Jiticanti credevano ancora che la situazione si potesse risolvere nel parlamento... Che cosa importava che vivesse o morisse il Parlamento? Quel che importava era che non morisse l'onore del popolo italiano, e questo nessuno di coloro che avrebbe dovuto sentirlo, senti. Nel vuoto, fatto dall'improvviso errore, intorno al Duce, tutti furono presi dal suo stesso smarrimento; nessuno seppe volere ed osare. L'indecisione, l'inerzia del diciannove rifiottò a galla, forse con sott'acqua gli stessi contrasti, gli stessi colpevoli dissensi. Tra i mille consigli s'appigliarono, come avevan sempre fatto, a quello che costava meno fatica: Rinviare e non muoversi. E la responsabilità, respinta da pugno a pugno come una palla di gomma elastica, fu cacciata in alto proprio là dove, e per il carattere della costituzione e per il carattere dell·uomo che la custodiva, non poteva che essere di nuovo respinta; tutti si porsero alla Corona. Il Re tornava dalla Spagna. Tutti aspettavano che tornasse il Re, quel che repubblicani, socialisti, rivoluzionari, manovre di corridoio e intrigo di Corte, onde conquistare l'animo del sovrano. Si trattava di far sapere al re, di convincere, di decidere il re. Durante un pranzo offerto a ras Tafari. due lettere pervennero al re e al Primo ministro che sedevano poco discosto erano firmate: i Goliardi della Libertà. La lettera al Primo ministro diceva: Tu sei l'assassino di Giacomo Matteotti, consegna i polsi alle manette. Quella diretta al re: Maestà! L'assassino di Giacomo Matteotti siede al Vostro fianco; consegnatelo alla giustizia. Impallidirono. Lessero le due lettere senza osare guardarsi. Il pranzo ufficiale continuò. E fuori, nel sole di Giugno, l'Italia era tutta un fremito sordo di rivolta. Chi la infrenò fino al momento in cui il turbine era già passato? In gran parte la colpa fu di Giovanni Amendola. ma l'uomo cui tutta l'Italia guardava in quei giorni, quello che avrebbe potuto trarre il dado e sciupò, con l'attesa inerte, una situazione rivoluzionaria fu Filippo Turati. Io m'inchino a l'uomo, il suo carattere. la sua integrità stanno al di sopra di qualunque sospetto e di qualunque critica. Per anni io ho visto in lui unMaestro e, durante il tempo in cui la lotta di idee era possibile, ho anche approvato i suoi metodi ma egli non era cresciuto per una situazione le mille miglia lontana àa ogni sua precedente previsione e dalla sua mentalità. Ho creduto talvolta che potesse comprenderlo, che sentisse la necessità di tagliarsi fuori. Una volta lo incontrai - eravamo del 25 - in piazza del Duomo e lo accompagniai alla Posta Centrale. Gli domandai quali erano le sue impressioni intorno alla situazione del momento ed egli rispose accorato: "E' molto difficile prevedere ... " Restò un momento perplesso, poi; come vinto da impeto di sincerità, mi guardò a lungo in fondo agli occhi e aggiunse: "Del resto dioende dai giovani, dipende da voi. .. " Tirò un lungo sospiro e ripetè ancora: "Bisognerebbe essere giovani. .. Noi non eravamo !orse preparati a questo genere ài lotta". Mi strinse la mano, si calò il cappello sugli occhi e se ne andò curve le spalle, traballando. Ma egli aveva in orrore il sangue e soprattutto le responsabilità del sangue. E non teneva in nessun conto l'onore del suo partito. Ma rividi ancora, per l'ultima volta in Italia quattro o cinque giorni prima dell'attentato di Anteo Zamboni del quale attentato come spiegherò in altro luogo, i sovversivi non ebbero nessuna colpa, nemmeno morale. L'attentato di Anteo Zamboni, e con le sue conseguenze, distrusse anzi la possibilità ài un tentativo che non mirava alla vita del Presidente, ma che mirava, con un rapido colpo di mano da eseguirsi a Roma, da pochissimi disperati, a capovolgere d'improvviso una situazione. Ora i pochi che dovevano partecipare al colpo di mano sapevano che probabilmente avrebbe loro costato inutilmente la vita e siccome nel Fascio di Milano avevano due o tre fiduciari sapevano anche che la rappresaglia sarebbe stata dovunque terribile. Il fascio di Milano aveva in nota centosessantadue persone che dovevano essere sgozzate, nel loro domicilio in caso di morte àel Presidente o di qualunque serio conato di rivolta. Dovunque potemmo avvertimmo senza destare sospetti, coloro che erano registrati nelle liste d'ostaggi, di andarsene. La mattina del venticinque Ottobre dunque salivo, insieme ad altro noto socialista di cui taccio il nome perchè ancora in patria. le scale di casa Turati per avvertirlo che, nei primi di novembre, era necessario si allontanasse da Milano e dall'Italia. Egli scossa la testa con un sorriso doloroso. Eravamo nella camera dove da poche settimane era morta la compagna buona ed intelligente nella sua vita, la sua Egeria, Anna Kuliscioff. Guardava con l'occhio smarrito il cuscino che serbava ancora la traccia della testa agonizzante e del freddo cadavere ormai esulato per sempre. La casa era fredda, era vuota, ma quel freddo. quel vuoto era ancora per lui una compagnia, eran tutto quello che gli restava. Casa piena ài passato. di ricordi gloriosi. di sereno lavoro. Dall'ampia finestra egli poteva guardare il miracolo marmoreo del suo Duomo e la piazza che aveva visto tante volte. nei begli anni. mareggiante un popold plaudente al suo verbo. Tutto finito, ormai! Ma egli scuoteva il capo con un sorriso doloroso: Andarmene? Dove? E poi il mio allontanamento non desterebbe il sospetto che io fossi comunque complice di un'azione che non posso impedire, ma che riprovo, che è lontana dalle mie idee dal mio temperamento? ... D'altra parte io voglio morire in casa mia. Che cosa possono farmi? Uccidermi? Stabbene; sono vecchio; troppe cose sono crollate attorno a me, posso anche morire. Morendo assassinato forse combatterei col mio cadavere l'ultima battaglia. Cercò ancora di suaderci: voleva che parlassimo con Treves e Albertlni. Con Albertini non volli parlare io. Treves anche più prudente di lui, non volle 36 CONTROCORRENTE - Boston, Spring 1966
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