stode delle Leggi, non sono state quelle che noi ·ci aspettavamo. Esse sentono di ordinaria amministrazione. A nome dei miei colleghi di gruppo e sicuro della solidarietà di tutti i deputati dell'opposizione, denuncio alla Camera e al Paese !'la troce misfatto senza precedenti. Siede. Un brivido. E sussegue un silenzio ancora più grave. "Sentono d'ordinaria amministrazione! "Ha colpito giusto. Tre parole e una certezza in tutti: la dichiarazione di Benito Mussolini non è stata di orgoglio, nè è stata di fredda scappatoia, lo stratagemma del colpevole. Ancora silenzio. Tutti s'attendono che il Capo del Governo replichi. Egli tace. Allora, dalle abissali profondità di quel silenzio, una voce si leva ch'è la voce della patria offesa, dell'umanità umiliata, la verità che deve esplodere, che deve essere detta al di sopra di tutti i timori, di tutti i convenzionalismi, di tutte le prammatiche. Un vecchio repubblicano, Eugenio Chiesa si alza e la sua testa canuta domina l'assemblea. Dice: "Parli il Capo del Governo! Tace. E' complice!" E' la condanna della storia. Che cosa può recitare il Capo del Governo? Egli tace ancora. Pallido, smarrito, nascosto dietro la siepe dei suoi sgherri che culurano onde proteggerlo da un'ombra egli china il capo come se avesse un peso sulla nuca e s'allontan'a. Quando Robespierre disperato, roco seguitava a domandare al presidente Herriot: Presidente d'assassini, dammi la parola! una voce rispose pei secoli: il sangue di Danton si affoca. Benito Mussolini non è fuso nell'acciaio di Robespierre. Non soltanto non ha chiesto la parola, ma non ha osato rispondere. E sull'aula, superando l'ululato dei suoi sgherri che imprecano a Eugenio Chiesa, rintrona non umana, ma spaventosa nello orecchio e nel cuore di tutti, la maledizione che Io perseguiterà fino alla tomba, oltre la tomba: il sangue di Matteotti ti affoga. I deputati si precipitano nell'emiciclo, si disperdono in tumulto pei corridoi. Gli oppositori, prima di abbandonare l'aula, guardano ancora il posto vuoto di Giacomo Matteotti. Il contegno del presidente li ha ormai persuasi; sanno che è stato assassinato e per ordine di chi. Quel posto rimarrà vuoto per sempre. Ma con Giacomo Matteotti ha esulato dall'aula l'onore del parlamento italiano. E il parlamento è morto con lui. Il popolo di Roma aveva tracciato una croce nera nel luogo dove Matteotti era stato rapito e vi traeva in pellegrinaggio recando fiori a fasci. Sui sette colli pareva passasse il soffio delle grandi ore storiche. I fascisti erano scomparsi a dovunque, specialmente nei quartieri della santa canaglia - Trastevere, Testaccio, Porta Trionfale, Porta San Lorenzo - si vedevano le facce pallide e torve dei rovescia tori di troni dei Gesù Cristi delle barricate, occhi che fissano il vuoto cercando se dal momento all'altro si sventoli una bandiera, orecchi intenti che aspettano il rombo di una campana a stormo, bocche semiaperte pronte a ripetere un grido di battaglia. Nessuno sventolò quella bandiera, nessuno suonò a stormo quella campana, nessuno gettò nell'aria arroventata quel grido. Chi poteva gettarlo? Non certo i maestri del diverilismo economico. In loro, traverso sett'anni di studi, s'era spento assolutamente il senso dell'onore. Non esisteva per essi nè l'onore di un individuo, nè l'onore di un partito, nè l'onore di un popolo. Per essi esisteva il calcolo aritmetico del raccolto del grano e delle patate, il calcolo solare delle crisi economiche di James, esistevano le questioni di prezzo e sopraprezzo nella società capitalistica, esistevano tutti i motivi che non hanno mai, mai a poi mai da che mondo è mondo prodotto una sola rivoluzione, entusiasmato o esasperato nessuna folla; cacciato verso il rischio disperato o l'attacco supremo di un baluardo avverso, nessun gruppo e nessuna collettività. Esistevano le bieche, le idiote, la stupide manovre parlamentari, esisteva la coscienza della borghesia, esisteva la coscienza della monarchia. La borghesia si sarebbe ribellata, il re avrebbe licenziato il suo primo ministro; ecco tutto. E attesero. Inscenarono la manovra dell'Aventino, la ricerca affannosa del cadavere dello scomparso, la compra-vendita dei Memoriali. E nemmeno dei smemorati seppero giovarsi. Non volevano Io scandalo, credevano che Mussolini fosse tal uomo da spaventarsi di sole minacce. Il memoriale Finzi, consegnato a Schiff Giogini fu tenuto da Amendola nella scrivania per quasi un mese fin quando non fu ,restituito al pagliaccetto che l'aveva redatto in un momento di smarrimento e se l'era rimangiato per paura. Il memoriale che Rossi aveva consegnato a Su sia il giorno innanzi la sua costituzione fu tenuto segreto dai capi dell'opposizione per quasi sei mesi. A chiunque urlava loro: bisogna agire, non lasciamoci sfuggire l'occasione, dicevano con un sorriso tranquillo: "No; no, no; nessun spargimento di sangue. E' inutile, Io abbiamo in pugno, è questione di giorni, ma deve andarsene; gli abbiamo fatto sapere che possediamo il memoriale di Rossi; dovevamo raccogliere le prove, le abbiamo, la battaglia è vinta. non può resistere. Va, va, va, va; domani, dopo domani, quando vogliamo noi". In questo modo ingannarono le folle, ingannarono chiunque sentiva che era necessaria l'azione. E il Duce invece di dimettersi come essi speravano, chiamava rapidamente a Roma "Francesco Ferrucci" la più sanguinaria delle Legioni toscane della Milizia. distribuiva moschetti, si rafforzava in ogni posizione e s'apprestava alla difesa. non sul terreno parlamentare, non sul terreno legale, non nel campo giornalistico. ma sul terreno conclusivo su quello che egli aveva sempre ,prescelto; il terreno della forza. La folla fremeva, la folla ondeggiava come un mare in tempesta. C'erano ancora a Roma nel Giugno del ventiquattro, almeno cinquantamila sowersivi dal fegato sano. E il delitto mostruoso senza precedenti Ii aveva esasperati. Bastava lanciarli. Ma i poCONTROCORRENTE - Boston, Spring 1966 35
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