L'Avvenire dei Lavoratori - anno XXXV - n. 18 - 30 settembre 1944

., Anno XXXV (nuova serie) N. 18 Zurigo, 30 settembre 1944 LIBERARE E FEDERARE QUINDICINALE SOCIALISTA Redazione e A mm in i strazi on e: Casella postale No. 213, Zurigo 6; Conto postale No. VIII 26 305; Telefono: 3 70 87 Abbonamenti: 24 numeri Fr. 6 -, 12 numeri Fr. 3.-, una copia Cent. 30 Democrazia di Partito Sarebbe assai inopportuno lasciarsi oggi cogliere dalla fregola di discreditare intenzionalmente i partiti politici. Da questo atteggiamento nacque infatti in Italia a suo tempo il fascismo, e non può escludersi a priori che esso, tra uno o tra più anni, dovesse rinascere, con altro nome, con gli stessi intenti (se mutano infatti le forme storiche nelle quali essi si concretano, gli atteggiamenti spirituali sono per altro eterni), facendo sua la parola d'ordine: basta con i partiti'. I partiti sono gli organi indispensabili della formazione della volontà politica in una democrazia, e rappresentano il solo mezzo, che all'uomo sia concesso, per superare quell'atomismo Lt1dividualistico, il quale conduce da una parte al disinteressamento per la vita politica, e dall'altra alla sterile dispersione delle energie spirituali. Ma proprio perché cosi vitale è la necessità dei partiti politici in una nazione che voglia essere realmente democratica, appunto per questo è indispensabile mettere in evidenza con onesta sincerità i pericoli che essi racchiudono in seno, e cioé quelle tendenze, le quali possono pregiudicare proprio quella stessa democrazia, che essi avrebbero il compito cli realizzare. Tra tali tendenze quella che costituisce di gran lunga il pericolo maggiore, e alla quale in fondo si possono ridurre gran parti dei difetti intrinseci alla vita di partito, è indubbiamente la tendenza all'oligarchia .. E' una realtà che nei partiti, prima che nello stato, si rivelano quelle funeste tendenze oligarchiche, attraverso le quali si giunge a trasformare le masse in istrumenti delle cricche dirigenti. E questo fenomeno, non è purtroppo una semplice caratteristica dei partiti cosidetti borghesi, ma anche dei partiti di massa, come aveva ben dimostrato già alla vigilia della prima guerra mondiale, in uno studio criticamente condotto, una scrittore, la cui serietà scientifica era ancora in quel momento fuori discussione: Roberto Michels. L'incompetenza delle masse, che si estende a vasti campi della politica, il fatto che il numero di coloro che si interessano alla vita pubblica del paese è sempre assai modesto, la ammirazione che il popolo sente istintivamente per il vero o presunto grand'uomo, anzi addirittura l'adorazione che esso sovente è pronto a tributare a chi lo sappia sedurre con la magia della parola, il bisogno che esso ha di sentirsi guidato, l'ingenuità che gli impedisce sovente cli scorgere le malcelate ambizioni personali dietro la maschera demagogica, sono degli' innegabili dati di fatto, che sussistono accanto alle infinite qualità della sempre inesauribile anima del popolo. Sono questi gli elementi, che servono a spiegare come possa non riuscire difficile fare della massa uno strumento delle oligarchie dominanti, attraverso l'organizzazione di partito, in maniera da spogliarla, con il rispetto delle apparenze formali, di quella libertà, che in altri tempi e in altre circostanze , le viene negata invece con la più sincera brutalità. Questo pericolo dell'oligarchia è purtroppo connaturale all'essenza stessa dei partiti, per i quali l'organizzazione democratica, lungi dal!' essere effetto di una spontanea evoluzione, si attua solo se tenacemente voluta, e rappresenta una conquista, che comunque non si può mai realizzare all'atto in cui i partiti stessi si costituiscono, ma solo in una seconda fase del loro divenire. Infatti i nuclei dirigenti dei nascenti o risorgenti partiti, specialmente quando la vita delle nazioni si rinnova interamente dopo le grandi crisi delle guerre e delle rivoluzioni, sono di necessità delle «élites» non rappresentative, ma piuttosto «autorappresentative», che senza alcuna possibile delega si dichiarano interpreti di una determinata idea politica, quando ancora dietro di esse non esiste un reale ed esteso movimento di popolo. Lo sviluppo organizzativo si attua solo in un secondo momento attorno al nucleo dei fondatori, e le masse finiscono pertanto per venire necessariamente inquadrate nell'una o nell'altra già predisposte organizzazioni di partito. Necessaria ed insostituib.ile.. è certo que '!funzione dèg1i ~ eto.rl perché, se~ lo~ opera, mai non verrebbe accesa la prima scintilla dell'interesse politico. Ciò che invece non è affatto giustificato, anche se purtroppo assai frequente, è che le «élites» dirigenti, nel momento stesso in cui dovrebbero gettare le basi dell'organizzazione democratica del partito, cui ormai le masse hanno cominciato ad affluire, si affrettino invece ad organizzarlo gerarchicamente, in maniera da garantire l'incontrastato predominio del potere centrale. In ogni stadio della vita di un partito possono certo rivelarsi e concretarsi le tendenze oligarchiche; ma la cosa non riesce mai agevole come in questo particolare momento, nel quale il partito stesso, che si trova ancora allo stato fluido, scarseggia di quadri, mentre d'altra parte l'adesione dei più non ha ancora avuto il tempo di estrinsecarsi attraverso un sistema democratico: del che la storia ci dà prova con innumerevoli, anche recentissimi esempi. Trascorso questo periodo, se si siano nel frattempo affermate delle tradizioni sanamente democratiche, assai meno agevole riesce lo sradicarle. Comunque lo stabilimento di un potere oligarchico in seno ai partiti (fatto eccezione per quei pochi popoli che hanno raggiunta un'alta educazione politica) riesce sempre meno difficile di quanto di solito si creda, a motivo della già illustrata tendenza, che hanno le masse, a sottomettersi a una disciplina e ad affidarsi alla discrezione dei capi. Su questo punto la diffidenza non sarà mai troppa, _quandosi tenga presente che i dirigenti, anche se siano venuti alla politica non per ambizione, ma per sincera dedizione all'idea, sono pur sempre uomini, e che cli norma l'uomo, per quanto onesto sia, è propenso per natura a mettere in atto le condizioni, che gli garantiscano il mantenimento delle posizioni raggiunte, e sopprattutto si autoconvince con piacere dell'importanza e del valore della propria opera e quindi del suo buon diritto ad essere maestro e guida al suo prossimo, magari contro il parere dello stesso. La tendenza centralizzatrice oligarchica si rivela nella maniera più evidente nei partiti attraverso l'organizzazione burocratica, che crea una speciale classe di impiegati del partito, i quali diventano i fedeli esecutori degli ordini della direzione, da cui gerarchicamente dipendono, e tendono con ciò a subordinare alle direttive elaborate da una minoranza l'attività delle organizzazioni periferiche. Quando comunque alla burocrazia siano devolute semplici funzioni di esecuzione, un partito dotato cli spirito sanamente democratico conserva la possibilità cli porre una diga alla sua sempre pericolosa influenza. Il che invece non potrà più avvenire, quando si imponga il «cachet» del funzionario addirittura agli elementi direttivi, cui viene perciò richiesto di dedicare ogni attività al servizio esclusivo del partito, dal quale essi vengono in pratica ad essere regolarmente retribuiti in base ad un vero e proprio rapporto d'impiego. Allora la morte della democrazia risulterà veramente inevitabile. Si crea infatti una classe chiusa di dirigenti, i quali, non disponendo di altri possibili mezzi di sussistenza al di fuori della retribuzione del partito, sono interessati a non perdere a nessun costo le proprie posizioni politico-burotratiche, e risultano perciò necessariamente proni agli ordini dell'uno o dei pochi che esercitano il comando; mentre dall'altro canto il partito deve garantire a ciasuno di essi una mansione politica ufficiale, in relazione al loro grado burocratico. Una volta che l'ammissione ai seggi della direzione del partito richieda l'acquisizione della qualifica di funzionario, una volta che (come preparazione alle più alte cariche, e per garantire il ricambio in seno alla classe dirigente) si creino degli ispettorifunzionari del partito per il controllo delle organizzazioni periferiche, la vita interna del partito stesso, svuotata di ogni contenuto democratico, si riduce ad una serie di cambi della guardia fra i giovani funzionari che salgono e i vecchi o i «silurati» che scendono, per quanto grande spreco si possa fare, per abbagliare i gonzi, della parola democrazia. Ai «laici», ai no ea . non resterà alcuna possibilità di affermarsi in seno al partito, a meno che non rinuncino alle loro indipendenza, per entrare nella classe burocratica; e anche i seggi alle assemblee politiche rappresentative finiranno di norma per essere loro sottratti a vantaggio dei funzionari del partito. Con il che è lecito affermare che la democrazia di partito si riduce ad una pura e semplice caricatura. Non è detto però che anche senza una burocrazia professionale la direzione del partito non possa esercitare la propria tirannia sulle organizzazioni periferiche e quindi anche sulle masse. Può esistere infatti una diversa e più larvata forma di dominazione oligarchica in seno al partito, che già si attua a condizione che venga imposto o comunque accettato il principio che le direttive elaborate al centro, quale ne sia la natura, non debbono venire discusse, e che le designazioni per ogni singolo posto cli responsabilità sono di competenza del superiore comitato direttivo. Si afferma in questa maniera inevitabilmente una inflessibile direttiva unitaria, posto che, anche se sostenuti dalla fiducia popolare, gli oppositori, una volta che siano boicottati dall'alto, non hanno la possibilità di affermarsi in seno all'organizzazione del partito, e finiscono prima e poi per essere avulsi dalle masse, dato che l'oligarchia dirigente può utilizzare a questo scopo la organizzazione di partito, da essa pienamente padroneggiata. Con il quale ~;c,tema è chiaro che il popolo non è più libero praticamente di scegliere i propri rappresentanti; onde la funzione di ogni singolo militante del partito si riduce al disciplinato impiego della scheda in armonia con le superiori direttive. -le· Lo Stato non potrà mai essere realmente democratico, se prima non si siano sviluppati e affermati democraticamente i partiti, attraverso i quali si educa lo spirito pubblico. In certa maniera perciò il partito politico deve creare in piccolo quello stesso sistema di organizzazione democratica, che lo Stato attuerà poi sull'intero piano nazionale. Pertanto, come nello Stato il governo non dovrà essere che l'esecutore delle leggi votate dal parlamento, così il partito, se pure deve necessariamente, per l'unità di azione, contare su di un comitato direttivo, da eleggersi periodicamente, non deve mai ad esso concedere se non le semplici funzioni di organo esecutivo. Delle direttive politiche generali deve poter decidere unicamente il congresso, il quale sarà democraticamente costituito dai soli rappresentanti scelti dalla fiducia degli iscritti, al di fuori di qualunque possibile influenza del comitato direttivo. Né al comitato stesso deve essere riconosciuto il potere di designazione dei candidati alle elezioni politiche; chè, se cosi fosse, il pericolo della dominazione oligarchica, cacciato dalla porta, entrerebbe dalla finestra, in quanto le liste elettorali, direttamente compilate al centro priverebbero praticamente gli elettori di ogni libertà. Resta però fuori discussione che il centro deve esercitare in questo campo, oltre all'ovvio lavoro di coordinamento, una rigida opera di controllo, al fine di impedire che gli organi periferici si lascino attrarre nel cerchio della politica dei piccoli compromessi e dei personalismi, a tutto scapito cli quella linea morale, che ogni partito deve mantenere. Il qui illustrato principio democratico, come deve affermarsi rispetto alla direzione centrale del partito, cosi deve attuarsi in tutti i gradi dell'organizzazione; onde in ogni circoscrizione territoriale il rispettivo organo deve poter contare su una propria autonomia, che gli permetta di non aver mai a subire dall'alto nessuna imposizione cli natura vessatoria. Cosi le questioni cli carattere strettamente regionale, provinciale o comunale, vanno risolte dalle rispettive organizzazioni di partito, e non mai da un superiore «Diktat». Il potere, in una parola deve salire dal basso; e non gli organismi inferiori risulteranno cosi debitori della loro vita agli organismi superiori, ma questi debitori in ogni momento ai primi, come in qualunque sistema federativo. (Continua in 2a pag.) Note sulla socialità 1. Dicono l'uomo sia animale socievole: ricerca il simile per toccarlo, abbracciarlo, ucciderlo, riderne. E portiamo la nostra effigie negli ultimi penetrali, idolo; poi la projettiamo sui profili dei monti, ne popoliamo cieli e altari, la riconosciamo nei calcolati sgorbi degli artisti, e fino in quella galleria di vizi senza riscatto che compongono i musi bestiali. Misera socievolezza naturale, in verità, o simpatia tutta fisica, complicità: cui corrisponde l'amore naturale, la città naturale, tutte le forme di vita schiava. In quelle il civilizzato, che l'incapacità a destarsi da individuo a persona caccia e disperde nelle selve cittadine, crede talvolta sognare liberazioni, evasioni. ( Miti dell'amore libero, libertà dei Mari del Sud, ottimismo sportivo, ecc.) La socialità é forse d'altra natura che la socievolezza? La Caritas sociale del cristiano ( come dice il passo celebre di Paolo) sopporta tutto, evidentemente perché tutto vuole arso al suo fuoco: la questione dei suoi limiti é ben diversa da quella dei limiti della libertà liberale e giuridica. E' la questione tragica di tutte le passioni, smisurate per definizione: «Fai agli altri . .. » La socievolezza ( «Non fare agli altri . . .») è invece virtù di compromesso, aurea e mediocre e difensiva: fiorisce egualmente le sue gracili primavere sulla socialità come sul suo contrario. Nel primo caso tiene della pietà amorosa e si nomina Discrezione; nel secondo, dell'egoismo, e si domanda Buona Educazione. 2. Immagini della socialità: I discepoli sulla via di Emmaus. Compagni di fede in un invisibile - che si accompagna con loro. Gli uomini di Leopardi. Compagni di disperazione che nel buio si danno la mano contro il destino. I Dodici di Alessandro Blok. Compagni di combattimento rivoluzionario per la libertà. Elementi della socialità: Una realtà spirituale che é luogo d'incontro; una vocazione (o chiamata); una responsabilità (o risposta); un cammino per una espressione collettiva. La compagnia è il pane dell'itinerario. 3. Dapprima, questa folla è indifferenziata, nei suoi cenci turchini; entra, esce dalle sue baracche, apparentemente umana e socievole. La comunità forzata permette il completo isolamento, si sa. Sul terreno di lavoro, sotto il sole, gli uomini non sono che macchie pittoresche, turchine e brune, lampi di torsi sudati e di zappe, visi completi, tutto in ordine, naso oéchi bocca orecchi. Le parole sono moneta usata e sporca. Ci si lava, nella stanza delle docce. I corpi ballano nudi sotto i getti d'acqua. Che cosa mai può unire qu,estagente? La speranza é cosi lontana. Un vecchio grasso si frega le coscie bianche e canterella: « ur le pont d'Avignon - on y danse, on y danse .. . » Un coro distratto riprende: «Sur le pont d'Avignon .. . » 4. La socialità é sempre minacciata e sfuggente: il suo oggetto é il «Tu», entità equidistante dall'«Io» e dal «Noi» o dall'«Essi», realtà verificabili. Il Prossimo non é né il compagno di fila (il commilitone) né il compagno di tetto (il camerata): non é né la moltiplicazione del proprio io né la divisione atomica della massa. Il Prossimo non é casuale, ma elettivo, volontario: nasce al momento in cui dietro la forma umana del vicino scopriamo una sostanza uguale a quella che sola ci é data conoscere - che anzi conosciamo nella misura in cui la riconosciamo - : la nostra stessa. Questa «invenzione» del Prossimo che pare complicata non lo é più di qualunque autentico nwto spirituale. E' una realtà semplice testimoniata dalle sue espressioni: gli scambi tra gli uomini. Sarebbe strano errore il credere che le fonne di comunicazione tra gli uomini si originassero da contiguità o necessità naturali: vedi il problema dell'origine del linguaggio. La natura ignora la socialità e conosce solo le forme gregarie del branco, quelle della divisione meccanica del lavoro, il commensalismo, ciò che chiamiamo istinto, tanto per distinguerlo dalla coscienza. La Natura conosce l'individuo e la specie: la società é solo dell'uomo ed é solo essa che lo libera dalla contiguità e dalla necessità. Ogni acqitisto nei rapporti umani - nella cronaca nostra e nella storia del genere umano - è risultato dei momenti o della somma dei momenti nei quali abbiamo liberato il nostro simile dal carcere della sua diversità individuale e della sua unifonnità gregaria, ambedue mortali e fisiche - e ce ne siamo, di rimbalzo, liberati. Da quegli attimi di socialità decadono le forme minori, istituzionali, dove tende a farsi strumento quel che fu, nell'attimo - nel «moviniento infinito» direbbe I(ierlcegaard - fine. La socialità si solidifica, minaccia sé stessa nell'ipocrisia del «focolare domestico», nella convenzione farisaica e nel ritualismo delle Chiese, nelle tirannie di Stato o di Partito: finché un (Continua in 2a pag.)

Bi Gli inizidelmovimentoperaioitalianoin Svizzera (Continuazione) L'anno 1898 La notizia dei sanguinosi disordini avvenuti in Italia nel maggio 1898 si diffuse come un baleno tra gli immigrati italiani, accompagnata da una sequela di fantasticherie di rivoluzioni, incendi e terribili massacri, e fece esplodere l'indignazione, contro il governo italiano, che da lungo tempo fermentava nella massa. Gli italiani di Zurigo, Lucerna, Losanna, Ginevra, Montreux e altre località abbandonavano in segno di protesta il lavoro e organizzarono dei grandi comizi. La concitazione delle masse, l'indignazione loro, rese più intense da notizie esagerate o false e da violenti discorsi di demagoghi, le predispose ad accogliere favorevolmente la proposta, fatta in diverse località, di ritornare in Italia ad aiutare i fratelli nella lotta per la libertà e l'uguaglianza, e a passare senz'altro alla realizzazione del progetto. La direzione del movimento sfuggì interamente alle mani dei socialisti; coloro tra essi che, come Tonazzi, Marzetto et Vergnanini, cercarono di opporsi, non furono ascoltati o fischiati. Vergnanini, alle prime notizie dei disordini in Italia, si era recato a Lugano, per orientarsi sulla situazione, e aveva inviato subito dei telegrammi in tutte le direzioni per arrestare la formazione delle bande; lo guidava tanto la comprensione dell'assurdità del tentativo quanto il senso di responsabilità di fronte alla Svizzera: «Primo dovere degli italiani era di non compromettere la Svizzera, interrompendo e disturbando con scioperi e cortei il corso normale della vita del paese, o creando alle sue autorità delle difficoltà per parte del governo italiano», con queste parole egli giustificò più tardi il suo atteggiamento. Gli si rispondeva: «Cosa importa a noi, se non possediamo armi, se ci manca un piano d'azione e un capo, se siamo privi di mezzi? Il nostro senso del dovere ci costringe a ritornare in Italia e dividere col popolo le difficoltà e i pericoli della lotta. La nostra causa è santa, qualcheduno ci aiuterà.» accettato il punto di vista del governo, non essere stati quegli italiani dei perseguitati politici, ma solo delle persone prive di mezzi di sussistenza, perché il governo sapeva bene che le autorità italiane le avrebbe punite appunto per la loro intenzione di ritornare in Italia e partecipare alla rivoluzione. Il governo avrebbe agito meglio se fosse intervenuto subito, agli inizi del movimento, seppure non gli si possa fare una colpa di questa trascuranza, perché non vi era nessun motivo per procedere contro dei dimostranti disarmati, innocui. Dal momento però che gli italiani erano arrivati nel Ticino, si sarebbero potuti internare nella Svizzera interna e prendere eventualmente più tardi degli altri provvedimenti contro di essi; l'accompagnamento militare al confine, la consegna alle autorità italiane furono un'inutile crudeltà. Diverse centinaia di compromessi si rifugiarono allora dall'Italia in !svizzera, tra i tanti notiamo: E. Caldara, futuro sindaco socialista di Milano, il filosofo G. Rensi, i giornalisti P. Premoli, G. B. Pirolini, Ernesto Re, E. Vercesi, il futuro deputato e ministro A. Labriola, lo storico e politico socialista Ettore Ciccotti, l' Avv. Beltrami, il Prof. Pizzorno, E. T. Moneta, futuro Premio Nobel per la pace, il deputato socialista Todeschini; nominiamo ancora sei persone che prenderanno parte attiva alla vita delle colonie italiane in !svizzera: Carlo Della Valle, F. Cafassi, Silvio Cattaneo, condannati ognuno in contumacia dal tribunale militare a 15 anni di reclusione, E. Ciacchi, G. Valar e il repubblicano Ing. Gerli. L' U n i o n e S o c i a I i s t a venne a trovarsi in una situazione assai difficile. Alcune sezioni avevano perduto una gran parte dei loro membri, partiti con le bande, e dovettero cessare ogni attività; la presenza dei profughi sussidiare i reduci; anche la cassa centrale era deficitaria. Più gravi furono le conseguenze politiche: la presenza dei profughi politici richiamò, più che non accadesse nel passato, l'attenzione della polizia italiana sul1' U n i o n e S o ci a 1 i s t a ; indusse quella a perseguitare e a discreditare questa, a fare spiare i suoi dirigenti, e l'attività degli agenti provocatori italiani fece sorgere tra i compagni quell'atmosfera di diffidenza e sospetto, che è una triste accompagnatrice di ogni emigrazione politica, contribuendo cosi anche a menomare presso le autorità e il gran pubblico svizzero il buon nome e il credito dell'Unione. In Ginevra, il 16 luglio 1898 uno sciopero dei falegnami si ampliava in uno sciopero generale degli edili, nel corso del quale Si Note ,sulla verificarono i soliti incidenti: gli scioperanti cercarono di scacciare dei crumiri dai loro posti di lavoro, intervenne la polizia che fu anch'essa fatta oggetto di violenze, e allora le autorità civili credettero di dover fare appello all'esercito. Lo sciopero cessò il 21 luglio con la sconfitta degli operai. Il fatto, accaduto nel pieno della stagione estiva, preoccupò molto la borghesia ginevrina che temeva che gli stranieri potessero evitare la città minacciata dalla «rivoluzione», ed i suoi giornali non mancarono di condurre una campagna allarmista in grande stile contro gli operai. L'opposizione non si lasciò sfuggire l'occasione di criticare aspramente il governo, per la scarsa energia che egli avrebbe dimostrato nella repressione, e il governo a sua volta pensò bene di scaricare tutta la colpa sulle spalle degli italiani; il circolo socialista fu chiuso, Vergnanini e Marzetto espulsi, e ad alcuni profughi, tra gli altri A. Labriola ed E. Ciccotti, considerati come i «commessi viaggiatori della rivoluzione», fu rifiutato il permesso di soggiorno. Le discussioni e i deliberati del II congresso dell'Unione (31 luglio e 1 agosto 1898) rispecchiano le difficoltà e le preoccupazioni create da questi avvenimenti. Il congresso decise, per rafforzare la posizione dell'Unione di fronte alle autorità locali, di aderire alla Unione dei sindacati svizzeri, ben vista dal governo svizzero; che bisognava, in avvenire, essere più severi nell'accettare nuovi aderenti e di vigilare a che sezioni e iscritti si attenessero più rigorosamente agli statuti e ai principi del partito: di inviare ai giornali e ad alcune associazioni svizzere una dichiarazione, per spiegare gli scopi dell'Unione e distanziarsi dall'attività dei provocatori. Infine gli organi dirigenti dell'Unione furono riformati: si istituì una Commissione Esecutiva, il cui Segretario era anche segretario dell'organizzazione; la prima C. E. si componeva di E. Ciacchi, segretario, Rondani, Speroni, Jotti e Travaglini. L'assassinio dell'imperatrice Elisabetta, avvenuto per mano dell'anarchico Lucchini il 10 settembre 1898, fu l'ultimo colpo, ma anche il più grave. Il governo svizzero prese dei provvedimenti severi, senza distinguere troppo per il sottile, applicandoli, tra socialisti e anarchici. In Neuchatel fu proibito l'Agita - t o'r e, che aveva cercato di giustificare l'assassinio, chiusa la tipografia in cui si stampàva detto giornale, un gran numero di anarchici espulso. Il Dipartimento degli interni emanò delle direttive per regolare l'attività politica degli stranieri, e allorché I 1 Soci a 1 i sta pubblicò un appello firmato dalla Commissione Esecutica contro le misure reazionarie del ministero Pelloux, la C. E. fu senza tanti complimenti espulsa. E. V a 1 a r. ( continuazione) socialità La banda più importante, o almeno quella che più fece parlare di sè, fu quella organizzata a Losanna sotto la direzione del Peduzzi. Dopo una distribuzione di manifestini ed alcuni comizi, in uno dei quali fu data lettura di un telegramma, secondo il quale Torino stava in fiamme, nel pomeriggio dell'11 maggio alcune centinaia di italiani partivano col treno per ritornare in patria. L'itinerario prescelto non era il più diretto, si voleva fare un giro e toccare diverse importanti località per indurre altri italiani a partecipare all'azione. La banda si recò via Vevey a Montreux, quindi via Chexbres e Friburgo a Berna, dove il 12 maggio erano raccolte circa 500 persone. Il 13 la banda proseguì per Lucerna, dove si avrebbe dovuto raccogliere il denaro per continuare il viaggio. A Lucerna una parte dei partecipanti rinunciò, i rimanenti proseguirono il 14 per il Ticino, dove arrivarono nel pomeriggio. Numerosi e forti contingenti di italiani erano giunti H giorno prima in treno a Lugano, provenienti dalla Svizzera tedesca. La maggior parte dei volontari erano disarmati, solo pochi di essi possedevano delle vecchie pistole. In Lugano i componenti delle bande si incontrarono con i profughi politici che arrivavano dall'Italia e che cercarono di convincerli dell'inutilità del loro sacrificio. Per parte loro anche le autorità ticinesi avevano preso i provvedimenti del caso. Vergnanini, ritenuto in un primo -momento responsabile di tutto, fu arrestato, venne però più tardi rilasciato; le truppe erano state messe a pichetto, i funzionari cercarono di convincere gli avventurosi a rinunciare all'impresa. Nessuno poteva uscire dalla stazione, coloro che si dichiararono disposti a rinunciare all'avventura, e furono i più, poterono servirsi del primo treno in direzione del Gottardo per ritornare nei paesi di provenienza; coloro però che vollero ad ogni costo proseguire, furono, per ordine del governo federale, accompagnati da soldati svizzeri fino al confine, per essere dall'altra parte ricevuti, vale a dire arrestati, dalle autorità italiane. (continuazione prima pagina) Anche in Ginevra si era organizzata una simile banda di italiani, forte di 150 persone, che volevano recarsi in Italia attraversando il Sempione; essa raggiunse l'ospizio e proseguì nella direzione prestabilita, non però in formazione chiusa, ma divisa in piccoli gruppi, che furono fermati ad !selle dalle autorità italiane. Alcuni dei «consegnati» furono condannati più tardi dai tribunali italiani a pene varianti dai 6 ai 18 mesi di reclusione. L'avventura si conchiuse con l'organizzazione per parte della Unione sindacale svizzera di un treno speciale che ricondusse a Zurigo un certo numero di componenti delle «bande», rimasti nel Ticino interamente privi di mezzi. L'avventura delle bande, che per la sua ingenuità si sottrae ad ogni critica, ebbe una viva ripercussione nell'opinione pubblica svizzera per la procedura seguita dalle autorità svizzera al confine, che fu vivamente criticata dagli esponenti politici e dai giornali dei socialist~ e della borgh(i . Non poteva s~ere a nuovo attimo e una nuova invenzione non agirà a colare in altre forme un'altra esperienza del Prossimo. 5. Una disgrazia ha ucciso un nostro compagno. Tornavamo dal lavoro: ho veduto un gruppo di donne con le braccia tese. C'era un grande sole di mezzogiorno. Il pesante camion che era passato sul corpo del nostro compagno era fermo sullo stradone. Un gruppo compatto levava alto il ferito, due mani gli sostenevano la testa. Intorno, mentre il gruppo passava, gli uomini immobili, le ombre nette e i visi acuti delle donne. Poi si torceva, il ventre sbranato, rosso. E' morto nel pomeriggio. I più vecchi piangevano. Ma non é stato l'orrore di quella morte a scoprirci eguali, e nemmeno quel segno indelebile, la striscia della frenata sull'asfalto, lunghissima, dove nessuno pone il piede, quando si esce sulla via. Bensi un pensiero più anipio, che era in tu,tti, anche nei più induriti, anche in coloro che nei campi della fame avevano veduto ogni giorno morire a diecine i propri compagni: quel sangue e quel corpo, ogni giorno la guerra ne riproduceva innumerevoli. Cosi noi moriamo, altri i confini. Cosi il nostro presente si impoverisce, orecchi che ci potevano ascoltare durante il nostro transito si chiudono, bocche che potevano parlarci si ammutoliscono. «On meurt comme ça», dicevano. Che vuol dire: «I ta moritur homo.» E la sera medesinia, una notizia della Radio non doveva scaraventare in una pazza allegria tutta quella folla? Uno ad uno emergevano quei visi dall'indistinto in quella gioia, in una speranza violenta, la fine della guerra, la fine della pena comune. Il com,pagno era dimenticato, se non per dire «non ha potuto avere questa gio'ia». Da quel giorno ho cominciato a riconoscere qualcuno. 6. S'accoppiano l'uomo e la donna: e la loro solidarietà é correità mascherala di passione, cioé di giuslifiwzione naturale. Paradiso perduto! La penetrazione fisica simula la scintilla sociale; e l'amore ben imitalo sazia gli amanti di solitudine e di angoscia e si corrompe in peccato. S'uni. cono gli uomini per volontà di potenza: e la loro solidarietà é correità mascherata di passione, cioé di giustificazione naturale. Paradiso perduto! La contiguità delta mischia siCQ mula la scintilla sociale; e la libertà ben imitata sazia i partitanti di solitudine e di angoscia e si corrompe in servitù. Si contenta l'uom,o delle anime che porta in sé e le addormenta: e la loro solidarietà é correità mascherata col bisogno di felicità, cioé di giustificazione naturale. Paradiso perduto! La sonnolenza dei contrari simula la scintilla sociale (il primo Prossimo é se stesso); e la vita ben imitata sazia l'uomo di solitudine e di angoscia e si corrompe in morte. 7. E' molto più comodo e spiccio e «positivo» ragionar per categorie che pretendono a concrete e sono astrattissime: i cinesi, i preti, i proletari, le donne, i soldati ... Avete mai sentito come si dice: «Le donne»? Questi collettivi son molto meno imbarazzanti di una JJersona che ti sta di fronte e ti guarda e tu sai che la sua più profonda realtà é una domanda cl' amore identica a quella che porti chiusa entro di te! La 11rova: chi adopera gli uomini come strunienti - il Capo - sente la necessità di vestirli di una uniforme; chi vuol eccitare alla violenzri cerca anzitutto di far dubitare della umanità dei nemici. «Sono pazzi», si dirà, «sono saraceni», «sono borghesi», «sono tedeschi», «sono ebrei» ... Quanti fra coloro che cosi agiscono e fanno agire si rendon conto che il solo fine che giustifichi e coonesti lotta, violenza, e sangue é la nostra esigenza di libertà ver la quale noi vogliamo distruggere nell'avversario provrio qitelle determinazioni collettive che ci impediscono l'accesso al rapvorto sociale (umano) e che ritorcono contro la nostra medesima umanità. Non siamo infatti rossi se non perché vi son dei negri, né greci se non vi f assero barbari, né vroletari quando non esistesse un regime capitalista. L'uni[ orme dei nemici ci schiera in un esercito - uniforme ttnch'esso. Ma dunque ogni ravporto umano e sociale nel quale si scopra il vrossimo e l'avversario come collciboratore, anzi come parte di noi stessi cui non é possibile rinunciare se non facendo rinuncia di una parte di noi stessi, si celebra solo in nome ed in presenza di un Terzo Elemento, capace di far precipitare la soluzione - e lo chiamino i filosofi come credono. Cosi la «solitudine in due» degli amanti é davvero trista solitudine. E non é più un voradosso dire che ogni vero, o possibile, amore lo si fa in tre. (F. F.) Democrazia di Partito ( continuazione prima pagina) Da queste considerazioni deriva anche come immediato corollario che in seno al partito meritano di essere difese e tutelate le minoranze, cui non può in nessun modo essere disconosciuto il diritto di critica ( critica che, nel campo della stampa, può ad esempio trovar posto nei giornali di provincia, in contrapposizione eventualmente agli ufficiosi fogli nazionali del partito), restando però sempre fermo il principio dell'unità di azione, per cui il militante, come il cittadino di fronte alla legge, non può rifiutarsi di agire nel campo della politica attiva in armonia con le decisioni prese dai competenti organi. E' evidente infine che, nel campo politico, alla democrazia rappresentativa, che si attua attraverso deleghe dei singoli ai propri rappresentanti, è preferibile, nei casi in cui essa sia realizzabile, la democrazia diretta, nella quale il cittadino è personalmente interpellato per la soluzione del singolo problema, senza che si interponga la persona del rappresentante autorizzato. Anche questo sistema di più concreta democrazia in molte circostanze può e deve pertanto trovare attuazione in seno ai partiti politici, prima che possa essere applicato allo Stato, cui gli esperimenti nuovi e improvvisati possono riuscire facilmente dannosi. Se fino ad ora si è parlato di regole politiche da imporre ai partiti, non è però, che con questo si voglia sopravvalutare l'importanza delle norme, come se da esse tutto dipendesse. Ogni regola, che si voglia stabilire a priori, ha sempre un valore relativo, perché in ogni circostanza il primato spetta al costume. Può esistere una democrazia astratta e formale dello statuto di fronte a una realtà antidemocratica (gli esempi pur troppo abbondano!), come può esistere una democrazia concreta ed operante, anche senza l'ausilio di norme statutarie. Per questo il problema dei partiti rientra, come è inevitabile, nel più vasto problema dell'educazione politica. Solo se democraticamente organizzato e contemporaneamente fedele nello spirito alla propria organizzazione democratica, il partito politico potrà domani conquistarsi la fiducia delle masse, e vincere la diffidenza e lo scetticismo di un popolo, il quale, dopo aver assistito alla non gloriosa fine della classe dirigente prefascista e al vergonoso crollo dei gerarchi del littorio, ha perso la fiducia nelle classi dirigenti in genere, ed è propenso a vedere (e dopo tante delusioni non gli si possono dare tutti i torti) negli «uomini politici» degli ambiziosi senza fede, che vanno in cerca dei posti di governo, servendosi dei partiti come di uno strumento della loro sete di dominio, e che alla fine, qualunque sia il loro colore, giungono sempre ad equivalersi, perché l'esercizio del potere rivelerà che la loro fondamentale preoccupazione non è quella di servire il popolo, ma quella di conquistare delle posizioni personali. Il sentimento del popolo italiano non può riassumersi semplicemente nel disprezzo per la classe dirigente fascista, ma è improntato ad un più vasto e profondo pessimismo politico, che oggi si nota purtroppo assai sovente perfino negli animi di quegli oscuri eroi, che quotidianamente cadono nella lotta per la libertà. E' per questo che solo partiti realmente democratici, la cui organizzazione appaia chiaramente alle masse non come Io strumento di dominio di nuove «élites», ma come l'espressione della volontà e della fiducia del popolo, possono ridare vita allo spirito pubblico, e trasformare l'apatia popolare in cosciente e appassionato interessamento, in un clima di rinnovata educazione politica. V'è chi pensa, per un eccesso di pessimismo ( per non parlare di chi sia in malafede), che i partiti di sinistra potrebbero domani, dando prova di insensibilità morale, adottare l'opposto sistema, e rimediare perciò alla mancanza di quella cosciente e attiva partecipazione delle masse, che solo un partito realmente democratico può ispirare, con i saturnali della mistica fraseologica, la quale al servizio delle oligarchie sollecita sempre i meno chiari tra gli istinti umani. In una tale ipotesi si potrebbe forse attuare Io stesso - per quanto vi sia da dubitarne - una rivoluzione di sinistra; ma si arriverebbe alla dittatura di una minoranza, non a sufficienza selezionata, né dal lato intellettuale né da quello morale, sopra un popolo sempre avvilito, cui le riforme verrebbero donate dall'alto, per decreto legge, in un regime di servitù e di ottusità spirituale. Questo non deve e non può essere il destino del popolo italiano, il quale ha in sé le energie, per riprendere con Iena l'interrotto cammino e riconquistare il terreno perduto, se guidato e sorretto da classi dirigenti, che del loro nome si mostrino veramente degne. Tale deve essere e sarà certamente la classe politica socialista, la quale dagli altri partiti di massa attende e spera lo stesso spirito di comprensione per la vera democrazia popolare. Né questa idea democratica potrà fare a meno di affermarsi, anche contro eventuali tendenze contrarie, perché un ideale politico, se ha veramente un valore concreto ed attuale, deve infallibilmente trionfare, trascendendo e superando gli eventuali erronei atteggiamenti dei singoli, fossero magari essi in un dato momento anche alla testa dei partiti. pre. gi. ,..

' .. Bi Il pen~iero federali~ta di Carlo Cattaneo IV La libertà - pensava e credeva il Cattaneo, come pensa o, ancor prima di riflettere, crede, chi si elevi ad uno «stato d'animo» liberale -, inviscerandosi nelle attività e nelle istituzioni degli uomini, ne promuove l'educazione, ne procura il benessere, ne assicura il perfezionamento, non meno materiale che morale. Orbene - nell'ordine politico -, «libertà (scriveva il Cattaneo) è repubblica; e repubblica è pluralità, ossia federazione». Perché? Le ragioni dell'una e dell'altra equazione sono assai semplici. E si possono riassumere in altri due aforismi cattaneani. Libertà è repubblica; perché, se - a mente del Cattaneo - libertà, nell'ordine morale, è, come s'è veduto, autocontrollo, anche nell'ordine civile è autonomia (si pensi alla precisa etimologia del termine). Ora, dice appunto il nostro scrittore - con parole che sembrano riecheggiare a distanza di secoli certi accenti premonitori di Marsilio da Padova -, come «Chiesa è popolo in atto di pregare», «Repubblica è popolo in atto di far leggi». Repubblica, a sua volta. è pluralità, ossia federazione: e ciò per un'altra ragione ancora più ovvia, che il Cattaneo espone col rievocare un precetto del Machiavelli, da lui più di una volta ricordato. Cioè, che «un popolo, per conservare la libertà, deve tenervi sopra le mani»; «ora - aggiunge -, per tenervi sopra le mani ogni popolo deve tenersi in ca.sa sua la sua libertà». Soffermiamoci un poco sopra l'uno e sopra l'altro punto. Già si è accennato in precedenza come il Cattaneo non abbia fatto professione di fede repubblicana se non nella sua piena maturità, durante l'insurrezione di Milano (egli, nato col secolo, in quel momento storicamente culminante della sua vita, era, infatti, se non vecchio, alla soglia dei cinquant' anni). In quel tempestoso periodo, ad un emissario di Carlo Alberto, che lo tentava con cortigianesche lusinghe affinché componesse egli stesso un governo, e facesse la formale dedizione della città al re di Sardegna, avrebbe riposto: «La parola gratitudine è la sola che possa far tacere la parola repubblica.» Ma sebbene il Milanese, che conosceva a fondo la propria terra, sia nelle sue condizioni naturali volte a profitto dall'industria tenace degli uomini, sia nelle sue gloriose tradizione storiche, non fosse scevro di legittimo orgoglio civico, non per miope amore di municipio (come pure inclinò, per un momento, a sospettare il Mazzini) si opponeva alle affrettate fusioni, bensi per antico amore di concrete libertà. Al quale amore, prima del '48 avrebbe sacrificato - come pure s'è veduto -, la stessa indipendenza dallo straniero, acconciandosi a franchigie per la sua Lombardia sotto il dominio, quando fosse stato più nominale che effettivo, perfino della Casa d'Austria. Del resto - egli diceva in piena rivoluzione milanese ( e non dimentica di registrarlo nel suo racconto) - «le famiglie regnanti sono tutte straniere; non vogliono essere di nessuna nazione; si fanno interessi a parte, disposti sempre a cospirare con gli stranieri contro i loro popoli». Ma egli caldeggiò la repubblica non per particolare avversione ai Savoia, e nemmeno la concepì come corollario d'una missione provvidenziale commessa da Dio stesso alle differenti nazioni, bensi come conquista, e come scuola insieme, di educazione di popolo, che sempre meglio si abilitasse a governarsi da sè, cioè a dar leggi a sè stesso. La ragione e la storia, sopratutto la storia del suo paese, a cui, naturalmente, si rivolgeva di preferenza la sua sollecitudine di pensatore politico, alimentavano il suo antico amore di libertà, e le sue convinzioni repubblicane, se pur professate abbastanza tardi, ingènite nell'animo suo. La ragione: che lo persuadeva essere la repubblica la forma politica - direi, vichianamente -, «tutta spiegata» d'un regime di libertà, cioè di schietta autonomia di popolo, il quale non può dirsi libero, se abbia il bisogno o la debolezza di affidare ad un potere che si asserevi, ma troppo sovente non è, estraneo e superiore alle lotte fra classi e partiti, la dubbia tutela dei propri diritti. Il compiuto liberale ed ottimista, che era Carlo Cattaneo, come, nel 1860, combatterà quale «vanissima sentenza», quale «idea chinese, idea bizantina», quella, manifestata dal Foscolo, scrittore pure a lui carissimo, di riunire in una sola opinione tutte le sette, cosi, fin dal 1833, aveva additato, nell'esempio della libera America, i pregi d'una costituzione rispettosa di tutte le opinioni, la quale con dar facoltà «a tutti di sfogarsi liberamente», tramutava «nemici spietati» in «emuli rispettosi e mansueti vicini». La storia d'Italia lo persuadeva, poi, ad asserire che in Italia, come in Grecia, «la natura ... è repubblicana». Dobbiamo - egli scriveva - «attinger consiglio nelle istorie nostre». E tale storia anzi tali storie (anche il plurale adoperato dal Cattaneo ha un suo significato), nelle quali si rifrange la vita molteplice della nostra nazione, gli rivelavano «che l'animo repubblicano vi si incontra in tutti gli ordini». Non pure nelle classi popolari, ma altresi nell'aristocrazia stessa. «Chè anzi - egli scrive - la genuina fonte della vera nobiltà italiana, non della ribattezzata di anticamera e polizia, sta nei consessi decurionali delle antiche repubbliche municipali: e pare anzi - rincalza - che fuori di codesto modo di governo non sappia operare cose grandi». E, quanto al popolo, vale la pena di ricordare, ancor meglio che altri scritti, ciò che il Cattaneo acutamente osservava (in un articolo anonimo, ma concordemente attribuitogli, che non fu più ristampato, e che io esumai dal Politecnico del 1861) circa la educazione a governarsi da sè, che si era formata e sviluppala nelle antiche corporazioni cittadine d'Italia, le fralie, le scole, le consorterie. Le quali «furono fomite primo al rinverdire i tronchi sfrondati dei comuni, e ne sorsero loro nerbo principale, e loro infusero lo spirito proprio di libertà e d'associazione operosa ed economica». In quelle società. operaie che discutevano liberamente i loro statuti, eleggevano regolarmente i propri reggitori, rivedevano i conti sociali, ordinavano le loro milizie ed il loro governo, decidevano le insorgenti questioni, il Cattaneo ravvisava, con piena ragione, un «esercizio continuo e minuto di regime rappresentativo», in forza del quale «si mantenne nel popolo delle antiche città d'Italia quella tenace tradizione di libertà e di governo di sè, che va operando le meraviglie de' giorni nostri». Quella è democrazia autentica - riteneva il sagace pensatore, nutrito di storia, non di formule aprioristiche -, che si attua con l'educazione del popolo a governarsi da sè medesimo. Da cotesto suo robusto positivismo politico ( come io non mi pento, malgrado qualche critica rivoltami, di averlo definito), e non da ostinati pregiudizi ideologici, egli traeva la conseguenza logica dell'equazione tra repubblica e federalismo. La repubblica, infatti, sarebbe, ed è, nome vano, quando il popolo non si abiliti all'autogoverno. Vedete, egli diceva, la Francia; la Francia che pure egli amava come ogni uomo libero e colto, in ispece di quel suo grande secolo, che ancora si considerava figlio legittimo della rivoluzione francese; «Sotto qualsiasi più libero nome (scriveva nel 1848), le 86 prefetture di Francia gesticolanti in conformità del telE7 grafo di Parigi, saranno sempre serve.» E poco tempo appresso, nel 1850, come se prevedesse il colpo di Stato di Luigi Napoleone, ribadiva la stessa osservazione, quasi con le medesime parole: «la Francia, si chiami repubblica o regno, nulla monta, è composta di 86 monarchie che hanno un unico re a Parigi. Si chiami Luigi Filippo o Cavaignac; regni 4 anni o 20; debba scadere per decreto di legge o per tedio di popolo; poco importa; è sempre l'uomo che ha il telegrafo e 400 000 schiavi armati.» I suoi «principi politici - egli aveva dichiarato, in una lettera diretta ad un amico il 16 marzo 1849, cioè proprio nel periodo intermedio (anche questa constatazione cronologica ha la sua importanza) fra la prima e la seconda delle scritture testè citate, in cui erano le quasi identiche osservazioni sul regime accentrato della Francia -, cotesti principi erano «affatto all'americana e alla svizzera, e non alla francese». Tale richiamo paradigmatico al piccolo, ma, appunto, esemplare paese europeo, dove vivono da secoli in pace almeno tre stirpi diverse, ed al grande paese di là dall'oceano, dove si sono fuse e continuano a fondersi in un solo crogiuolo, perennemente riscaldato dalla viva fiamma della libertà, tante stirpi differentissime -, richiamo, il quale, assai più che alle costituzioni scritte, si riferiva al modo di vivere e di governarsi di quei popoli, ed ai benèfici risultati che ad essi ne derivano -, ritorna, com'è naturale, più volte sotto la penna del federalista Cattaneo. Egli era, però, troppo edotto di dottrine antropologiche e storiche per non sapere che qualsivoglia nazione, pur se presenti «nel suo aspetto e nel suo genio qualche tratto che la distingue, e che conserva sotto tutti i climi», è tuttavia «una incrociatura, più o meno antica e più o meno confusa, di stirpi primamente diverse». Vero, bensi, che il risvegliarsi della coscienza dei comuni interessi e ideali di un popolo, facenti capo al concetto di nazionalità, era il pensiero caratteristico del secolo decimonono, il suo principio storico e civile, anzi «il fatto più eminentemente morale» dell'epoca. Ma egli, che non predicava, col Gioberti, un primato, se pur solo morale e civile, predestinato all'Italia, come a nazione religiosa per eccellenza, creatrice, conservatrice, redentrice, della civiltà europea; egli, per il quale le differenti nazionalità non erano, come per i'idealista e credente Mazzini, un segno delle particolari missioni affidate per volere divino ai diversi popoli, note differenti ma concordanti in una medesima armonia; - egli, il Cattaneo, pur essendo un fautore del principio nazionale, come corollario della libertà e garanzia di pace, sapeva scorgere altresi come nessuna isolata dottrina fosse applicabile «agli estremi margini delle grandi nazioni, dove per fallo antico della natura e dell'uomo, i versanti e le lingue e i dialetti fanno un nodo inestricabile». Il principio esclusivo della nazionalità non era, ivi, sufficiente, né per una spiegazione storica del fatto locale, né come fondamento di pretese politiche. L'osservatore analitico e positivista, il quale non in disegni o còmpiti provvidenziali, ma aveva tuttavia una fede ragionata e robusta nelle libertà e nei suoi vantaggiosi risultati, poteva scrivere, a proposito di quelle terre di confine e dei loro abitanti, che «solamente in seno alla libertà codesti popoli possono vivere l'uno accanto all'altro in fraterno patto, e addensare infoco comune quella luce di sentimenti e di idee della quale ogni lingua e ogni gente possiede solo un raggio». Ed aggiungeva: «Queste sono terre sacre al diritto e all'umanità.» Ivi, infatti, possiamo commentar noi, dalla comparazione assidua fra sè gli altri, ch'è, anche a mente del Cattaneo, il fondamento psicologico dell'idea del diritto, ivi, dal contatto, e perfino dal possibile attrito, fra tradizioni, fra costumanze, fra aspirazioni cli genti diverse, trae alimento il principio di quel diritto universale, che il Cattaneo auspicava quale termine (e noi diremmo quale concettolimite, o meglio quale idealità direttrice) delle lotte e delle speranze degli uomini. Lotte, che potranno diventare via via più civili, speranze, che diverranno via via più concrete, col diffondersi della libertà, quale il Cattaneo la intendeva, libertà che nell'ordine civile e politico, voleva dire federalismo, rispettoso dell'autonomia dei Comuni e degli altri Enti minori dello Stato nella vita nazionale, rispettoso dell'autonomia concorde dei popoli nella vita internazionale. «La libertà vuole l'eguaglianza nei diritti e nei doveri; chi non ha diritti è un oppresso; chi non ha doveri è un oppressore.» Il federalismo di Carlo Cattaneo era, pertanto, non un residuo, anzi l'antitesi (anche in senso hegeliano, perché il deciso superamento) del vecchio, gretto, geloso municipalismo. E - ben s'intende - il federalismo, quale il Cattaneo lo propugnava, era altresi la più risoluta antitesi di ogni imperialismo nazionalistico. Col suo consueto ( e, come si è cercato di dimostrare, coerente) ottimismo, il Milanese osservava che la politica imperialistica non è soltanto contraria alla giustizia, ma è anche inprovvida per quegli stessi Stati che la pràticano, i quali «cadono in fatali interessi», dannosi alla produzione, laddove una politica, non soltanto interna, ma internazionale, che si ispiri all'universale principio di libertà, giova a quella medesima nazione che la promuove. Come, dunque, nella vita interna d'ogni singola nazione, cosi nei rapporti fra Stato e Stato, il federalismo non apparisce soltanto la conseguenza benefica, ma la salvaguardia più sicura della libertà, e, con essa, della pace. «Al sole della libertà - scriveva il Cattaneo nel 1865, augurando», colla fine della guerra americana», l'inizio di «un nuovo indirizzo cli cose» -, «va'ha posto per tutti. Il principio federale previene tutte le guerre di confini; salta tutti i confini. Dalle sue molteplici considerazioni storiche, economiche, giuridiche, etico-politiche discendeva la concezione, ch'egli propugnò indefessamente, di quella milizia civica, i cui quadri dovevano apprestarsi, con opportuno insegnamento, fino dalle scuole medie ed universitarie. «La condizione suprema della libertà fu intesa solo dagli Svizzeri e dagli Americani: militi tutti e soldati nessuno!» Netta distinzione, dunque, o meglio contrapposizione, fra la nazione armata e quello che fu poi chiamato i1 militarismo. Il quale è una minaccia per la libertà e per la pace, oltre che un disastro per l'economia di un paese: «il più grave quesito economico» sembrava, al Cattaneo, quello «di istituire una pubblica difesa che non sia d'altra parte una pubblica rovina»; ma la psicologia applicata all'economia politica lo confortava a sostenere come il meno costoso ed insieme il più efficace sistema di difesa, «se non per un governo certo per una nazione» (si noti la profonda arguzia, celata in questa rapida osservazione), quello che accoppiasse «il principio della milizia volontaria dei Romani col principio della milizia universale degli Svizzeri, perché, mentre teneva addestrati tutti gli uomini abili alle armi, in caso di guerra si sarebbe riservato di fare appello alla volontà». A differenza dal militarismo, coi pericoli inerenti al costituirsi ed al permanere d'una casta avente i propri interessi e privilegi la milizia civica era malleveria di libertà, baluardo d'ogni altra autonomia, tutela dei singoli e delle civiche guarentige contro ogni eventuale arbitrio accentratore ed usurpatore. E, mentr'essa avrebbe assicurato i diritti individuali, ed insieme l'integrità del territorio nazionale contro ogni velleità di straniera conquista, l'applicazione di tale principio essenzialmente democratico appariva perfettamente congrua ai fini etici di comune progresso. «L'armamento nazionale, scriveva il Cattaneo, ha in sè un principio di moralità eminente; perché, mentre è irresoluto e inefficace alle guerre ambiziose e invasive, e tanto più poderoso nella guerra d'incolpabile difesa»; la nazione armata era dunque, a mente sua, un «pegno» - mentre il militarismo poteva costituire un'insidia - «alla giustizia, alla pace del mondo, alla concordia del genere umano». Per tutte le accennate ragioni, economiche e storiche, giuridiche e morali, il Cattaneo propugna va il federalismo, logica appl_icazion~ della sua teoria della libertà, arra sicura d1 pace e di progresso. Col porre «avanti a ogni cosa la libertà., e come condizione di libertà l'autonomia», egli teneva per certo «che effetto spontaneo della libertà e della autonomia sarà la concordia e quindi un'unità morale e vera»: cosi scriveva ad Agostino Bertani nel 1861. E un anno prima di morire, ad un altro amico sdriveva, che il federalismo era «la questione del secolo» era «per la prima volta al mondo una questione di tutto il genere umano: - o l'ideale asiatico, o l'ideale americano: aut aut». Cosi diceva Carlo Cattaneo, or sono tre quarti di secolo. Ma egli, come molti, come i più, forse, dei maggiori intelletti, era un presbite. Antivedeva, cioè, la realtà futura, meglio che non vedesse le circostanze e gli ostacoli, che, allora, si frapponevano all'attuazione del suo programma politico. Ma la soluzione da lui propugnata della «questione del secolo» - quella soluzione federalistica che pei suoi tempi potè parere un'utopia -, sarà, forse, la realtà di domani. A. L. (continua.) ,,Liberare e I ederare" Scritti di politica economia e cultura WALTER FLIESS L'Economiadell'Europafederata La vasta visione dell'economista tedesco {antinazista) che traccia le tappe della trasformazione dell'economia di guerra in quella del tempo di pace; che indica gli istituti indispensabili alla ricostruzione dell'economia europea del domani, si fonda sulla concezione socialista e federalista della unità politica ed economica del continente. Con una chiarezza scientifica ed un calore avvincente ma privo di inutili polemiche, il lettore di qualunque nazione, a qualunque partito appartenga, è indotto a riconoscere, sulla base di dati statistici e di argomenti inoppugnabili che l'unica soluzione per por fine all'anarchia politica ed economica internazionale è l'istituzione della unione federale dei popoli europei. Un opuscolo di 80 pag. fr. 1.- la copia Indirizzare ordinazioni a: EDIZIONI DELL'AVVENIRE DEI LAVORATORI, Casella postale 213, ZURIGO 6. Versamentoanticipato da farsi al Conto postale Ylll/26305. Si effettuano anche le spedizioni contro rimborso. -Agire co111e 110111i11i di pe11siero pe11sareco111e 110111i11i d"azio11e. • Seconda serie «Memorie» «UNO DI ALLORA» L'Assassinio di GiacomoHatteotti Capire la crisi Matteotti vuol dire in sostanza capire le debolezze e le risorse dell'Italia moderna. Non è perciò un avvenimento legato alla cronaca e all'attualità. Fra cento o duecento anni, sarà ancora indagato discusso e giudicato quel periodo tristissimo della vita italiana. Non c'è stato alcun episodio del fascismo più rivelatore di quello. L'autore era la persona più indicata per parlarci con precisione di quell'assassinio e "di quel processo; egli sarà anche la persona più indicata per dirigere a Roma la revisione del processo annunziata dalla stampa. Un opuscolo di 40 pagine fr. -.60 111dirizzarele ordi11azio11ia -Edizio11idell'Avve11ire dei .Cavorntori •, Casellapostale 213, Zurigo 6. 1/ersare l'i111portoa11ticipato sul conto postale VIII 26305. Si effettua110anébe spedizioni contro ri111borso. •Liberare e f edernre• Scritti di politica, di economia e cultura UTINAM Cennie considerazioni sui n1onopoli industriali E' una introduzione alla conoscenza dell'importante problema. Con chiara ed organica esposizione i vari argomenti sono trattati nei loro aspetti realistici, pratici attuali sulla scorta di dati di fatto. 1) I monopoli industriali in Italia. Loro natura e formazione. 2) Come funzionano i monopoli; danni e vantaggi d1e ne derivano. 3) Lo stato e i monopoli. 4) Conclusione. Un opuscolo di 25 pagine fr. -.40 la copia. 111dirizzarele ordi11a=io11i a -Edizioni dell'.Avve11ire dei .Cavoratori •, Casellapostale 213, Zurigo 6. 1/ersare l'importo anticipato sul co11topostale VIII 26305. 1Je11go,ioeffettuate a11él1espedizio11ico11tro rimborso.

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