essere dubbi da poco se ancora nel '61, quattro anni dopo l'inizio della diga, la discussione era tuttora aperta in sede di commissione di collaudo sulla natura e le proporzioni dello smottamento già in atto, e sulle eventuali precauzioni da prendere. E allora perchè si è lasciato riempire il bacino? E con che toupet si è potuto in quello stesso anno '61, con la solita antifona della "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico" (oh, questo caro ordine pubblico cosi comodo per tappare la bocca a tutti!) incriminare una giornalista. Tina Merlin del- !"' Unità" la quale dopo aver condotta un'inchiesta sul posto si era fatta portavoce delle apprensioni e delle proteste degli abitanti della zona? E perchè ancora il 2 e il 3 ottobre, alla vigilia della catastrofe, gli appelli di imminente pericolo indirizzati alla Prefettura e al Genio Civile di Belluno rispettivamente dal vicesindaco e dal segretario comunale di Longarone sono rimasti lettera morta? Dovevano passare ancora, da quel momento al crollo, centocinquantasei ore. Quante vite si potevano mettere in salvo in centocinquantasei ore? E' quasi il tempo che basterebbe per evacuare Londra. Giustizia, magari. Però non aspettiamoci troppo. La difficoltà di Isolare le responsabilità e di stabilire la colpa è nella natura stessa dell'affare scaglionato in un lungo spazio di tempo, diluito in una infinita catena di parziali e isolate respnosabilità. E ciò che fa ancor più ingarbugliata la cosa è che, se si va in, fondo, si troverebbe che nessuno ha voluto scientemente ingannare o far danno, e che se qualcuno ha fallato è per leggerezza, per pigrizia mentale, per omissione, cioè quel tipo di colpa più difficile da individuare. C'è purtroppo, alla base, qualcosa di meno e qualcosa di più: i vizi di un costume, una concezione arretrata della natura dei rapporti che, in una società moderna, civicamente armonizza, debbono intercorrere tra chi esercita il potere e chi vi collabora, tra superiore e subordinato, tra dirigente e diretto. Da una parte la vecchia mentalità del commendatore e del capufflcio, il padrone sono me, l'insofferenza per il dipendente che "pianta grane", l'insensibilità di fronte al diritto di pensare, quella ottusa insensibilità di cui abbiamo avuto proprio in questi giorni un clamoroso esempio in quella vigliaccata del licenziamento di Gino Visentini, perchè, critico cinematografico del "Giornale d'Italia", si era permesso di lodare il film di Rosi che non piaceva politicamente ai padroni. Dall'altra, la mentalità del povero cristo, la paura di perdere il posto, l'ancestrale tabù italiano del " non si sa mai "! Responsabilità di costume, dunque. E quindi anche implicitamente responsabilità di regime politico. Curiosa, e per essa sintomatica di una certa mentalità dominante, fu la rabbiosa perentoria pretesa di escludere in partenza il diritto dei cittadini di trarre dal disastro illazioni di possibili responsabilità politiche. "Zitti -era l'ordine-inchiniamoci davanti ai morti, e basta!". Nessuno si sogna di non inchinarsi. Tutti ci siamo inchinati. Ma anche all'obitorio, dopo essersi inchinati, è lecito sollevare il capo e chiedere al vicino: "Perchè è morto?"· Sicuro, perchè sono morti? E certo sarebbe fazioso e puerile fare responsabile un partito del crollo di una montagna. Però quando un partito. come la democrazia cristiana, governa da quindici anni praticamente in posizione di assoluto monopolio il paese, coprendo implacabilmente ogni posto chiave con uomini propri, o finti indipendenti che hanno accettato il principio del perhtde ac cadaver, è fatale che di fronte a un parte cospicua dell'opinione pubblica esso appaia implicato, non certo nel disastro in sè, ma nella formazione di quel sistema di reticenza mentale, di paternalismo confessionale, di mitico culto del!'" ordine pubblico", che tanto contribuisce a incoraggiare negli italiani il senso della irresponsabilità e la morale dello struzzo. Proprio nel nostro penultimo fascicolo, riportammo quell'incredibile manifesto affisso a Milano nel quale si segnalava ai cittadini che un certo ufficio postale periferico era stato aperto grazie alla Democrazia Cristiana. Se è la DC, non il ministero delle Poste e Telegrafi, ossia il dicastero legale dello stato italiano, che decide l'apertura degli uffici postali, perchè essa non dovrebbe occuparsi anche delle dighe? Cosj può pensare a ragione il semplice uomo della strada; e confesso che io, come tale, con tutta la fiducia che può meritare il sottosegretario Segati, avrei personalmente trovato simpatico che a Commissario straordinario non fosse scelto un democristiano. Insomma, se anche questa sciagura nazionale si è "politicizzata", come molti deprecano, non è che una naturale conseguenza di sbagliare premesso politiche. Per disarmare una buona volta queste avversioni che tanto la impermaliscono, la democrazia cristiana ha pronto quando vuole un rimedio, di cui essa sente del resto nelle sue correnti più vive il bisogno: imparare a dividere sinceramente il potere, e non con uomini o gruppi di paglia, ma con partiti che rappresentino potenti masse d'opinione diversa dalla sua e diano garanzia di portare nelle decisioni comuni la voce di tutti. Lo stesso giorno in cui trapelò la notizia che si ventilava al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici l'idea di chiudere e abbandonare Il bacino del Valont, venne anche quella che a Longarone era nato un bimbo, il primo dopo la tragedia. Il mostro di cemento che, creato per portare luce forza e benessere agli uomini era diventato cieco strumento di morte, rientrava nella inumana pietrificata solitudine della natura. Sulla terra dei morti finalmente liberata dall'incubo, ritornava rassicurata la vita. F·z· s h. da "Il Ponte", ottobre 1963 t tppO QCC i CONTROCORRENTE-Dicembre 1963 23
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