell'annunciata iniziativa di Caoesi, di cui è uscito per ora solo un libro un po' troppo appassionato sulla Garbo. Le edizioni governative dell'Ateneo hanno perso ormai da tempo la loro funzione formativa e zoppicando io traduzioni, in ristampe, in lavori d'archivio, o io pochi libri di autori cattolici che escludendo il caso clamoroso di Lacalamita, giungono nei casi migliori ad una compitazione diligente, di tipo scolastico tradizionale. Lo stesso indirizzo seguito del resto dalla rivista del Centro Sperimentale Bianco e

1 ALBERTOAsoa RosA, Il punto di vì.$ta operaio e la cultura sociali.sta_, in Quaderni roui, n. 2, 1962. nero, che, priva di qualsiasi linea culturale, mescola laici disponibili e cattolici accademici. Ma gli spalti vuoti si trovano un po' dappertutto e inuti.lmcnte si cercherebbe un libro di cinema, su circa 150 volumi pubblicati, nelle edizioni Avanti! A questo punto credo che sia inutile riscaldarsi al sole dei nostri pochi meriti, e tentare per esempio un confronto tra le lince culturali delle maggiori ri• viste e le linee giornalistico-divulgative dello stampa quotidiana e di rotocalco. Conosciamo assai bene questo contrasto fortunatamente esistente tra la pubblicistico in!luenzato dall'industria e quello che abbiamo definito d"opposizione. ap• piumo fin nei minimi particolari come la stampa « rosa » più o meno foraggiata dall'ANICA abbia strombazzato in questi ultimi anni la « rinascita >i del cinema italiano che invece le riviste hanno giustamente individuato essere una vera e propria « restaurazione » ( e qui riferisco una felice definizione di Adelio Ferrero). Non discutiamo su questo, nè sui meriti certi o i demeriti incerti della ,, revisione critica ». Se no ricadiamo nell'equivoco di credere che la cultura possa farsi e anche procedere da sola, cervello penna e calamaio. Viceversa vediamo ormai con chiarezza che la cultura la si fa in concreto nello svolgersi storico della società. E per quel che ci riguarda, la cultura socialista, o tutte le culture che vogliono essere moderne, si fanno poggiando sulla sola forzo che pone oggi nella società un 'istanza liberatrice, cioè sulla classe operaia. Scrive Alberto Asor Roso che " nel campo dell'analisi teorico del marxismo, come nel campo della sociologia, della letteratura, della cinematografia, eccetera, lo sforzo di fondazione della cultura socialista si potrà impostar:: solo ricollegandolo allo sforzo di rinnovamento che la classe operaia ha do compiere per elaborare uno ipotesi moderna di rovesciamento del sistema. Solo ricollegando le due cose, perchè in realtà le due cose non sono pensabili separate. Solo se lo classe operaia, con le sue lotte all'interno dello sviluppo capitalistico, riuscirà o sottrarsi all'integrazione, cioè a dire, nello condizione odierna, all'alienazione totale, c'è da sperare che gli elementi di una nuovo cultura socialista possano manifestarsi, fondandosi sulla consapevolezza del significato e della vitalità di quelle lotte; viceversa, solo se il movimento operaio fornirà allo classe strumenti culturali e teorici al livello dell'impegno richiesto, c'è do sperare che lo classe possa muoversi con chiara consapevolezza dei suoi fini e delle sue forze. Mo è fuor di dubbio che il momento determinante e qualificante di questo processo resto pur sempre quello dello lotta, della trasformazione: questo significo che la modernità e la va.lidità di una cultura socialista sono misurate essenzialmente sullo base della sua destinazione sociale e operativo » •. Credo perciò che nelle discussioni di questi giorni, se questa piattaforma di - 19

20 - partenza potrà essere accolta, occorrerà soprattutto discutere sulla destinazione sociale e operativa della critica cinematografica, vale a dire sulla sua organizzazione culturale, vale a dire sul modo o sul tentativo di costituire insieme agli studi sull'analfabetismo, le scuole « contro l'anaUabetismo », come scriveva appunto Antonio Gramsci. Giuseppe Fe, rara Quella che precede è la relazione introduttiva al Convegno Critica e Cinema oggi svoltosi a Porretta dal 9 al 12 settembre 1963. Ricordiamo che le altre relazioni sono state lette da Tommaso Chiaretti ( e poi pubblicata su Mondo Nuovo n. 25, 1963) e da Guido Aristarco: ancora inedita quest'ultima, ma che si rifà visibilmente a precedenti scritti dell'a. Questa relazione, e l'intervento di Baldelli, che segue, si ricollegano a quel dibattito da noi iniziato sulle pagine del Quaderno 3 e che continueremo sui prossimi numeri ove saranno pubblicati interventi di Adelio Ferrero, Tommaso Chiaretti e altri.

1 Preliminare, comunque - specie sul piano del rapporto con chi non sia particolarmente competente in materia - la questione, per niente pacifica della 11ecessità della critica cinematografica. Inutile preoccuparsi dei problemi della critica se, per esempio, si nutre disislime nei confronti del mezzo cinematografico: quando si sostiene, poniamo, il rapido consumo e l'usura delJa materia cinematografica, incapace d.i reggere non solo come sostanza poetica ma anche come testimonianza ideologica. Parecchi dotti definiscono ancora una pretesa quella di richieder ai film una pienezza ideologica che, invece, si dice, non avranno mai: secondo costoro, i film nascono dal contingente, si « consumano » r.ome articoli di giornale, e quando passano alle ci .. netechc conteno proprio e solo per il sapore dell'anno e del mese che portano con sè, per quel loro « errore » che li rende preziosi al nostro bisogno di comprensione storica. Accogliendo questo punto di vista, mi pare che l'unica preoccupazione della critica finirebbe per essere quella di verificare le oscillazioni del costume espresse nelle forme cinematografiche. La critica cinematografica, ieri e oggi Il dibattito sulla natura e i metodi della critica cinematografica va tenuto distante dal piano inclinato della denuncia per eresia, dagli isterismi e manie di persecuzione, per cui potrebbe sembrare che si combattano guerre quando si tratta di zuffe per una « secchia rapita ». Bisogna evitare la maniera feticistica nella quale le cose della cultura pare debbano risolversi con il voto: peggio, il voto pro-contro tizio o sempronio, questo scomunicare e controscomunicare, con sproporzionate infatuazioni e un allinearsi da seguaci e scudieri di qualche feudatario. Per trattare dei compili della critica cinematografica ci si potrebbe limitare a richiamare il discorso generale sui problemi della critica e della storiografia artistica che da decenni si svolge sul piano della cultura, sopratutto letteraria: i nomi e le opere, italiane o straniere, sono note ( il problema della critica cinematografica in questo non differisce da quello delle altre arti, osservava, fin dal 1952, Fubini: « Credo anzi che se i critici cinematografici considerassero attentamente ciò che si scrive negli altri campi, presto o tardi si accorgerebbero che molti loro ' problemi ' sono già stati discussi e superati in tempi recenti ma sopratutto nel passato »). Si potrebbe anche, proficuamente, tentare una cronistoria della critica cinematografica, per esempio italiana; oppure misurare il peso delle teorie nella concreta verifica dell'esame delle opere cinematografiche: di questo hanno bisogno gli studi cinematografici per uscire dal limbo delle intenzioni e delle logomachie. Fuori di questi accertamenti precisi non rimane che o la predicazione normativa oppure una serie di promemoria in cui si espongono gli elementi che regolano la propria condotta nell'esercizio della critica, senza fanatismi e prescrizioni'. - 21

Bilancio della critica nei primi noni di queato dopoguerra. 22 - Mi sia consentito, per il confronto con la situazione odierna, di riportare un passo di un panorama della critica cinematografica che ebbi occasione di scrivere nel 1954 per la rivista Società ( n. 5): ccE' esigenza dei nostri tempi di sottrarre le figure poetiche al limbo delle pure idee platoniche per immergerle invece nella vita donde furono tratte, ristabilendo così i rapporti intercorrenti tra la storia e l'invenzione poetica. Le vie per tentare di precisare questi rapporti, le vie da seguire per storicizzare la poesia sono varie e complicate: dalla via delle ' poetiche ' a quella dei legami culturali e ideologici, dalla via psicologica a quella stilistica, dalla via storico-letteraria a quella storico-politica. In questa congiuntura del cinema italiano, la critica potrebbe acquistare un peso non secondario: occorre però che irrobustisca il metodo di indagine, che parli in modo molto chiaro, che si muova con concretezza, mirando a correggere gli errori ed a rettificare le manchevolezze. Il sospetto di superfluità sulla funzione della critica si fa invece ogni giorno più insistente. Nell'accreditare questo sospetto, il critico grossolanamente contenutista talora va di pari passo col critico che si tappa il naso ogni volta che intravede l'arte alle prese con la politica. L'uno e l'altro svolgono un lavoro che resta estraneo alla concretezza delle singole opere d'arte. Il secondo con una critica tutta segni marginali che può approvare o biasimare fotogramma per fotogramma il film, ma solo attraverso l'addizione di questi segni ottiene un giudizio generale; il primo con una critica che viene presa dalla paura del testo e si limita a discorsi che non riescono mai ad entrare nel merito, che girano attorno all'opera. L'uno e l'altro indugiano, a guardar bene, in recensioni di carattere impressionistico, con un tono di aggressività, che si esprime come rancore o come disgusto. Nell'esegesi dello pseudomarxista dogmatico appare sempre una ambiguità di impianto, una eccessiva semplificazione dei rapporti tra dato ( storico) e invenzione ( poetica): per es., lo pseudomarxista sostiene che Riso amaro, Miracolo a Milano, Il cappotto, Fabiola, Vivere in pace, La spiaggia, Non c'è pace tra gli ulivi, sono realistici perchè vi compaiono personaggi ' positivi ' o 'popolari '. Insomma, dalla ricostruzione storica trapassa al testo poetico attraverso un processo implicitamente deterministico; perciò resta l'impressione di due indagini più giustapposte che compenetrate perchè, mentre giustamente si condanna il punto di vista per il quale sembra che l'arte esista come sospesa nel vuoto, non si arri va però a capire che l'arte è qualche altra cosa, oltre che la rappresentazione ideologica delle forze di classe della società. Di solito la narrazione critica viene privata di certe indispensabili articolazioni: tra il film e il tessuto storico non si pone una gradualità di trapassi e di indicazioni intermedie. Il procedimento con cui, in questo caso, il critico organizza la sua materia è pressapoco questo: delineazione de1la fisionomia politico-ideologica di un periodo, sche-

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