Gaetano Salvemini e "L'Unità"
Tratto da: L. Borghi, Educazione e autorità nell'Italia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1951
Io sono solo; non ho appoggi di gruppi, sono difeso solamente dalla mia volontà e dal mio dovere.
G. Salvemini1
Nel corso del primo decennio di questo secolo, Gaetano Salvemini aveva raggiunto la conclusione che il Partito socialista fosse diventato incapace di attuare la democratizzazione dell'Italia. Egli ne denunciò la «deviazione oligarchica», il suo interessamento esclusivo alla difesa di certi gruppi operai nel Settentrione, il suo appoggio al governo Giolitti, e l'ingresso di un numero crescente di elementi piccolo-borghesi avidi di impieghi e di potere nelle sue organizzazioni politiche e sindacali. I dirigenti socialisti non mostravano alcuna comprensione per i due importanti problemi che Salvemini considerava la premessa del rinnovamento politico e sociale d'Italia, il problema del Mezzogiorno e quello del centralismo statale.
Nel 1910, alla vigilia della sua rottura con il Partito socialista, Salvemini ne accusò i capi di aver perduto la fede nei princìpi morali che avevano ispirato la loro azione durante gli anni di lotta, di trascurare gl'interessi generali del proletariato a vantaggio di una minoranza di esso, di disinteressarsi dei problemi della vita italiana. «Come mai ―egli disse al congresso del Partito socialista, nell'ottobre di quell'anno― quindici anni fa ci sentivamo, ed eravamo in realtà, più forti con cinque soli deputati che oggi con quaranta? Gli è che una volta dovevamo diffondere e difendere un interesse comune a tutta la classe lavoratrice: la conquista del diritto di organizzazione. Questo diritto, nella Camera, aveva contrari tutti i partiti conservatori. Perciò dovevate rivolgervi alle forze extraparlamentari per trascinarle alla lotta. E vi rivolgevate non a determinati gruppi, promettendo leggi frammentarie utili a questi soli gruppi; ma parlavate a tutti per un principio generale di giustizia, di libertà, di equità invocato da tutti. Ed ecco perché eravate forti. Nella vostra battaglia vi sentivate padroni di una forza morale infinitamente superiore alle limitate forze materiali di cui disponevate. E fu questa forza morale che vi dette la vittoria nell'ostruzionismo»2 .
Il programma della sua intera vita era contenuto in queste parole ai suoi compagni di partito. La costante opposizione che Salvemini condusse contro i governi prefascisti e la sua strenua lotta contro il fascismo in Italia e all'estero furono animate da un desiderio invincibile di giustizia e libertà. Eppure nulla era più estraneo al carattere di Salvemini di un'astratta posizione moralistica basata su una pura proclamazione di ideali magnanimi. Salvemini, nemico di tutte le generalità e di tutti gli atteggiamenti eroici, ha sempre trasformato la sua passione morale in una analisi incessante e scrupolosa della realtà concreta, in un'accumulazione febbrile di dati statistici, di fatti storici e di conoscenze scientificamente esatte. Egli si poneva come l'antitesi del letterato italiano di cui vedeva l'ultima incarnazione nei filosofi neohegeliani. Il suo sforzo ininterrotto di risolvere i problemi concreti alla luce del senso comune e sotto la scorta di principi morali si univa alla sua fiducia socratica che la virtù può essere insegnata e che la realtà può essere plasmata secondo giustizia. Da questa posizione egli derivava la sua ricerca assidua di un compromesso per effetto del quale le idee potessero divenire energie operanti in mezzo alla mutevolezza degli eventi e delle persone. Al medesimo atteggiamento va riferito quel che si può chiamare il suo realismo, cioè la sua diffidenza per gli assoluti e per le utopie, la sua ripetuta dichiarazione che «la politica è l'arte del possibile e non il sogno del desiderabile», e quindi il suo rifuggire dagli estremismi politici. C'era in lui una contrarietà pronunciata a cercar di foggiare la realtà secondo schemi preconcetti. La sua azione fu perciò un apostolato di tolleranza e di libertà. A lui è vano rivolgersi per trovare soluzioni belle e fatte dei problemi politici e sociali. Il suo pensiero educativo è dominato dall'ideale della ricerca scientifica e obbiettiva, dall'accentuazione dell'importanza di «come» conoscere, non di «che cosa» conoscere e perciò dal rifiuto di ogni posizione dogmatica e illiberale nei problemi dell'educazione.
Il principio della libertà forma l'ispirazione morale dell'attività di Salvemini come insegnante e come riformatore politico e costituisce al tempo stesso il limite del suo realismo. Egli infatti non si adagiò mai nell'accettazione di situazioni di fatto che contraddicessero a questo principio o che non ne fossero interamente compenetrate. Ciò vale a spiegare come la sua vita nelle sue fasi decisive sia caratterizzata da un'opposizione senza compromessi a tendenze, partiti e persone in cui dapprima aveva riposto le sue speranze. I suoi sforzi di conciliazione sono sempre finiti in rotture senza rimedio. La sconfitta di Salvemini come uomo politico è insieme la sua vittoria come educatore.
Il ritiro di Salvemini dal Partito socialista non va perciò considerato come il portato di un suo radicale rifiuto dell'efficacia e della giustificazione dei partiti politici in generale, nella stessa maniera che la sua opposizione ai governi del suo tempo non derivò da una sua negazione del principio dell'organizzazione statale. Egli non mise mai in dubbio la validità dei fondamenti della società moderna e la possibilità di un progresso morale e sociale attraverso una serie di conquiste graduali. Per lui lo sviluppo della vita italiana dall'unificazione in poi conduceva verso la finale attuazione della democrazia. Durante il periodo che seguì la disfatta della reazione alla fine del secolo, in quegli anni di prodigioso slancio economico, Salvemini condivise la diffusa credenza che si appressasse un'epoca di prosperità materiale senza precedenti e di giustizia sociale e che tutti gli sforzi dei conservatori per deviare e perturbare questo corso sarebbero stati infruttuosi. Ma quest'idea non oscurò la sua convinzione che l'avvento di un mondo migliore sarebbe dipeso dagli sforzi degli uomini e non sarebbe stato il risultato fatale dello svolgimento storico. Come infatti si è osservato, egli uscì dal Partito socialista quando si persuase che esso aveva cessato di essere uno strumento di progresso democratico e promuoveva la formazione di una nuova oligarchia entro le stesse file della classe lavoratrice. Fu allora che Salvemini scorse il suo compito nella creazione, fuori dei ranghi di ogni partito, di quel nucleo dirigente competente e disinteressato di cui il popolo aveva urgente necessità e che invano si sperava dal Partito socialista, volto ormai alla tutela di una minoranza non solo dell'intera popolazione ma della stessa massa operaia.
Salvemini si serviva di un motivo derivato dal materialismo storico per tentare una soluzione del problema dei rapporti fra il popolo e i capi. «I problemi sociali e politici ―egli ebbe a scrivere in varie occasioni― non sono suscitati e la loro soluzione non dipende dalla cultura e dalla competenza degli individui, ma dai bisogni e dalla forza di pressione delle classi interessate. C'è nel processo storico una divisione di lavoro; le moltitudini si muovono spinte non dalle idee che per esse non esistono, ma dai bisogni...; e nella caterva degli individui più o meno colti... che si offrono a salvarle, scelgono volta per volta coloro a cui tocca l'altra parte del lavoro, cioè la soluzione tecnica dei problemi»3. Guidato da questo convincimento, che lo sviluppo della società dipende principalmente da due fattori, i bisogni e la domanda delle masse e la risposta e competenza dei capi, Salvemini si mise al lavoro per attuare la sua funzione civile.
Egli era persuaso che il punto di partenza di ogni progresso in Italia stava nel portare il popolo alla coscienza delle sue necessità reali e alla capacità di scegliersi i suoi rappresentanti e le sue guide. Aveva anche ferma l'idea che l'evoluzione democratica dell'Italia era ostacolata dalla particolare condizione del Mezzogiorno. Nel 1908, Salvemini aveva già sottoposto all'attenzione del pubblico i suoi suggerimenti a proposito del problema meridionale e di quello della riforma scolastica. A questo scopo aveva preso contatti con altri, interessati come lui a assicurare all'Italia una direzione adeguata indipendentemente dalle divisioni politiche. La sua partecipazione a La Voce di Prezzolini, fra il 1909 e il 1911, ebbe appunto per scopo di creare un'opinione pubblica consapevole dei problemi essenziali della vita sociale italiana e di preparare i nuovi elementi direttivi. Prezzolini riecheggiava parole di Salvemini quando scriveva che «se una nuova democrazia sorgerà, essa sorgerà col risolvere problemi tecnici importanti». E riferendosi certamente a Salvemini soggiungeva: «E abbiamo indicato quali. Su due (quello del Mezzogiorno e quello dell'istruzione) abbiamo già a grandi tratti un pensiero fissato che comincia a realizzarsi»4.
Quando Salvemini si rese conto dell'impossibilità di ottenere efficaci risultati valendosi di una rivista in gran parte letteraria, quale La Voce, rivolse i suoi sforzi ad ottenere una rivista tutta sua. Il 16 dicembre 1911 uscì a Firenze il primo numero de L'Unità, che se si eccettua il periodo di un anno e mezzo al principio della prima guerra mondiale (dal 28 maggio 1915 all'8 dicembre 1916), ebbe vita fino alla fine del 19205.
L'Unità non si annunciò con uno specifico programma proprio e non legava i suoi collaboratori a nessuna ideologia politica o filosofica. Il suo sottotitolo avvertiva che essa si proponeva lo studio dei «problemi della vita italiana». Tuttavia, sotto la vigorosa guida personale di Salvemini, la rivista adottò una linea largamente democratica, sostenendo l'urgenza di riforme in ogni ramo della vita interna dell'Italia e, in politica estera, l'ingresso di questa in un concerto europeo di popoli liberi e democratici.
Fra la fine del secolo scorso e l'inizio de L'Unità la posizione politica di Salvemini aveva subito un mutamento degno di nota. Federalista repubblicano nel 1897, Salvemini era diventato nel 1910 un progressista democratico. Egli aveva modificato la sua critica radicale delle istituzioni. Mentre nel 1899 aveva considerato l'unificazione dell'Italia come il prodotto dell'iniziativa sabauda che aveva sfruttato e quindi messo da parte quella dei gruppi democratici, nel 1905 egli scriveva che l'unificazione dell'Italia in una repubblica non era «nei disegni di Dio» e che il timore della repubblica aveva spinto la Casa Savoia all'azione «facendo coincidere le necessità dinastiche con le necessità nazionali»6. Sotto la spinta del grande sviluppo economico e sociale del primo decennio del secolo, sembrò che Salvemini si riconciliasse in notevole misura coll'ordine esistente. Elementi della visione storicistica si fecero strada nel suo pensiero. Pertanto il suo programma si atteggiò essenzialmente come una richiesta di riforme nell'ambito del sistema sociale esistente.
Nel 1913 Salvemini definì la sua posizione chiamandosi «un riformista del periodo 1899-1901»7. Chiedeva il consolidamento della democrazia come premessa della lotta per il socialismo. La democrazia politica in una società capitalistica era per lui il solo fine possibile che dei progressisti dovevano proporsi nelle condizioni del tempo. Ma pur abbracciando un programma democratico, Salvemini dichiarava che continuava a considerarsi un socialista. «Mancando ancora le condizioni di realizzazione dell'ideale socialista, occorre contentarsi di un ideale inferiore, che sarebbe quello di sostituire in Italia un capitalismo autentico a quest'aborto di capitalismo ladroncello e pelandrone». A spiegazione di ciò Salvemini aggiungeva: «Il capitalismo autentico (è questa una nozione comune negli scrittori del socialismo classico, e io ho quasi vergogna di doverla ancora rimasticare), è una fase necessaria e benefica che la società deve attraversare prima di arrivare a quella fase superiore di civiltà socialista, di cui ignoriamo le forme precise, ma che certo si realizzerà... E il riformismo altro non è che il socialismo di quei socialisti, i quali affermano e affermeranno ancora per molti anni la necessità di una politica democratica in una società quale è la nostra, che in tante sue parti è appena agli albori del capitalismo. E il "programma minimo" socialista non è che il programma democratico... Ma lavorando alla realizzazione di un programma democratico, un socialista non "sostituisce" l'ideale democratico all'ideale socialista, perché fra i due ideali non esiste antitesi, ma semplicemente differenza di grado»8.
La lotta di Salvemini per la libertà e la democrazia fu caratterizzata essenzialmente da un'opposizione a oltranza alla degenerazione del capitalismo in un sistema di protezionismo statale. Egli voleva che l'amministrazione del paese fosse affidata a esperti, operanti come servitori del popolo, non come strumenti di una minoranza economicamente privilegiata. Era disposto a lasciare per il momento il potere economico a questa minoranza, ma intendeva distruggerne l'influenza politica corruttrice. La sua preoccupazione principale era quella di spezzare la coalizione fra lo Stato e i capitalisti senza impostare il problema del loro diritto all'esistenza.
Il passo di Salvemini, citato poco avanti, permette di stabilire dove il suo riformismo differiva da quello del Partito socialista. Salvemini riteneva che la democrazia non fosse ancora garantita dall'attuale condizione dell'Italia e rinviava la lotta per l'attuazione di finalità socialiste per concentrarla sul conseguimento di più salde basi per una politica democratica. Per contro i socialisti consideravano la democrazia politica come già realizzata e ritenevano loro compito rafforzare l'organizzazione della classe operaia. Sia Salvemini che i socialisti ammettevano che, nella fase attuale dello sviluppo storico, il socialismo era irraggiungibile e che gli operai dovessero collaborare colla borghesia dirigente per dar vita a un vero capitalismo. Ma anche qui Salvemini si allontanava dai socialisti. Egli voleva limitare l'influenza del capitalismo e impedirne gli effetti corruttori, mercé l'instaurazione di un apparato statale onesto e efficiente. I socialisti invece confidavano nella loro organizzazione di classe e nella loro rappresentanza parlamentare. Nell'insieme Salvemini e i socialisti accettavano le istituzioni politiche e sociali esistenti e chiedevano al popolo di dar loro un appoggio condizionato. In un punto la posizione di Salvemini appariva meno consistente di quella dei socialisti. Dissociando l'ordine politico da quello economico-sociale, egli domandava la formazione di una classe politica dirigente che fosse indipendente dall'influenza della classe economica dominante. II sistema scolastico che egli voleva fosse introdotto in Italia avrebbe contribuito a creare il personale fidato e preparato della nuova amministrazione. Tuttavia, nella descrizione che egli faceva del suo nuovo criterio di scelta degli studenti delle scuole medie di cultura che introducevano all'università, ai quali sarebbe poi spettata una funzione direttiva nella vita politica italiana, Salvemini non riusciva a mantenere la sua distinzione fra potere politico e privilegio economico e quindi a dimostrare l'attuabilità del suo programma di fornire al paese una nuova direzione libera da vincoli col capitalismo.
Salvemini non era un semplice politicante che si interessasse genericamente ai problemi della scuola senza possedere la specifica preparazione necessaria ad affrontare le delicate questioni educative. Egli era stato per vari anni professore di scuola media ed era insegnante universitario dal 1901. Come una delle personalità più spiccate della Federazione nazionale degli insegnanti delle scuole medie, aveva dato il suo apporto alla nuova legislazione per le scuole secondarie. I suoi scritti sull'educazione hanno contribuito notevolmente a illuminare il pubblico sui problemi dell'istruzione popolare, sulle condizioni della scuola nel Mezzogiorno e sulla politica scolastica della Chiesa cattolica9. Il suo libro su La riforma della scuola media, scritto in collaborazione con Alfredo Galletti, non solo tracciò le linee maestre del programma di riforma scolastica che fu approvato dalla Federazione nel congresso di Firenze nel 1909, ma influenzò altresì in misura notevole gli studiosi dei problemi della scuola italiana e è rimasto fino ai nostri giorni come un trattato classico sul sistema scolastico in Italia10.
Salvemini faceva dipendere il rinnovamento educativo da due condizioni principali: 1) che l'analfabetismo fosse debellato assicurando l'istruzione elementare e postelementare alle classi lavoratrici; 2) che l'istruzione media e superiore fosse resa accessibile solo ai più degni.
L'istruzione media e superiore in Italia era di fatto quasi esclusivamente riservata ai membri delle classi medie. Solo da poco parte dello strato più alto del proletariato aveva cominciato a inviare i suoi figli alla scuola tecnica e, dove questa non esisteva, al ginnasio. Le classi medie inviavano di regola i loro ragazzi al ginnasio-liceo che apriva loro tutte le carriere. Salvemini riteneva che la decadenza dell'istruzione in Italia fosse dovuta essenzialmente al fatto che la borghesia italiana, e particolarmente la piccola borghesia, premendo indebitamente ma insistentemente sul governo, aveva ottenuto l'apertura di nuove scuole classiche e l'abbassamento del loro livello sì da facilitare ai propri figli l'ingresso all'università e alle professioni. La piccola borghesia era per Salvemini la parte più marcia della società italiana, particolarmente nel Sud. Incapaci di trovare un'occupazione rimunerativa nell'industria e nel commercio, molti laureati dell'università di Napoli, l'unica allora esistente nel Mezzogiorno, si insediavano nei posti direttivi dell'amministrazione provinciale e comunale, monopolizzavano l'attività politica nelle città e nei villaggi, opprimevano i contadini ed erano gli arbitri delle elezioni dei deputati al Parlamento. «Così la corruzione della borghesia meridionale arriva a Roma e da Roma infesta tutta l'Italia»11.
Al congresso di Firenze del 1909 Salvemini pose in stretto rapporto l'abbassamento degli studi in Italia con il declino della classe dirigente del Paese. «La borghesia ―egli affermò― distrusse con furore gli abusi del regime aristocratico che dispensava onori e uffici secondo la nascita e il beneplacito del sovrano e dichiarò che solo ai più degni si dovevano affidare le più alte responsabilità sociali. A questo scopo il solo criterio legittimo è la capacità intellettuale... Ma la borghesia considera più comodo collocare nei più alti gradi della società non i più degni, ma tutti i mediocri e anche gl'infingardi purché appartengano al ceto privilegiato». Come rimedio a questa situazione Salvemini e il suo gruppo proponevano che l'accesso dei figli della piccola borghesia alla scuola media di cultura e all'università fosse reso difficile il più possibile. Trattando questo argomento su La Voce, Augusto Monti affacciò chiaramente la proposta che «la falange dei traditori della zappa e della cazzuola» fosse dissuasa dall'entrare nella scuola media di cultura per mezzo dell'aumento delle tasse e delle difficoltà di esame e dell'apertura di molte nuove scuole di mestiere dove «le orde di scolari piccolo-borghesi» potessero riversarsi. Commentando questa proposta Prezzolini dichiarava che essa rispondeva «perfettamente a quel che "La Voce" negli ultimi tempi ha sostenuto»12.
Nel suo libro su La riforma della scuola media, Salvemini traeva le sue proposte pratiche dal principio che «la scuola deve accettare qual è» «la società qual è oggi costituita»13. Riforme educative possono aver buon esito solo se il sistema scolastico viene modificato in modo da rispondere ai bisogni della società e da rifletterne il carattere. «La soluzione del problema -egli affermò- non si troverà mai nelle proibizioni giacobine, ma nell'adattare abilmente la scuola ai bisogni delle singole classi sociali»14. Partendo da questo concetto Salvemini dava alle condizioni economiche e sociali degli studenti un peso notevolissimo nel suo piano di riforma e nella determinazione del loro avvenire e del loro corso di studi. «A parità d'anni e d'ingegno -egli scriveva nella stessa pagina- il figlio dell'artiere e del bottegaio non può proseguire negli studi di pari passo con quello del negoziante, del professionista, dell'impiegato. La quantità di idee che circolano, per cosi dire, nell'ambiente in cui vive il secondo, la maggior proprietà del linguaggio, la maggior coerenza nel discorrere, sono un aiuto indiretto, ma efficacissimo, di cui il primo è quasi totalmente privo: le condizioni iniziali dei due alunni sono diverse, e a volerli far correre insieme si toglie qualcosa all'uno senza dare nulla all'altro».
In base a queste considerazioni Salvemini divideva i giovani che proseguivano gli studi al termine della scuola elementare in tre categorie differenti.
1) «alunni ai quali le condizioni di famiglia non consentono di aspirare se non a un'istruzione postelementare di corta durata e di uso utilitario immediato»;
2) «alunni ai quali le condizioni di famiglia permettono di aspirare a studi universitari attraverso una scuola di alta cultura e di lunga durata...»;
3) «alunni di mediocre agiatezza, i quali desiderano un'istruzione di durata intermedia fra quella che si compie in 3 o 4 anni dopo la scuola elementare e quella che richiede 12 o 14 anni fino al termine delle scuole universitarie: una istruzione utilizzabile non più tardi dei 18 o 19 anni... »15.
Scuole diverse dovrebbero esser messe a disposizione dei diversi gruppi di studenti. Quelli del primo gruppo dovrebbero entrare nel corso triennale della scuola tecnica; quelli del secondo nel corso classico o moderno del ginnasio-liceo; quelli del terzo nei corsi professionali dell'istituto tecnico.
Il programma di ricostruzione educativa formulato da Salvemini stabiliva una gerarchia di valori sociali fondata specialmente sulle condizioni economiche. Questo sistema non rendeva del tutto impossibile gli scambi e le comunicazioni fra le varie classi della società, ma erigeva una barriera quasi insormontabile per il proletariato e la piccola borghesia agli alti studi e alle professioni maggiori. «Passaggi possibili senza difficoltà dalle scuole di alta cultura e di lunga durata, avviatrici per le università, a quelle di media cultura e di media durata, aventi fine in se stesse; passaggi possibili senza troppe difficoltà dalle scuole di modesta cultura e di breve durata aventi fine in se stesse alle scuole di media cultura e di media durata aventi fine in se stesse; passaggi possibili in casi eccezionali dalle scuole di media cultura a quelle di alta cultura e alle scuole universitarie: ecco i principi su cui si fonda tutto l'ordinamento scolastico che noi proponiamo»16.
Incoraggiando soltanto membri scelti dalla media e alta borghesia ad avviarsi agli studi universitari, Salvemini riteneva che l'educazione avrebbe distrutto il parassitismo della classe dirigente e promosso in essa la formazione di quelle qualità di laboriosità, iniziativa e spirito di concorrenza che erano necessarie per attuare un «autentico capitalismo» come premessa per un ulteriore sviluppo sociale. Ma è dubbio che questo programma, una volta realizzato, avrebbe arrestato il processo di decadenza culturale e sociale che si avvertiva in Italia. Esso rendeva infatti impossibile alle classi inferiori un cambiamento di condizione sociale e consolidava nello stesso tempo la borghesia al potere. La crisi del sistema scolastico italiano agl'inizi del secolo era il portato di un mutamento profondo che stava compiendosi nella struttura della società italiana. Il vecchio sistema scolastico era un ostacolo a quella «interazione delle diverse forme di vita associata» (per servirmi di un'espressione del Dewey) che era richiesta dalla nascente democrazia. Il nuovo sistema scolastico richiesto da Salvemini e da molti educatori italiani, lungi dal portare l'educazione sul piano dei bisogni di una società democratica col render possibile tale interazione, rafforzava la vecchia struttura sociale e impediva l'osmosi sociale. Né va taciuta la considerazione che una riforma interna della borghesia ben difficilmente si sarebbe effettuata attraverso la liberazione della classe dirigente dal suo grande antagonista, il proletariato, e avallando le sue pretese di dominio. Il programma di Salvemini accettava certo la società qual era, ma appunto perciò non era adeguato al dinamismo dello sviluppo sociale e frustrava le speranze delle classi inferiori.
C'era in Salvemini un forte impulso democratico che non riusciva a trovare un'espressione intellettuale adeguata. Questo grande agitatore plebeo, che fece dei suoi libri e delle sue riviste organi di denuncia costante dei mali dello Stato italiano, non era capace di spezzare il cerchio delle idee della élite intellettuale. Egli era al tempo stesso l'iconoclasta e il rappresentante della cultura italiana del suo tempo.
Quello de L'Unità fu uno dei movimenti più interessanti dell'Italia prefascista. Esso era fondato sulla constatazione che le ideologie politiche, lungi dal chiarificare la situazione reale, la oscuravano, che i partiti tenevano i loro seguaci sotto il giogo di miti e di parole d'ordine le quali non favorivano una comprensione delle cose, e specialmente che la loro energia attiva era quella stessa sete di potere la quale formava l'essenza dello Stato. Da essa non si sottraevano neppure i socialisti, ed era appunto questa la causa che impediva un vero contatto fra gli intellettuali e le masse. Queste ultime erano soltanto uno strumento nelle mani di pochi ambiziosi politicanti o un'entità metafisica in nome della quale i capi pretendevano una fetta più grande di potere. Ciò rendeva impossibili comunicazioni dirette fra uomo e uomo, scambi efficaci di esperienze fra le varie classi, libera circolazione di idee e di sentimenti, e una chiara percezione della realtà. L'Unità cercò di creare nuclei consapevoli di persone che, discutendo i problemi fondamentali della vita quotidiana, si sottraessero alle rigide linee divisorie dei partiti e delle ideologie dogmatiche accettate e promuovessero forme di consenso oltre i modi convenzionali delle alleanze settarie.
In questo movimento c'era qualcosa che poteva influire profondamente sul costume sociale dell'Italia tradizionale, una viva consapevolezza che la nuova classe dirigente, uscita vittoriosa dal processo di unificazione nazionale sotto l'influenza di idee liberali e democratiche, non aveva realizzato il suo compito. Una vera unità non era stata conseguita. Le linee di demarcazione sociale si erano accentuate. I liberali, che erano stati guidati dal convincimento di rappresentare quella sezione scelta della nazione avente il compito di guidare il resto del popolo, non erano riusciti a stabilire nessuna vera comunità d'interessi fra loro e i milioni di contadini e di operai. La volontà di potenza li aveva isolati. I metodi di costrizione che avevano adoperato per realizzare il loro programma avevano reso la loro opera ancor più infruttuosa. In Italia esistevano ancora due popoli.
Il fallimento dei liberali era indicato chiaramente dal fatto che il clero cattolico era rimasto il solo legame fra la massa della popolazione e i valori spirituali e culturali. I socialisti avevano cominciato a scalzare il monopolio del clero, ma il loro sforzo era appena all'inizio quando si verificò la «deviazione oligarchica» del loro partito. Occorreva un tipo nuovo di educazione capace di affermare il senso dell'identità del valore di tutti gli uomini, dell'importanza liberatrice della cultura per ciascuno e della necessità di un'esperienza comune senza la mediazione di istituzioni e di strati sociali privilegiati.
Il movimento de L'Unità era attrezzato a questo compito? Anche se essi avvertivano questa esigenza, Salvemini e i suoi amici non avevano spinto la loro analisi abbastanza a fondo. Essi vivevano in un periodo di progresso economico che rafforzava la loro fede in un'evoluzione lenta ma necessaria verso un mondo migliore, e non erano capaci di sottrarsi al modo tradizionale italiano di pensare solo in termini di istituzioni e non già in termini di concretezza sociale.
Salvemini intendeva dare alla classe dirigente italiana il senso della sua responsabilità, ma senza negare il suo diritto al potere. Nonostante la sua critica appassionata del processo che aveva condotto al compimento dell'unità, egli non metteva in discussione i suoi risultati. Esso offriva un'eredità preziosa a cui non si poteva rinunciare per nessuna ragione. Egli stesso aveva recato un contributo importante alla cultura promossa da questa classe e si riconosceva suo membro.
La dottrina mazziniana, che egli aveva criticata nei suoi aspetti mistici e filosofici, era da lui considerata ancor valida per la sua interpretazione del principio nazionale. Quanto più egli si allontanava dal socialismo tanto più si avvicinava alla concezione nazionale del Mazzini, che costituiva uno dei punti centrali di riferimento della classe dirigente italiana, e tanto meno era disposto a anteporre i problemi di classe ai problemi nazionali come egli aveva fatto prima del 1900. Nel 1913 Salvemini riconosceva questi due ordini di interessi come perfettamente conciliabili17. Ma già l'anno seguente metteva fine all'equivoco e invocava l'intervento in guerra dell'Italia accanto alla Francia e all'Inghilterra per instaurare un ordine internazionale fondato sulla «giustizia nazionale». Egli auspicava la creazione di nazioni democratiche indipendenti e considerava la sconfitta dei regimi autocratici d'Austria e di Germania come una condizione indispensabile per la realizzazione del suo ideale. Ma nello stesso tempo egli vedeva nell'entrata in guerra dell'Italia l'ultimo atto del Risorgimento, in quanto da essa poteva risultare l'unità completa della nazione colla conquista di Trento e Trieste.
I contadini e gli operai erano ostili alla guerra e indifferenti all'ideale della democrazia nazionale. Quelli fra loro che erano politicamente maturi seguivano i socialisti e lottavano per un'unità internazionale proletaria oltre le barriere nazionali. Salvemini e i suoi amici si unirono temporaneamente agli interventisti di ogni colore. Come egli ebbe a dichiarare più tardi, «nazionalisti, democratici e pseudodemocratici di tutte le tinte misero da parte i loro disaccordi e fecero massa per il momento intorno a quell'unica idea su cui convenivano, cioè la necessità della guerra»18.
Salvemini e gl'interventisti-democratici nutrivano la speranza e la fiducia ben note che l'Italia avrebbe combattuto una guerra democratica per l'indipendenza nazionale e la cooperazione internazionale, una guerra per finire ogni guerra. Gli avvenimenti che seguirono contraddissero queste speranze. Invece di promuovere la solidarietà internazionale, la guerra portò alla superfice la violenza e l'intolleranza da cui sorge l'ideale dell'ingrandimento nazionale. Nel corso degli eventi guerra e democrazia si rivelarono inconciliabili. Quando perciò il governo italiano fece suo il programma dei nazionalisti e sostenne le loro rivendicazioni espansioniste, Salvemini e il suo gruppo si trovarono a combattere una battaglia dura e senza speranza contro la coalizione delle forze belliciste. Al tavolo della pace i rappresentanti italiani, Orlando e Sonnino, divennero i portavoce dei nazionalisti. Solo la sollevazione democratica delle masse, che prese forma tra il 1917 e il 1920 sotto la bandiera socialista, possedeva una forza reale capace di tenere in iscacco le ambizioni nazionaliste. Ma nella loro opposizione alla guerra non meno che al nazionalismo le masse non erano in grado di far distinzione fra gl'interventisti democratici e i nazionalisti.
Tutti gli sforzi di Salvemini durante quegli anni furono intesi a differenziare se stesso e la sua causa dai nazionalisti. Egli si trovò a combattere nello stesso tempo contro la psicosi nazionalista e contro quella rivoluzionaria che avevano invaso gli animi. I gruppi dei sostenitori de L'Unità si ingrossarono mercé il contributo di molti intellettuali in buona fede che avevano condiviso l'ideale di un rinnovamento democratico attraverso la guerra. Nell'aprile 1919 i gruppi salveminiani fondarono la Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale. Nelle elezioni generali del novembre 1919 Salvemini riuscì eletto deputato nella lista degli ex-combattenti. Entrò al Parlamento nel periodo in cui la frenesia nazionalista aveva raggiunto il culmine e D'Annunzio si era impadronito di Fiume. All'offensiva bellicista e nazionalista dei ceti medi le masse popolari risposero nelle elezioni del '19 inviando alla Camera 156 deputati socialisti e 100 deputati cattolici. In tal modo il programma di rinnovamento democratico di Salvemini fu esposto alla minaccia da tre parti: da parte dei nazionalisti i quali cercavano di controbilanciare la loro esiguità numerica in Parlamento colla violenza extra-parlamentare e coll'organizzazione militare; da parte dei socialisti che sotto l'incalzare degli eventi russi levavano il grido della rivoluzione, e da parte dei cattolici che mescolavano la domanda di riforme sociali con quella di restaurazione religiosa.
In queste contingenze, mentre il movimento de L'Unità veniva spazzato via dagli estremismi in conflitto, Salvemini raggiunse la massima statura. Quasi solo egli difese la sua posizione davanti al Parlamento e nella sua rivista e denunciò la follia dei suoi avversari. Fu il solo che osò attaccare apertamente i nazionalisti accusando D'Annunzio di «disonorare l'Italia», e Mussolini di essersi appropriato di circa mezzo milione di lire di una sottoscrizione a favore di Fiume per pagarsi le spese elettorali19. Contemporaneamente egli denunciava il pericolo clericale e difendeva la tradizione laica del Risorgimento contro la politica di Giolitti diretta a far concessioni ai cattolici per ottenerne l'appoggio contro i socialisti. Ma le sue difese più appassionate furon rivolte a respingere le accuse dei socialisti i quali cercavano di screditarlo di fronte al Paese confondendolo coi nazionalisti. «Noi abbiamo accettato la guerra ―disse Salvemini alla Camera in uno dei suoi discorsi più serrati e appassionati― perché dalla tradizione mazziniana del Risorgimento avevamo ereditato l'idea dello smembramento dell'Austria. L'accettammo, perché volevamo compiuta l'unità d'Italia nel programma autentico del Risorgimento dallo Stelvio al Quarnaro "che Italia chiude e i suoi termini bagna", il programma di Mazzini e di Dante... Il nostro programma è stato sempre uno solo, perché una sola è la giustizia nazionale... Il giorno in cui, colleghi socialisti, vincerete voi, dovrete essere severi soprattutto con noi, bissolatiani, che eravamo a contatto col popolo e che abbiamo garantito al popolo la giustizia della guerra, e perciò siamo molto più responsabili di quegli altri. Impiccateci, ma rendeteci giustizia e non confondeteci con quegli altri»20.
In quell'ora di passioni senza freno non c'erano possibilità di successo per Salvemini, l'uomo della ragione, della libertà e della tolleranza. In mezzo ai nazionalisti, ai clericali e ai socialisti egli stava solo, in lotta al tempo stesso contro la rivoluzione e la reazione e a difesa della funzione storica «degli individui isolati e dei piccoli gruppi che in questo scatenamento di forze cieche e di lotte brutali clerico-borghesi e socialiste, vogliono conservare con animo retto una posizione di Centro sinistro». Convinto che «l'ideale e il metodo del socialismo riformista non hanno ancora esaurito il loro compito nella storia», egli ammoniva lo scarso manipolo di quelli che aspiravano a un cambiamento sociale nel sentiero della libertà, nella tradizione del Risorgimento, che essi dovevano abbandonare ogni speranza di successo a breve scadenza e «avere la fibra del seminatore, non del mietitore», lavorando non per sé, ma per la generazione avvenire21.
Al pari di Mazzini, sconfitto sul terreno politico, Salvemini indirizzò i suoi sforzi ad effettuare quella trasformazione spirituale degli italiani che egli considerava come premessa necessaria per attuare un mutamento politico.
La guerra non era stata quella «catastrofe purificatrice» che Bissolati, Salvemini e il gruppo degl'interventisti-democratici avevano sperato fosse. La situazione politica dell'Italia alla fine della guerra appariva ben diversa da come essi se l'erano configurata. Ma un risultato importante sembrava loro che ne fosse derivato, la partecipazione delle masse alla vita nazionale che veniva a sanare la scissura profonda che divideva il popolo italiano dalla sua classe dirigente. «Associando nelle lunghe tragiche realtà della vita di trincea la gioventù delle classi medie col proletariato specialmente rurale, accelerando colle sue esperienze la maturazione intellettuale e morale degli elementi giovanili migliori di tutte le classi, creando fra questi elementi legami non mai prima sentiti di umana solidarietà, (la guerra) ha aperto la via a larghe possibilità di benefiche azioni politiche, le quali non sarebbero state neanche pensabili in passato». Questo fatto era solennemente riconosciuto dai «gruppi degli amici de "L'Unità"» nella Dichiarazione di principi che fu approvata nel primo convegno della Lega democratica nel 191922.
Un altro effetto della guerra era stato l'accentuarsi della corruzione e della disintegrazione della vecchia classe dirigente e il frantumarsi dell'apparato statale. La speranza, espressa da Salvemini nel 1913, che un «autentico capitalismo» potesse essere attuato in Italia mercé un'attenta selezione dei quadri della classe media e una riforma dell'amministrazione governativa era stata distrutta nel conflitto. Respingendo con disdegno i funambolismi dei neo-hegeliani per dimostrare il carattere etico e divino dello Stato, Salvemini dichiarava: «quale lo vedo io, oggi, in Italia, lo Stato è la burocrazia: cioè la più mostruosa forza di male che possa aduggiare la vita del nostro Paese»23.
Da quest'analisi Salvemini e i suoi amici non traevano la conclusione che il popolo fosse maturo per l'autogoverno o che lo Stato avesse perso il diritto di sopravvivere come istituto socialmente e storicamente valido. Le masse si erano sì destate dalla loro inerzia, ma erano ancor lontane dalla capacità di governarsi da sé. Perciò la Lega democratica faceva appello ai cittadini di sinceri sentimenti democratici perché indirizzassero la loro propaganda verso i due seguenti scopi: «1) a metter in guardia il paese contro il pericolo che i tentativi rivoluzionari diano pretesto a una reazione brutale, in cui vadano perdute tutte le conquiste economiche e politiche fatte dalla classe lavoratrice in questi ultimi 20 anni; 2) a chiarire che la cosidetta dittatura del proletariato che dovrebbe succedere alla rivoluzione sarebbe la dittatura delle sole organizzazioni degli operai delle industrie in un paese come il nostro in cui il proletariato agricolo è ancora lontano nella sua enorme maggioranza da ogni capacità di organizzazione»24. Perciò il secondo convegno della Lega democratica affidò ai suoi membri il compito di «agire tra le masse» perché «proponendosi i problemi singoli della politica italiana, esse acquistassero il senso della responsabilità politica sviluppando la loro coscienza civile»25.
L'educazione del popolo sembrava a Salvemini e al suo gruppo il problema principale della vita italiana. Il popolo era ancora nella maggioranza incapace ad autogovernarsi. Lo scopo primo della Lega democratica doveva essere duplice, creare un nucleo dirigente composto di persone competenti, oneste e intelligenti, e chiarire agl'Italiani l'essenza e l'importanza dei problemi della loro vita insegnando loro praticamente e coll'esempio ad affrontarli.
La creazione di una nuova classe dirigente apparve perciò a Salvemini l'esigenza fondamentale dell'ora. Convinti di ciò, i membri della Lega democratica riuniti a convegno dichiararono che la soluzione adeguata dell'attuale «crisi di Stato» si poteva trovare in una revisione e in un mutamento del personale del governo, nella possibilità offerta a tutti i cittadini di «quello sviluppo creativo che è il risultato di un regime di auto-educazione» e nel rifiuto di ogni «tentativo subdolo o aperto di negare allo Stato ogni funzione ed ogni iniziativa di educazione». Essi dichiararono altresì che l'elevazione dei ceti proletari non si può realmente compiere, «se non sia indice di conquista cosciente e di maturità morale e tecnica di questi ceti»26.
Il punto di partenza dell'attività educatrice dei membri della Lega democratica fu pertanto la convinzione che la classe dirigente fosse intimamente corrotta e che l'istruzione che essa faceva impartire nelle scuole fosse un incitamento ulteriore alla disintegrazione sociale. In armonia con tale persuasione il programma educativo, approvato dalla Lega nel convegno del giugno 1920, comprendeva i seguenti punti: 1) L'educazione è un dovere dello Stato ma non dev'essere un monopolio statale; 2) Perciò lo Stato, pur mantenendo delle scuole per proprio conto, deve limitarne il numero a quelle che può fornire di tutto l'attrezzamento necessario e del personale meglio qualificato; 3) Le scuole private devono essere libere da ogni ingerenza statale per quel che si riferisce alla scelta dei programmi e alla nomina degli insegnanti, purché rispondano ai requisiti stabiliti dalla legge; 4) Soltanto lo Stato ha il diritto di concedere licenze e diplomi e di dare ai giovani «la loro classificazione sociale». Perciò tutti gli studenti delle scuole così pubbliche come private devono sostenere un esame di Stato per conseguire la licenza finale dei loro rispettivi corsi di studio; 5) Il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione deve essere composto soltanto di personale insegnante delle scuole pubbliche, escludendo i deputati e tutti gli altri elementi estranei alla scuola pubblica, e deve essere trasformato in un corpo deliberativo.
Il lato sociale della riforma invocata dalla Lega democratica era espresso dalla seguente dichiarazione, contenuta nell'ordine del giorno presentato da Salvemini: «La scuola pubblica non ha solamente la funzione di educare gli alunni, ma soprattutto quello di facilitare l'elevamento sociale degli elementi meglio dotati delle classi inferiori, e di classificare i cittadini secondo le attitudini; essa perciò deve accogliere senza eccezioni nelle scuole popolari tutti gli alunni delle classi disagiate, adattandosi alle loro necessità e sforzandosi di fornir loro il minimo di cultura indispensabile al cittadino dello Stato moderno; deve correggere la ingiusta sperequazione economica iniziale fra i giovani delle diverse classi sociali, offrendo borse di studio e premi di perfezionamento agli alunni di famiglie povere e d'ingegno promettente; ma deve selezionare rigorosamente i giovani, allontanando senza debolezze dalle scuole medie avviatrici per le università tutti gli inetti e i mediocri, a qualunque ceto appartengano»27.
Questo programma rispecchiava il mutamento dei rapporti di classe avvenuto fra il 1909 e il 1920 e il parallelo mutamento dell'atteggiamento di Salvemini e del suo gruppo nella valutazione del problema scolastico. Nel 1909 l'Italia godeva di una condizione di prosperità senza precedenti. La classe dirigente teneva fermamente le redini del comando e il suo potere non era seriamente minacciato dal Partito socialista. Il programma scolastico degli intellettuali di avanguardia sottolineava in quell'anno la necessità di una selezione più accurata, nel seno dello stesso ceto dirigente, di quelli fra i suoi membri che avrebbero dovuto costituire i futuri elementi di comando, limitando l'accesso ai corsi di cultura delle scuole secondarie e alle università agli elementi migliori delle classi medie e superiori.
Nel 1920 le speranze di un progresso senza limiti della società italiana ed europea nel quadro del vigente sistema sociale erano state distrutte dalla guerra e dai rivolgimenti successivi. Il movimento rivoluzionario aveva raggiunto la fase più acuta e sembrava che l'avvento dei socialisti al potere fosse imminente. Gli intellettuali che nel 1909 intendevano adeguare il sistema scolastico alle necessità di una élite rinnovata nel seno della stessa classe media si erano scissi in vari gruppi. Alcuni di essi si erano schierati coi nazionalisti e sostenevano tenacemente le idee affermate dieci anni prima; altri avevano preso posizione per i socialisti e invocavano l'accesso delle classi non abbienti all'istruzione superiore. Salvemini e il suo gruppo tennero una via mediana. Essi erano ostili insieme a una rivoluzione di sinistra e a una reazione nazionalista. Ritenevano la vecchia classe dirigente indegna del potere, ma non riconoscevano al proletariato la maturità per esercitarlo in sua vece. Essi speravano che nel corso dei prossimi anni si sarebbe potuta formare una nuova classe dirigente composta dei migliori elementi di tutte le classi della società italiana. Salvemini esprimeva la sua fiducia che «forse fra quindici anni ci sarebbero in Italia una decina di migliaia di uomini, che non avrebbero troppo da invidiare a quelle due o tre centinaia di uomini ― ché non furono più numerosi ― i quali fra il 1830 e il 1870 fecero l'unità d'Italia»28. Perciò il programma educativo della Lega democratica nel 1920 chiedeva che l'accesso alla scuola di cultura preparatrice all'università fosse aperta a tutti gli studenti «a qualunque ceto appartengano».
Tuttavia il nuovo programma scolastico, approvato dal convegno del rinnovamento su proposta di Salvemini, non garantiva la formazione di una nuova classe dirigente né l'uguaglianza di opportunità a tutti i giovani italiani come fondamento e condizione di una società democratica. Le disposizioni principali richieste dalla Lega aprivano i corsi di cultura delle scuole pubbliche soltanto a un numero molto limitato di giovani. Gli studenti delle classi inferiori avrebbero dovuto sì essere ammessi a questi corsi su piede di uguaglianza cogli studenti dei ceti abbienti mercé la concessione di borse di studio e posti di perfezionamento, ma rimaneva una basilare disuguaglianza nel seno degli studenti che non avrebbero trovato posto nelle scuole pubbliche ridotte fortemente di numero dalla riforma, cioè fra la grande maggioranza dei giovani della scuola media superiore. Fra questi i membri delle classi agiate avrebbero proseguito i loro studi e si sarebbero preparati alle professioni maggiori nelle scuole private che esigevano spese molto alte. Gli studenti provenienti dalle classi inferiori, economicamente non idonei a frequentare tali scuole, avrebbero potuto continuare gli studi soltanto nelle scuole professionali mantenute dallo Stato. Queste scuole popolari, come suonava la mozione approvata, dovevano «accogliere senza eccezione tutti gli alunni delle classi disagiate adattandosi alle loro necessità e sforzandosi di fornir loro il minimo di cultura indispensabile al cittadino dello Stato moderno».
In base a questo criterio, la composizione della futura classe dirigente sarebbe rimasta sostanzialmente immutata rispetto a quella esistente. Un numero esiguo di elementi scelti delle classi inferiori sarebbe asceso ai posti di comando accanto a una larghissima percentuale di elementi tratti dai gruppi economicamente e socialmente privilegiati. In tal modo il programma educativo della Lega democratica non dava soddisfazione adeguata alla sua esigenza della creazione di una società democratica sulle rovine del vecchio Stato aristocratico.
Ma, se la richiesta di Salvemini di una ristretta rinnovata direzione nel quadro della società esistente operava in senso contrario alla sua esigenza che l'accesso alla cultura e perciò alla pienezza umana fosse assicurato a tutto il popolo, pure è in quest'ultima domanda che va scorto il fermento dell'idealità democratica che agitava il pensiero e moveva l'attività instancabile di questo grande risvegliatore di coscienze.
Lamberto Borghi
1Discorso pronunciato alla Camera il 2 luglio 1920.
2G. Salvemini, Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano, Bologna 1922, p. 115.
3Critica sociale, 16 dicembre 1905 e 1 dicembre 1908
4La Voce, 23 giugno 1910.
5In un saggio recente intorno a L'Unità, Giuseppe Petraglione narra come la decisione di fondare la nuova rivista fu presa nell'ottobre 1911 durante un convegno nella villa di Giustino Fortunato, essendo presente oltre il Salvemini, il Fortunato e il Petraglione stesso, l'economista Gino Luzzatto. «Il titolo "L'Unità" fu proposto dal Salvemini in omaggio al suo ospite, che per lunghi anni aveva studiato la questione meridionale e combattuto per elevare le condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno al livello di quelle del Settentrione, perché fosse conseguita cosi l'effettiva unità della Patria» (G. Petraglione, Una palestra di educazione politica. "L'Unità” di Salvemini, Trani 1945).
6G. Salvemini, Mazzinianesimo e Socialismo, «Critica sociale», 1 giugno 1901, incluso poi nel volumetto Mazzini (4 ed., Firenze 1925, p. 186).
7L'Unità, 21 marzo 1913, Alla ricerca di una formula.
8G. Salvemini, Postilla a "La lotta di classe” di "a man of no importance", in «L'Unità», 10 luglio 1914.
9Questi scritti apparsi originariamente su riviste varie furono poi raccolti in due volumi, Cultura e laicità, Catania 1914 (in «Scuola e Vita», biblioteca di cultura popolare diretta da G. Lombardo-Radice, n. 11), e Problemi educativi e sociali dell'Italia d'oggi, Catania 1914 («Scuola e Vita», n. 2).
10A. Galletti e G. Salvemini, La riforma della scuola media; notizie, osservazioni, proposte, con prefazione di G. Vitelli (in Studi Pedagogici, collezione dei «Nuovi Doveri», vol. II), Sandron 1908.
11La Voce, 3 gennaio 1910, Cocò all'università di Napoli o la scuola della malavita.
12La Voce, 3 aprile 1913, La crisi della scuola media in Italia.
13Galletti e Salvemini, La riforma della scuola media, Palermo 1908, p. 219.
14Ibid., p. 56, nota 1.
15Galletti e Salvemini, La riforma della scuola media, p. 73.
16Galletti e Salvemini, La riforma della scuola media, p. 73.
17L'Unità, 14 marzo 1913, Alla ricerca di una formula.
18Da un lavoro inedito sulla Storia d'Italia dal 1919 al 1924
19Discorso di Salvemini alla Camera del 7 agosto 1920, riportato da L'Unità del 12 agosto.
20Discorso del 2 luglio 1920, pubblicato su L'Unità dell'8 luglio.
21L'Unità, 8 maggio 1920.
22L'Unità, 26 aprile 1919.
23L'Unità, 6 marzo 1920, Un po' di luce.
24L'Unità. 26 aprile 1919, Il nostro primo convegno. La dichiarazione dei principi.
25L'Unità, 13 giugno 1920, Il convegno del rinnovamento (II convegno della Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale. Roma, 2, 3 e 4 giugno 1920).
26L'Unità, 13 giugno 1920.
27L'Unità, 24 giugno 1920, Il problema scolastico al convegno del rinnovamento.
28L'Unità, 15 gennaio 1920.