Quella torre aveva a ogni piano una sola grande stanza, ogni stanza ospitava uno o due incisori, quali orafi, quali argentieri. All'ultimo piano stava l'incisore amico, un simpatico artigiano di Scandicci, specializzato a incidere collari da cane e targe da bara; per noi faceva timbri a secco per carte d'identità false, e altri indispensabili lasciapassare. Lavorava attento, tutto ripiegato sul lavoro, appollaiato su un alto sgabello intorno al quale attorcigliava le lunghe gambe. Io sorvegliavo dalla finestra come era nei patti. Quando il ragazzino delle pompe funebri, giù dalla strada, lo chiamava con un lungo fischio, lui si snodava dallo sgabello e stirandosi si affacciava, calava giù un panierino, ritirando un foglio gualcito su cui erano scritti un nome e due date. Quello era il momento di andarmene, l'incisore piantava i miei timbri, e si dava tutto al nuovo lavoro. Dopo un'ora il ragazzetto ripassava, annunciandosi con il solito lungo fischio, e il canestrino calava col lavoro finito. Tali interruzioni erano frequenti e rallentavano la fabbricazione di un timbro fino a farla durare due o tre giorni; ed era questo il· misterioso motivo per cui io andavo a cercare fra gli stemmi di Comune i più sbrigativi, dal punto di vista dell'incisione. I miei compagni non riuscivano a spiegarsi il perchè di certi strani Comuni, mai sentiti nominare, quando sarebbe stato più verosimile adoperare nomi di città già liberate. Man mano che il nostro lavoro si faceva più intenso e complesso, anche Carlo presead affidarmi altri incarichi, e così avvenne il mio primo contatto con i partigiani, nella sede della "Società per la Cremazione dei Cadaveri in Firenze" in via dell' Ariento. Dovevo sapere dal Flunci quando e dove Carlo avrebbe potuto incontrare Lanciotto di Sesto, antifascista convinto e coraggioso, che stava organizzando una banda partigiana. II mercato centrale a Firenze è un imponente edificio in ferro e ghisa; la mole, le colonnette a tortiglione, i capitelli corinzi, ne fanno una specie di tempio dedicato non si sa bene se alla dea dell'Abbondanza o al dio dei Commerci. Un odore di ammoniaca si sprigiona dalle finestre raso terra delle cantine dove si conserva il pesce la carne la verdura e la frutta. Via del- !'Ariento è una delle strade che fiancheggiano questo tempio, sull'altro lato è limitata da casucce i cui vecchi portoncini sono annullati dalla fila ininterrotta di negozi. Ortaggi, salumerie, oggetti casalinghi, drogherie, friggitorie, mescite di vino. I proprietari, non soddisfatti di tutta la pittoresca espos1Z1one nelle mostre e vetrine, dilagano sul marciapiede con pile di piatti e tegami, con ceste di cavoli, barilotti d'aringhe e banchi improvvisati con uccellini a zampe in aria, conigli spellati dagli occhi vitrei, ceste di uova, migliaccio o gelati secondo la stagione. Subito al disotto del marciapiede, proprio sul piano carrabile, le bancherelle dei venditori ambulanti inalberano le tende d'incerato fino alle finestre dei primi piani delle case. Fra le bancherelle e le botteghe la folla si urta si spinge, aggravata dalle borse da pacchi e fagotti, sì che ne viene un brusio continuo sul quale si modulano le grida dei venditori. Pensavo che Via dell'Ariento fosse una delle strade più vive e pittoresche di Firenze e intanto sbirciavo tra una bancherella e l'altra, alla ricerca di un certa targa. Finalmente, al disopra di un mastelletto dove il baccalà si ammollava sgocciolando in un rigagnolo che arrivava alla strada, una targhetta di ottone annerita dal sudicio, diceva essere quella la sede della società: "Orario dalle 9 alle 12 tutti i giorni feriali". Infilai il portoncino, ma nel buio dello stretto corridoio, andai a sbattere nella sporta di un donnone che stava uscendo. Sentii un gorgoglio strozzato, uno starnazzio, "Buona Nerina, ferma Bianchina!" disse quella carezzando con la mano aperta la capace borsa mentre mi guardava severa e preoccupata. Entrai in un andito angusto, tutto ambrogettato come i gabinetti pubblici, in fondo all'anditino un'altra targa d'ottone ugualmente annerita e una freccia; alla prima rampa di scale una porticina e ancora un'altra targa d'ottone annerita. Entrai piena di curiosità in una stanzetta con due finestre proprio a guardar il mercato; tra una finestra e l'altra una grande cornice di legno tutta intarsiata e polverosa chiudeva sotto un vetro sudicio i nomi in "ronde" dei consiglieri della società, in <alto quello più vistoso del Presidente. Sulla scrivania, piena di carte, un gran libro nero, forse quello dei soci già cremati e, come modello, su una mensola due polverose urnette di terracotta. Due Urne Cinerarie. Maria Luigia Guaita (Continua) 86 CONTROCORRENTE - Boston, Autumn 1966
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