Controcorrente - anno XXII - n. 49 - primavera 1966

Matteotti ha anche servito a rompere i lampioncini Rossi che nella luminarie fascista confondevano l'esaltazione politica e l'orgia. Alle quattro del pomeriggio del dieci Giugno la lancia di Filippelli aspetta sul Lungo Tevere Arnaldo. Il pugno che stordisce la vittima lo appioppa Albino Volpi. - Se n'è vantato tra i fidi al Padavena di Milano, dall'altra parte, Dumini aveva il braccio destro ancora debole per una ferita riportata in Francia. Volpi e Dumini cacciano a forza Matteotti semisvenuto nella vettura. Panzieri è al volante, Putato gli è al fianco. Un'altra macchina rossa, da corsa, con Malacria e Viola aspetta la Lancia lungo la Flaminia. Nell'interno della vettura Matteotti, riavutosi, si dibatte. Dumini assesta il colpo di pugnale che lo ferisce mentre la vittima lascia il suo testamento politico alla storia con la frase lapidaria: Uccidete me ma l'ideale che è in me non potrete ucciderlo mai. Non doveva essere ucciso subito. Volevano seviziarlo a lungo. Le belve amano che l'agonia delle vittime sia lenta. Doveva essere tenuto prigioniero, gli si dovevano strappare chi sa quali segreti di chi sa quali congiure antinazionali.. . La casa d'un fascista di Monterotondo doveva servire da carcere, alla tortura, doveva fare da Morgue. Ma la Lancia è ormai una bara e per un giorno intero le due macchine macabre corrono la campagna per negare un cimitero a un cadavere. Dove lo hanno sepolto? Il carabiniere pagato perchè trovasse il cadavere alla Quartarella quando la decomposizione aveva ormai cancellato la traccia del ferro onde si potesse avvalorare la buffa versione della sincope non potè illudere nessuno. Un giorno anche in torno ai particolari ancora oscuri e che del resto sono pochissimo interessanti, si farà la luce. La farà forse Amerigo Dumini che uscito di carcere, ha avuto per tutto compenso cinquemila lire e lamentandosi della meschina mercede, ha voluto rientrare in carcere. La farà il Duce se il duce non provvede o non ha già provvisto, come corre la voce insistentemente in Italia, a chiuder per sempre la bocca anche a lui. Amerigo Dumini riconsegna la Lancia macchiata del sangue del martire a Filippelli e la mattina dell'undici va a palazzo Chigi a render conto del suo operato al Duce. E gli consegna il portafogli e altre carte della vittima. Benito Mussolini è contento. Il suo cinismo e quello di Farinacci. che è perfettamente edotto del delitto, dimostrano che essi ritenevano l'Italia anche più vigliacca di quel che era effettivamente? Nel pomeriggio del dodici Giugno il Duce si presenta alla Camera. Un'ansia cupa tiene Roma e l'Italia; è un incubo che pesa sulla vita della nazione, vi peserà poi per settimane e per mesi e, non ostante tutti gli sforzi per dissiparlo, vi peserà in eterno. La Camera è nervosa, agitata. convulsa; l'occupa, con la calura estiva, il senso dell'uragano imminente e un oscuro malessere che nessun parlamento, nessuna assemblea ha saputo mai. Consessi di popolo hanno discusso di colpe, di delitti, ma si trattava di crimini politici compiuti nel solo nome d'un principio e d'un ideale, crimini che qualcuno osava giustificare in nome della suprema giustizia. Niente di tutto questo qui; la vita dei mandanti e degli esecutori, un sangue puro insozzato dal solo contatto di chi lo versa, e l'ombra attorno e il mistero; qui la vergogna di trascinare la lotta civile nei veicoli oscuri della malavita, nel drammatico volgare, qui l'agguato iniquo, la lunga premeditazione, il tentativo di occultare il cadavere, le prove; lo sgomento degli assassini, il sudiciume della menzogna. Violenza senza bellezza: infamia. Una angoscia divora i deputati della maggioranza, i complici che già sanno ma che si preparano alle estreme difese, ad altri forse pur di salvare il colpevole che gli travolgerebbe cadendo. E il colpevole è là, al banco presidenziale. La faccia flaccida, cagnazza è più pallida dell'usato sul cranio lucido che la sifilide ha spelacchiato si rappiglia il sudore freddo, l'occhio spento e smarrito, non si fissa più per minacciare nell'abituale grottesca smorfia d'imperio e di ferocia, la bocca ignobile accentua l'arco laido del labbro superiore e trema, la pappagorgia da pulcinella, da parassita invecchiato si affloscia. Sulla fronte bassa quadrata del delinquente nato vagano non le ombre del rimorso, ma quelle della paura. Il colpevole è là, sul banco presidenziale. Ha paura. E si rifugia nella menzogna. Un silenzio di tomba. Gli occhi vanno al posto vuoto di Giacomo Matteotti, alla faccia pallida del colpevole. Egli parla, ma la sua voce tremula. Balbetta. "Io credo che la Camera sia ansiosa di aver notizie dell'on. Matteotti scomparso improvvisamente martedl scorso nel pomeriggio, in circostanze di tempo e di luogo non ancora bene precisate; ma che giustificano l'ipotesi d'un delitto che, qualora fosse stato compiuto non potrebbe non sollevare l'indignazione del governo e del parlamento. Faccio sapere alla Camera che, non appena la polizia venne informata della assenza prolungata di Matteotti, ho dato io stesso ordini perentori perchè le ricerche fossero intensificate a Roma e fuori Roma e alle stazioni di confine la polizia è già sulla traccia di elementi sospetti e non trascurerà nulla per fare la luce sull'avvenimento, arrestare i colpevoli e consegnarli alla giustizia". Crede d'essere fuggito alla tenaglia. Enrico Gonzales, unitario, anima serafica d'idealista si alza. Parla per l'angoscia di tutti gli onesti, per l'Italia, per la civiltà. "E' dunque vero! In Roma, sede del parlamento, mentre la Camera è aperta, nell'anno 1924, un deputato dell'opposizione ha potuto essere attaccato, rapito e tre giorni dopo, mentre le sedute si proseguono tranquillamente. noi non sappiamo ancora se ci sarà restituito. Le parole del Presidente della Camera, difensore naturale delle garanzie degli eletti della nazione e le parole del Presidente del Consiglio, cu34 CONTROCORRENTE - Boston, Spring 1966

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