e semidigiuno, fintanto che s'ammalò. Pur· troppo, per tanti stenti e privazioni, la diagnosi fu t.b.c. e, a pru-te il fatto che in quel tempo non erano scoperti contro la tubercolosi i potenti rimedi di oggi, il carcere di Perugia in particolare offriva ben scarse probabilità di miglioramento. Tanto apparato doveva servire a far parlare la Lea, cioè a tirar fuori dalle sue sofferenze fisiche e morali i segreti del Partito, i nomi dei compagni, i futuri intendimenti. Davvero una bella preda questa fragile donna! A Perugia nei primi giorni erano addirittura entusiasti. Senonchè l'euforia diminuì rapidamente, perchè la Lea, con la sua dolcezza, con la sua bellezza, con la sua intervenuta tremenda malattia, non diceva una parola. Si persuasero a poco a poco che si sarebbe potuto continuare per anni quella dieta, ma l'avrebbero uccisa silenziosa. Fu una grossa delusione che li fece diventare, come di solito, più cattivi. Al Tribunale Speciale la Lea è condannata a quattro anni e mezzo di carcere. Per la sua salute la mandarono alla Giudecca (Venezia), l'isola della laguna, la rpiù umida ed infetta prigione che ci fosse. Si scrivevano con Paolo, detenuto in altro stabilimento, ma quasi sempre le lettere erano soppresse e censurate. La sorella di Paolo, Nahir, la mamma della Lea, tutti della famiglia cercavano di assistere per quanto si poteva i loro due incarcerati, essi si sentivano almeno intorno l'affetto aggiunto alla fraternità dei compagni, sia pure necessariamente celata. Ma c'era pronto per la Lea il suo più grande dolore. Fu la volta che la nonna andò a colloquio con Yero, e purtroppo non fece in tempo a fermare le parole del bambino: "Mamma, la nonna piange sempre perchè Lucetta è morta". La Lea non aveva mai pianto agli arresti, alle minacce, alle lunghe torture fasciste, ma per la morte della sua bimba singhiozzò finchè ebbe lacrime negli occhi, ed era là sola malata, e in prigione. Scarcerata fu condotta a Bologna dal capo della squadra, questo voleva dire che se pur, scontata per intero la pena, non erano finiti i guai. Infatti il suddetto le affibbiò senz'altra cerimonia cinque anni di confino. Se non voleva andare, aggiunse, tutto stava in lei, e cioè quanto non aveva detto a Perugia, dichiarare che avrebbe abiurata la fede comunista, battezzato il bambino, celebrato il matrimonio religioso. Le Lea si mise a ridere, questa volta proprio si mise a ridere di cuore. Rispose che davvero non era possibile niente di tutto questo. Andassero comunque a domandarlo a Paolo, ma anche Paolo disse un no secchissimo, e il questurino non si accorse neppure di essere stato preso in giro. Prima di partire per Lipari la Lea ottenne un colloquio con Paolo. Erano cinque anni che non si vedevano, e in carcere entrambi. Non fu cosa facile: la concessione dovette esser chiesta al Ministero, e la Lea andò a Castelfranco in stato di arresto. Ma il colloquio fu bello e commovente, indimenticaOTTOBRE 1960 bile. Paolo ringraziò la sua compagna di quello che aveva coonpiuto e di quanto avrebbe fatto ancora. La guardò a lungo, non si stancava di guardarla, felice e triste a un tempo: era così cambiata, dimagrita, il male scritto sulla faccia. Soltanto gli occhi rimanevano gli stessi, vivi, la vita lucente dello spirito, della fedeltà in una idea non mai perduta, anzi aumentata nelle sofferenze. Passarono i •pochi minuti, si salutarono. Paolo disse: "Arrivederci, Aie" era il piccolo nome del loro amore. E cominciò il pellegrinaggio nelle sedi del confino, una più disagevole dell'altra. Da Lipari, andò a Ponza, e poi ancora processata e in carcere due volte, avendo organizzato agitazioni per il traittamento; si ammalò, la mandarono a Longobucco nella Sila, là stava meglio, cominciava a rimettersi, ma, s'intende, la rispedirono a Ponza. In quel posto tutti le volevano bene per il bel viso dolce, per la soavità del suo essere, aggiunta a tanta fermezza di lotta. La chiamavano la II suorina ", a lei non dispiaceva, era il riconoscimento di una prestazione benevola per tutti, gentilezza, sacrificio di sè: come dovrebbero dimostrarsi le suore, che ahimè, troppo spesso sono tutta un'altra cosa. Nel 1934 Paolo uscì dal carcere, dopo tre mesi anche la Lea ritornò. Ripresero i contatti con il Partito, il lavoro nella clandestinità. Stavano nell'ambiente favorevole della famiglia che mai aveva tralasciato di seguirli con l'assistenza concreta e nei principi politici. Vero cresceva, studiava, amava la mamma e il babbo, si teneva molto vicino a loro, quasi avesse paura che di nuovo glieli portassero via. Andò via la mamma, e questa volta definitivamente, una condanna senza scarcerazione. Si ammalò all'improvviso di setticemia, intervenne la nefrite. La portarono d'urgenza all'ospedale, sì vide subito che non c'era niente da fare, la sua validità fisica era stata troppo strapazzata e sciupata; una lenta usura senza rimedio. Anche il cuore cedeva. In due giorni, fervida, cosciente, viva nel suo pensiero fino all'ultimo, la Lea a trentanove anni, mori. Spenta, ritrovò la bellezza dei diciotto anni. Chi era bello nella faccia da prima, anche se la carne è logora e inferma, ridiventa bello quando muore. La Lea era così. Nel funerale andarono i compagni, e correvano qualche pericolo. La polizia sapeva perfettamente di quale sorta fosse il suo corteo funebre; una corona con la scritta: " Paolo per tutti " ebbe il solito cattivo gusto inutile di sequestrarla. La voce della Lea ci arriva da più lontano di tutte le voci che suonano in questo libro alla memoria. Ma è forte, alta, attuale. Viene dai limiti eroici dove nasceva la Resistenza. Renata Vigano' Al prossimo numero: IOLE BARONCINI. 17
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==