L'Avvenire dei Lavoratori - anno XXXV - n. 8 - 1 maggio 1944

Bi Anno XXXV (nuova serie) N. 8 Zurigo, 1 Maggio 1944 LIBERARE E FEDERARE! QUINDICINALE SOCIALISTA Redazione e A mm in i strazi on e: Casella postale No. 213, Zurigo 6 · Conto postale No. VIII 26 305; Telefono: 3 70 87 Abbonamenti: 24 numeri Fr. 6.-, 12 numeri Fr. 3.-, una copia Cent. 30 " ,. t ~ . . ,·t. . 'J: I I' M •! t Proletari di tutto il mondo, unitevi! •

Bit Volontà di giu~tizia Perché sono socialista? Forse perché io sto male ed altri bene? Oppure perché il mio pensare politico, morale e religioso è solo una immagine riflessa della mia condizione economica? Certo, ciò varrà per la grande massa degli uomini. Ma sono queste le uniche e più sostanziali motivazioni del socialismo? No, rispondi tu, io sono socialista perché ho riconosciuto che l'inevitabile progresso dei modi di produzione deve condurre al socialismo. Come all'organizzazione sociale feudale seguì quella capitalistica, cosi a questa deve succedere quella socialistica. Deve? Donde derivi tu questa certezza? Non la puoi possedere dalla scienza, perché la scienza può tutt'al più indicare certe tendenze, certe direzioni della storia . , di fronte alle quali ti devi decidere. Essa non ti può dimostrare che vivrai ancora domani né che la terra esisterà fra due o~e. Modi so~iali di prod~ione significano però: modi sociali di lavoro, e questi non sono altro che cooperazione di uomini viventi. Non è quindi l'uomo c~e si deve decidere, non deve contribuire egli stesso a che si muti la relazione spirituale e psichica tra lui e il lavoro? E' senza dubbio vero che, in media, lo stato sociale degli uomini determina più intensamente la loro coscienza che non il contrario. Però anche se si ammette un tale rapporto tra essere e coscienza, bisogna riconoscere proprio all'esempio di personalità come quelle di Marx, Engels e Lassalle l'enorme importanza di una coscienza morale e creatrice per la formazione di nuovi ordinamenti sociali. Questi figli della borghesia costituiscono pur essi la prova vivente, che il socialismo non è solo una questione dello stomaco e delle masse, e che proprio i grandi capi fanno epoca appunto perché essi sanno elevare la loro coscienza morale al di sopra della loro esistenza sociale. Marx, il figlio di un benestante avvocato renano, sposato con la figlia del ministro degli interni prussiano, dotato di tutte le possibilità per una comoda esistenza sociale, ma bandito dalla sua coscienza morale nell'esilio londinese, dove è costretto una volta ad impegnare il suo soprabito per comperare della carta da scrivere; e un'altra volta non può scrivere un articolo di giornale «perché non posseggo il penny necessario per andare a leggere i giornali» ; e il giorno dei funerali del suo unico amato figlio deve rivolgersi a dei francesi vicini per farsi prestare il denaro necessario per il funerale; e malgrado ciò respinge senza esitare due proposte di Bismarck, che gli avrebbero assicurata una esistenza sociale, immerso nei suoi lavori, coi quali rivoluzionerà una parte del mondo. Chi non si inchina con venerazione dinnan,zi alla potenza di questa coscienza di capo stritolatrice del mondo capitalista ed alla grandezza di questa forza morale, non sente neppure un'alito del valore e della dignità dei grandi uomini né ha compreso nulla della importanza dei grandi capi per il divenire e perire delle forme di vita storico-sociali. Ciò che ci impressiona nella figura di un Marx è la sua appassionata volontà di giustizia. Essa fu lo stimolo suo più potente, che lo fece rinunciare ai bassi vantaggi di una comoda esistenza e gli diede la forza di combattere e soffrire per la liberazione di una umanità oppressa. Nella coscienza di ogni singolo inidividuo questi motivi morali a favore o contro u.n determinato ordinamento dei rapporti reciproci sono i decisivi. Non è possibile per il momento dimostrare che il socialismo sia senz'altro l'ordinamento più conveniente o quello che si dovrà realizzare per necessità naturale. A parte il fatto che tra mille persone solo unà possederà le cognizioni necessarie per poter seguire una tale dimostrazione, ci sarebbe poco di guadagnato con essa, giacché è problematico che si possa accrescere in questo modo l'attività creatrice dell'uomo o vivificarla in modo immediato, e questo è il decisivo. Con la nozione però che il socialismo significa l'ordinamento più umano e giusto delle relazioni vitali, che il principio economico e la forma sociale del capitalismo sono un vandalismo; possiamo forse sia infondere di nuovo nell'operaio scoraggiato ed estenuato forza e impeto per la sua liberazione, sia rafforzare i mezzi sociali di lotta contro i difensori di quelle forme di vita capitalistiche. Convinzioni morali sono delle potenze poderose! Lo stesso Marx ha sempre fatto appello ad esse, quando lanciava la sua grande accusa contro l'oppressione, lo sfruttamento, l'irusensibilità, l'avidità e la sete di profitto, e quando parla del «grande dovere» della classe operaia di conquistare il potere politico. La motivazione più profonda della vera essenza del socialismo risiede quindi per noi nell'idea della giustizia sociale, nella volontà dell'aiuto reciproco e della comunità giusta, nella plasmazione morale dei nostri rapporti reciproci. Siccome però sappiamo che in media e a lungo andare l'uomo viene influenzato più profondamente dalla sua esistenza sociale e soprattutto da quella economica che non dalla sua coscienza morale, religiosa, ecc., volendo contribuire a creare degli uomini interi, dobbiamo procedere dalla giustizia formale-giuridica a quella economicamateriale. «Si è concepito fino ad oggi, per parlare con ·chte, il compito dello st-ato in lmodo 1! ni:lateral e i~letfo ci.ee una: is tuzione destinata a conservare per mezzo della legge il cittadino in quel possesso nel quale lo si trova. Si è trascurato il dovere più profondo dello stato, di intromettere prima ognuno nella proprietà spettantegli. Quest'ultimo però sarà solo possibile qualora si sopprima l'anarchia del commercio e, lentamente, anche quella politica.» L'idea della giustizia cooperativa deve quindi, nella plasmazione della realtà, essere applicata al materiale da plasmarsi, soprattutto alla produzione e alla distribuzione dei beni economici. Un idealismo che ai nostri tempi si rifiuta ad una tale virata di bordo realistica verso l'economia; un idealismo che, per parlare concretamente, viene meno di fronte al dato di fatto che nell'anno 1924 nella fabbrica di film Wolfen presso Bitterfeld delle operaie dovevano lavorare dalle 7 del mattino alle 10 di sera; un idealismo talmente estraneo alla realtà inganna o sé stesso o gli altri e possiamo benissimo fare a meno di esso. L'idealismo di Fichte era di una natura ben diversa da quella di tanti intellettuali dei nostri giorni. «L'uomo deve lavorare - dice una delle sue note sentenze - ma non come una bestia da soma che si addormenta sotto il suo carico e che viene svegliata dopo un riposo appena sufficiente per continuare a portare lo stesso carico. Egli deve lavorare senza paura, con piacere e diletto, e disporre del tempo libero per sollevare la sua anima e i suoi occhi verso il cielo, per la contemplazione del quale egli è stato creato.» Questo idealista sapeva anche che nella costruzione organizzativa della comunità giusta bisognava procedere dal materiale all'ideale, dal basso all'alto. «I membri del governo come quelli del corpo degli insegnanti e dell'esercito esistono solo in funzione dei primi (dei produttori economici).»· Chi conosce Fichte sa anche quale distanza divida malgrado ciò il socialismo da una filosofia della digestione. Ogni ideale può imporsi solo in lotta con le forze sociali esistenti. Le forze sociali del tempo presente sono collegate indissolubilmente con l'economia in questo senso, che singoli individui e gruppi posseggono grazie al loro potere economico anche il dominio effettivo sullo stato. Il padronato capitalista organizza il potere, derivantegli dal diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione, in trust e cartelli, mediante i quali esso può escludere completamente il potere statale da molte sfere, limitarlo sensibilmente in altre. Il capitale agrario, industriale e finanziario esercita in questa maniera - basta lanciare uno sgardo sugli Stati Uniti d'America-, malgrado tutte le forme di stato democratiche, sulla totalità dello stato un vasto e unilaterale dominio economico, i cui pericoli per una cultura viva non possono essere esagerati. Socialismo significa dominio giusto della comunità sull'economia. Anche se la classe operaia, intesa nel senso più lato della parola, riescirà a mettere in movimento coi mezzi concessi dalla costituzione il potere organizzato dello stato, essa potrà realizzare il pensiero della giustizia cooperativa solo se lo stato disporrà di un potere economico proprio, se al potere della proprietà privata si potrà contrapporre una proprietà pubblica, socialista, seppure non necessariamente statale. · Il socialismo si rivolta contro il dominio di classe. Contro quel dominio di classe nel quale non l'ingegno e la capacità personale, ma soprattutto condizioni economiche esteriori decidono della partecipazione all'educazione e istruzione, al potere e all'onore sociale. La formazione delle classi non è per nulla un dato di fatto naturale, come vuole la teoria sociale del liberalismo, essa non è semplicemente l'espressione della disuguaglianza personale e naturale degli uomini, ma basa su determinate cause economiche - soprattutto sul possesso e non-possesso dei mezzi di lavoro -, quindi su dati di fatto sociali, di origine storica e storicamente mutabili. Gli avversari del socialismo, ma anche diversi suoi amici spensierati, sono del parere che socialismo non significhi solo eliminazione delle differenze di cla~se, ma livellamento generale. Né Marx né Engels né altri capi socialisti hanno mai sostenuto sciocchezze di questo genere. Al contrario: Engels sottolinea con vigore che l'essenza della richiesta socialista di eguaglianza consiste solo nella eliminazione delle classi. «Ogni pretesa di uguaglianza che vada più in là conduce inevitabilmente all'assurdo.» ( «Dilhrings Umwiilzung der Wissenschaft») E Marx dice: «Il diritto uguale è diritto disuguale per lavoro disuguale. Esso non riconosce differenze di classi, perché ognuno è solo lavoratore come gli altri, ma esso riconosce tacitamente come dei privilegi naturali la disuguaglianza del talento individuale e quindi anche della capacità.» (Neue Zeit, 1891.) Il socialismo parte quindi dalla premessa che con l'attuale mentalità e forma dell'economia e per colpa loro enormi masse di «evoluzione umana» (l\1arx) sono sottratte alla connessione della cultura. Suo fine è però tutto un mondo spirituale molto lontano dall'ideale liberale di una comoda felicità utilitaria del maggior numero. E per il socialismo la vocazione terrena dell'uomo non consiste in un ~o isf~1te appagamento ma in un accrescimento individuale e sociale delle forze creatrici di cultura, della forza interiore ed esteriore dell'uomo. Anche per questo egli può richiamarsi a Fichte che assegnò quale massimo fine morale della ragione la cultura, e bensi la cultura considerata come un diritto di ogni uomo al dominio sulla natura esterna e interna, «quale un dominio che si deve sempre più ampliare sulla natura e che costituisce il diritto di tutti - sulla natura esterna: miglioramento dell'agricoltura, delle arti e dei mestieri, sempre in un giusto rapporto reciproco; su quella interiore: educazione generale della ragione e della volontà di tutti». Accresciuta vitalità dell'animo e dello spirito nasce solo da una intima comunione dell'uomo con l'uomo. Proprio queste radici sono state divelte dalla rivoluzione industriale. E' per questo che il socialismo combatte la mentalità del freddo calcolo che domina oggigiorno interamente i rapporti reciproci degli uomini. Il socialismo è l'espressione del profondo, nell'uman. genere mai perituro desiderio di rendere intimi i rapporti tra gli uomini; in ultima analisi esso è il desiderio di trasformare la società esteriore in comunità interiore. Che delle misure organizzatrici della società non siano sufficienti per realizzare una tale comunità socialista fondamento di civiltà, che per ottenere questo sia assolutamente necessario un rinnovamento delle molto più profonde fondamenta spirituali e morali, ciò sia qui solo accennato. Il problema fondamentale del socialismo consisterà nella trasformazione del capitalistico proletario che vive della vendita della sua merce forza di lavoro, senza un qualsiasi rapporto intimo col lavoro e senza un profondo collegamento con una comunità viva, nell'operaio socialista, legato dal suo sentimento e dalla sua coscienza in ordinamenti concreti del lavoro e della vita ad un tempo più stretti e più ampi, che viene aiutato e sostenuto da solide comunità, le quali svegliano in lui il piacere al lavoro e il senso della responsabilità. L'idea della comunità giusta ha un valore generale che non si riferisce solo ad una classe o nazione. «Bisogna creare, come dice Fichte, un vero regno del diritto, quale mai fin'ora è esistito nel mondo, con tutto l'entusiasmo per la libertà del cittadino, che noi riscontriamo nell'antichità, senza il sacrificio della maggioranza degli esseri come schiavi, senza cui gli antichi stati non potevano esistere : per la libertà fondata sulla uguaglianza di tutto ciò che ha aspetto umano.» Non bisogna aspettarsi che un miracolo realizzi l'idea della comunità socialista, meno che mai il miracolo della dialettica della storia che si realizza da sé. Noi siamo oggi posti di fronte a delle realtà personali e sociali e dobbiamo conpenetrarle con intelligenza e azione. Noi non dobbiamo scansare nessuna di queste realtà rifugiandoci in una sterile negativa, tutte debbono essere considerate e utilizzate positivamente o negativamente per la costruzione. Hermann Heller. «C'è una questione che viene eliminata, in atmosfera totalitaria, ed è quella senza di cui non c'è l'uomo: "Perché si vive?,, A tale questione, non è permesso rispondere altro che con diversivi e con falsi problemi, come il famoso problema del "corporativismo,,, questa forma degradata e depauperata del problema sociale. In tutti i tempi e sotto tutti i regimi, sollevare il problema del valore della vita ha sempre voluto dire esser capace di uno sforzo su,premo di liberazione e di creazione morale, artistica e sociale. In regime fascista, il semplice fatto di porselo significa implicitamente mettersi fuori del fascismo e minare alla base l'ordine esistente. Per me, il carattere più minaccioso del fascismo e, al di là del fascismo, della nostra epoca in generale, è questo fenomeno della concentrazione forzata dell'interesse sui formalismi e i meccanismi, alla ricerca di una panacea che non esiste; in modo che tutti i problemi della vita concreta degli uomini diventano dei problemi di ordinamento burocratico. Su questa strada, si finisce per percler di vista la sola cosa che importi: l ' u o m o.» Nicol a Oh i aro monte. DALLA PRIGIONE Dalla prigione intendo il canto dei sentieri. Io mi tendo ed ascolto: s'avvicinano i passi. Così a forza di tenderla limo la mia catena. Sarà spezzata (viene l'ora, bisogna attenderla) quando i passi ed il canto batteranno alle parte: allora - falso incanto la cella s'aprirà. da Pierre Emmanuel 1919 (25 anni addietro) 1 maggio: Riprende ad uscire a Milano l' «Avanti! :1> dopo la distruzione della sede ad opera dei fascisti avvenuta il 15 aprile. - Manifestazioni imponenti per la ricorrenza del 1 ° maggio a Roma, Milano e in tutte le città italiane. - Violenti conflitti a Parigi con parecchi feriti e qualche morto. - Manifestazioni imponenti pure a Zurigo. - I giornali danno per imminente la caduta della repubblica sovietica di Monaco di Baviera. - Prima presa di contatto a Versailles tra i delegati alleati e quelli tedeschi. 3 maggio: Il governo svizzero ha deciso il lesto della legge riguardante la settimana di 48 ore nelle fabbriche. - I medici socialisti milanesi hanno deliberato di costituire un' Associazione Nazionale dei medici socialisti ed hanno lanciato un appello con un programma di rinnovazione della professione medica su base socialista. - Sciopero di tutti i tramvieri d'Italia e dei ferrovieri delle ferrovie secondarie della Lombardia. - A Versailles continuano i lavori malgrado l'assenza della commissione italiana. 4 maggio: Inizio a Berlino del processo contro gli assassini di Carlo Liebknecht e di Rosa Luxemburg. - E' risolta in Italia la vertenza degli impiegati ed operai metallurgici che si trascinava da diverso tempo, e sono state dagli industriali riconosciute le commissioni interne e la formazione di un ufficio di collocamento diretto da commissione paritetica. - Il governo russo ed ucraino chiedono al governo romeno la sgombero immediato della Bessarabia. 5 maggio: La guerra civile infuria per le vie di Monaco. - A Versailles il Consiglio dei tre ha rivolto un appello al governo italiano perché torni a prender parte alla conferenza per la pace. - Budapest occupata dai Romeni. - L'ambasciata ungherese di Vienna occupata da ufficiali reazionari. - Mobilitazione per ordine del governo sovietico di Ungheria di tutti i proletari che hanno ricevuto istruzione militare. 6 maggio: Cento socialisti eletti membri del Consiglio Municipale di Vienna. - Disordini antiserbi in tutta la Bosnia. - Si annuncia imminente l'arrivo di Orlando e Sonnino a Parigi. 7 maggio: Arrivo di Orlando e Sonnino a Parigi. - Il Consiglio economico interalleato si è riunito a Parigi; esso ha deciso di garantire l'isolamento economico della Germania nel caso che i delegati tedeschi rifiutassero di firmare i preliminari della pace. - L'intesa ha deciso di convocare anche i delegati austroungarici. - Pubbljcazione delle condizioni romene per l'armistizio con l'Ungheria. - Restaurazione a Monaco con esecuzione di numerosi capi repubblicani comunisti. 8 maggio: Presentazione dei preliminari della pace ai delegati tedeschi a Versailles dopo un'allocuzione di Clemenceau e riposta del presidente della delegazione tedesca BrockdorffRantzau. - Riunione in Italia del gruppe parlamentare socialista: viene approvata una mozione deplorante l'intervento contro le repubbliche comuniste. - Riunione a Roma del Consiglio direttivo della Federazione delle Associazioni della Stampa per deliberare una protesta contro la censura. - Fine dello sciopero dei metallurgici. - Si è iniziato a Roma avanti al Comitato permanente del lavoro l'esame dello schema della legge sulle 8 ore di lavoro. 9 maggio: Il processo di Berlino contro gli assassini di Carlo Liebknecht e Rosa Luxemburg si svolge davanti ad un tribunale di guerra, inappellabile, composto da giudici della stessa formazione militare cui appartengono gli ufficiali accusati: protesta dell'avv. Teodoro Liebknecht e dell'avv. Rosenfeld. - A Versailles i delegati tedeschi sono sdegnati per l'inumanità delle condizioni imposte dagli alleati in flagrante contrasto con i 14 punti di Wilson. - L'assemblea nazionale czeco-slovacca ha votato una legge sulla riforma agraria che prevede un frazionamente della grande proprietà con distribuzione di essa ai piccoli proprietari ed a nullatenenti e compensi ai proprietari vittime dei sequestri. - Sciopero di camerieri a Bari. 10 niaggio: Il capo della Delegazione tedesca a Versailles Brockdorff-Rantzau ha inviato due note di protesta contro le condizioni di pace imposte dagli Alleati. - Viene pubblicato il testo del progetto di legge Turati sulle 8 ore di lavoro. 12 maggio: L'on. Labriola ha diretto al Ministero degli Esteri un'interpellanza per sapere se possa giudicarsi conforme ai principi invocati dall'Italia entrando di guerra il trattato che gli alleati vorrebbero imporre alla Germania ... trattato che nell'interesse della plutocrazia francese, inglese ed americana creerebbe la schiavitù del popolo lavoratore della Germania e creerebbe il germe di future guerre. - Le truppe ungheresi sovietiche continuano a difendere accanitamente il suolo patrio. 13 maggio: Violenta reazione dell'Assemblea Nazionale Germanica alle condizioni di pace degli alleati. - Al processo contro gli assassini di Liebknecht e della Luxemburg condanne vergognosamente miti degli assassini Runge e Pflugk-Hartung. - Sciopero dei lanieri biellesi.

B Anno XXXV (nuova serie) N. 8 L'AVVENIRE DEI LAVORATORI DeIDocrazia dei consuDiatori e deD1ocrazia dei la-voratori estremi esiste un p un t o m e d i o , che la economia liberistica pretendeva determinabile dal libero gioco della domanda e dell'offerta. In difetto di tale meccanismo, ormai dimostratosi incapace di funzionare, il punto medio potrà essere determinato soltanto in base a criteri economico-politici, mediante uno o più piani economici, dagli organi di una democrazia dove siano liberamente rappresentati ed equilibrati gli interessi dei consumatori e dei produttori. Solo tali organi sono in grado di decidere se, in un determinato periodo, convenga alla collettività sacrificare il tenore di vita alle necessità delle ricostruzioni, delle opere pubbliche, ecc., o viceversa. «La produzione va messa al servizio del fabbisogno, talché il piano del consumo popolare preceda e segni la via a quello della produzione. Nel futuro non dovrà più spettare al prezzo e al profitto di decidere che cosa e in che misura si debba produrre, bensi al fabbisogno della collettività. Solo in tal modo si potrà stabilire una effettiva "democrazia dei consumatori,,.» Cosi veniva riassunta e riportata, nel n° 5 dell' <<Avvenire dei lavoratori», l'opinione di Edward H. Carr sul meccanismo del consumo, della produzione e del prezzo. Se però ci si pone «in medias res» ci si rende conto che la soluzione pratica del problema non è cosi semplice come sembrerebbe subordinando il produttore al consumatore. L'economia europea, cosi come è adesso e come risulterà a guerra finita, avrà una sua fisionomia r e a 1 e , data dai complessi produttivi, officine, impianti, maestranze e tecnici, materie prime e prodotti, mezzi di trasporto, ecc., da una p:1rte, e da una grande massa di consumatori impoveriti, dall'ultra. La condizione essenziale per la normale ripresa del meccanismo della produzione e del consumo, nell'interno e fra gli stati, è che sia ristabilita la normalità e la stabilità monetaria. Dato ciò come avvenuto la questione si presenta nei seguenti termini: come avviare la produzione di pace in modo che essa si metta al servizio del fabbisogno della collettività ma nello stesso tempo si riorganizzi razionalmente, liberandosi dalle sovrastrutture di guerra e anche da quelle mantenute in vita per molti anni dall' «autarchia» e dall' «isolazionismo» ? Se l'unica legge della ricostruzione e rio;:ganizzazione economica europea dovesse essere il fabbisogno dei consumatori, la produzione seguirebbe una data direzione: quella di soddisfare la grande richiesta di generi di prima necessità, ma si troverebbe dopo un certo periodo ad una svolta pericolosa, cioè ad una nuova crisi. Gli impianti rimessi in piedi o costruiti ex novo solo per accontentare i bisogni provvisori e indistinti di milioni di consumatori rischierebbero di diventare parzialmente improduttivi. Da ciò appare come per «fabbisogno della collettività» debba intendersi il fabbisogno presente e futuro, secondo una previsione se non razionale almeno non del tutto empirica. Se ciò è vero, come sembra, soltanto un piano, o diversi piani economici possono far si che il produttore sia subordinato al consumatore senza conere il rischio di costruire impianti che diventino improduttivi col cessare o col diminuire della richiesta e, d'altra parte, che questa sia disciplinata in modo da dar luogo ad una produzione razionale e non soggetta a crisi periodiche. Soltanto a tali condizioni la «democrazia dei consumatori» può evitare di dare origine agli stessi inconvenienti giustamente imputati dal Carr alla «dittatura dei produttori». Ma i piani economici, si osserva da taluni, contraddicono al concetto della democrazia dei consumatori in quanto possono servirsi del «prezzo» come di un facile mezzo per orientare il consumo secondo le esigenze della produzione, tornando cosi al punto di partenza. «Il prezzo, osserva ancora il Carr, dovrà cessare di essere il fattore dominante e potrà allora in certe determinate circostanze diventare un utile servitore, una volta rinunciato a far da padrone.» Senonché. il prezzo è molto più l'arma dei produttori che non la difesa dei consumatori, i quali hanno invece quella, piuttosto debole e limitata ai consumi non di prima necessità, di diminuire la domanda. Perché il prezzo possa divenire un utile servitore dei consumatori occorre che questi possano contribuire a determinarlo con mezzi efficaci. Ma poiché i consumatori sono t u t ti , cioè la collettività, chi può determinare il prezzo se non lo stato che appunto rappresenta la collettività? Se dunque ci si met.te nel mezzo delle cose e se si traduce in dati reali la teoria, si arriva alla conclusione che la democrazia dei consumatori potrebbe essere attuata soltanto dallo stato secondo uno o più piani economici. Tale conclusione può sembrare assurda e invece non lo è. L'economia pianificata è infatti la sola che renda possibile la democrazia dei consumatori mediante l'equilibrio fra la domanda e l'offerta senza ritornare al liberismo economico con tutte le sue conseguenze. Il problema si riduce cosi alla determinazione del prezzo, agli organi che dovranno determinarlo, ai criteri da adottare per disciplinarlo. Se il prezzo g i u s t o , idealmente, è quello che soddisfi al massimo i bisogni e i desideri dei consumatori secondo le loro possibilità e nello stesso tempo favorisca lo sviluppo della produzione in modo razionale, cioè senza crisi ricorre ti, l s à.e t e m · n~ · n e n: RJ.lQ clie e ser a a all'. co ro Belle vo on à; dei consumatori e dei produttori. Tali volontà possono incontrarsi soltanto sul terreno della democrazia politica dove gli interessi di ognuno e di tutti possono e devono avere il loro libero gioco. Perciò g 1i organi adatti a determinare il prezzo saranno soltanto quelli emananti democraticamente dai due interessi concorrenti. Le soluzioni diventano più complesse quando si cerchi di fissare concretamente i cri te r i da adottare per la determinazione del prezzo. E' noto che a parità di tipo e di qualità, i costi di produzione variano notevolmente fra lo stabilimento (o impianto, o officina) meglio collocato e attrezzato, e quello peggio attrezzato e collocato. Se il primo può produrre, ad esempio, ad un costo medio, per unità, di 75, l'ultimo potrà produrre soltanto ad un costo medio, ad esempio, di 125. L'interesse astratto del consumatore sarebbe che il prodotto venisse posto in vendita a 75, più un modesto utile industriale. Se tale però fosse il prezzo tutte le aziende i cui costi di produzione fossero superiori a 75 lavorerebbero in perdita, il che non può essere in nessuna economia a regime monetario, anche socializzata. L'interesse astratto dei produttori sarebbe che il prezzo fosse fissato a 125 più il margine industriale, ma anche ciò non può essere perché la vendita (e quindi il profitto in regime capitalistico) diminuirebbe per tutti, pur essendo l'utile, per unità, il massimo possibile. Poiché la differenziazione dei costi è venuta accentuandosi dal principio del secolo ad oggi, quasi tutti gli stati sono intervenuti nella attività economica privata regolandola in modo che il prezzo; esclusi i casi di quasi-monopolio, si stabilisse ad un livello medio e tale da assicurare il profitto alla maggioranza dei produttori. Per la minoranza, i cui costi di produzione superavano il livello medio corrente, gli stati hanno provveduto mediante il protezionismo. Questa è una, non la sola, delle varie forme di protezionismo adottate. Volendo abbandonare il sistema protezionistico senza porre immediatamente in disavanzo buona parte della produzione ( ciò vale anche in regime di socializzazioni) il solo mezzo utile è il prezzo e la sua fissazione ad un livello medio. Tale livello (che naturalmente non sarà né permanente né uniforme per tutti i generi di prodotti) può essere determinato soltanto in base a considerazioni p o 1 i ti c h e oltre che economiche. Infatti dalla media dei prezzi dipende lo standard di vita della generalità (i numeri indici del costo medio della vita, se sinceri, permettono calcoli se non esatti almeno approssimativi) come si può accelerare o ritardare il ritmo della produzione aumentando o diminuendo l'utile industriale. Aumentare il tenore di vita significa distrarre l'economia dalla produzione di beni di non immediato consumo (ad es. grandi opere pubbliche, ricostruzioni, ecc.), mentre il serbare in vita, con gli alti prezzi, gli strumenti di produzione scarsamente produttivi significa abbassare il tenore di vita generale. Fra i due * Il prezzo non è però il solo «fattore dominante» dell'economia: il salario ne è un fatlore altrettanto «dominante». L'alto salario può dominare l'alto prezzo come il basso prezzo può sempre essere eccessivo in regime di bassi salari. Cosi pure il costo di produzione scema in regime di bassi salari e la percentuale di produttori deficitari diminuisce, cosicché lo stato riesce a trasferire sui salariati parte dell'onere derivante dal protezionismo. D'altra parte i salari aumentano il costo di produzione anche nelle aziende meglio attrezzate e collocate, con la conseguenza di aumentare il prezzo medio. Questo perciò non ha mai un senso né un valore assoluto, ma soltanto re I a ti v o, cioè in rapporto al salario medio. Se l'economia intende escludere, come superato, il libero gioco della domanda e dell'offerta àei prodotti, cosi deve abolire la determinazione del salario mediante il libero gioco della domanda e dell'offerta di lavoro. Perciò anche il livello medio dei salari (che, come per il livello medio dei prezzi, non potrà essere né permanente né uniforme per ogni genere di lavoro) dovrà essere determinato in base a criteri e c o n o mi c o - p o 1 i ti ci , nello stesso modo come per i prezzi. Soltanto cosi la «democrazia dei consumatori» può cessare di essere un'aspirazione per diventare una stabile realtà. Tecnicamente, anche in una economia socializzata, la differenziazione degli stadi evolutivi degli strumenti di produzione ( officine, stabilimenti, impianti, ecc.) richiede una differenziazione nella cifra-salario per ogni azienda o tipo di aziende. Il mezzo più adatto per far si che la cifra-salario non annulli, se troppo alta, i benefici derivanti dai minori costi di produzione o non abbassi, se troppo ridotta, il tenore di vita dei lavoratori, è il sistema del fondo - sa 1 ari da determinarsi secondo criteri che tengano conto non solo degli interessi dei lavoratori-consumatori, ma anche di quelli dei lavoratori-produttori: in altri termini in base a criteri convenienti all'intera collettività, cioè politici. Ma il discorso sul meccanismo del fondo-salari ci porterebbe ad una esposizione particolareggiata ed estranea al nostro scopo, che è solo quello di precisare come l'unico modo per stabilire una effettiva «democrazia dei consumatori» è quello di regolare ed equilibrare il consumo e la produzione, mediante il prezzo e il salario, secondo piani economici studiati e attuati in base a criteri economico-politici, cioè nell'interesse della collettività complessiva, dagli organi di una effettiva democrazia dei lavoratori. D. G. Che co~a e CODle ~ocializzare? La socializzazione è un mezzo, non un fine. I socialisti vogliono socializzare certe imprese, non per la socializzazione in sé, ma perché credono che quelle imprese, diventate proprietà sociale, saranno utili o almeno non nocive alla comunità. Di per sé, staccata da ogni considerazione di spazio e di tempo, la socializzazione può anche essere cosa non buona; in un determinato momento, in un certo ambiente, in una certa misura, la socializzazione può anche essere soltanto un semplice espediente. Le ragioni più importanti per le quali i socialisti, sia in Gran Bretagna che in tutti gli altri paesi europei intensamente industrializzati, vogliono socializzare certi settori della produzione, sono due. Storicamente parlando, la prima di queste ragioni sarebbe la seguente: quando la produzione è al servizio dell'interesse privato, inevitabilmente c'è sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Le ingenti fortune che i ricchi riescono ad accumulare, sono dovute alle sudate fatiche dei lavoratori. Questo genere di sfruttamento non ha cessato di esistere in Gran Bretagna, benché il capitalismo inglese espandendosi lo abbia in gran parte trasferito nella sua forma più grossolana alle popolazioni dei territori coloniali. Dal punto di vista psicologico questo primo motivo per il quale la socializzazione fu ritenuta sempre necessaria, ha perduto una parte della sua urgenza, pur mantenendo la sua giustificazione logica. motivo è maggiormente valido. Il i mostra sempre più incapace ad assolvere il suo compito storico di liberare le forze di produzione e consacra sempre meno le sue energie ad accrescere la produzione delle merci e dei servizi, cercando anzi di limitare questa produzione per paura di inondare il mercato. Dall'ultima guerra mondiale in poi, l'industria è stata diretta da gruppi monopolistici i quali hanno inteso il problema della produzione in senso negativo. Ristretta la produzione, distribuiti i mercati fra di loro, distrutte ovunque fosse possibile le fabbriche e i cantieri «superflui», essi hanno creduto non solo di potersi salvare, ma anche di potersi consolidare. Questa tendenza restrizionista e monopolistica non caratterizza tuttavia tutti i rami dell'attuale sistema economico. I capitalisti monopolisti non controllano direttamente tutti i settori dell'industria; normalmente essi si impadroniscono di parecchie materie e meccanismi, con il controllo dei quali riescono ad influenzare l'intero processo economico. - La leva di controllo può essere determinata, secondo i casi, dall'estrazione o dal raffinamento di una materia prima essenziale, oppure dalla trasformazione della materia prima in prodotto intermedio semi-fabbricato. Talvolta è la tappa finale della fabbricazione, quando gli impianti dell'industria sono cosi costosi e la scala minima della produzione è cosi vasta che il numero di aziende è per forza ristretto e una loro cooperazione è più facile ad attuare. Il controllo monopolistico viene quasi sempre assicurato in Inghilterra indipendentemente Zurigo, 1 Maggio 1944 dalla legge, la quale semplicemente si astiene dall'immischiarsi nell'economia; ma accade pure che i monopolisti invochino addirittura l'aiuto della legge e persuadano il governo a creare leggi a loro favore, ad appoggiarli nel commercio internazionale, ad aiutarli con il contingentamento e le manipolazioni delle tariffe. - In un modo o nell'altro, il capitalismo monopolistico ha raggiunto in grande misura il controllo sulle industrie essenziali della Gran Bretagna e degli altri paesi occidentali e ha impresso la sua impronta essenzialmente restrizionista all'intero sistema economico. Questo controllo è stato raggiunto non con l'estendere il monopolio a tutte le industrie - simile generalizzazione sarebbe stata a svantaggio dei monopolisti - ma con l'occupare in esse un ristretto numero di posizioni-chiave. Possiamo quindi azzardare l'opinione che, per abolire le influenze restrizioniste del capitalismo monopolistico, non è necessario socializzare tutte le industrie, ma soltanto quelle parti di esse nelle quali il monopolio ha già preso radice, o potrebbe prenderne delle nuove se venisse scacciato dalle sue attuali roccaforti. Per socializzare le altre industrie e attività produttive non soggette a questa particolare condizione, potrebbero esserci delle buone ragioni; ma, se vogliamo procedere razionalmente, dovranno essere sempre della ragioni speciali per socializzare la tale industria o il tale servizio, e non per intraprendere la socializzazione indiscriminata di tutte le industrie e di tutti i servizi. Alcuni socialisti sono dell'opinione che il capitalismo in tutte le sue forme debba essere spazzato via in blocco, cosa questa che si può benissimo ammettere in certe circostanze. Non è da escludere che prima della fine dei subbugli attuali il sistema capitalista crolli nella Gran Bretagna e in altri paesi, cessando di fornire quel minimo essenziale di merci necessarie all'esistenza del popolo. Se ciò dovesse accadere, la sola possibilità di ripiego sarebbe questa: lo stato, qualunque specie di stato e di governo, si impadronirà come potrà della situazione, preoccupandosi soprattutto di far funzionare nuovamente l'industria. In simili circostanze, non si possono naturalmente porre limiti alle misure di socializzazione rese assolutamente necessarie. Questa fu nei suoi aspetti essenziali la situazione dei russi l'indomani della rivoluzione sovietica, situazione che li condusse al «comunismo di guerra» nei primi anni del loro regime. Se noi dovessimo affrontare in Gran Breta_gnaun simile problema, lo dovremmo risolvere pressapoco nello stesso modo, volenti o nolenti; oppure, cercando un'altra soluzione, troveremmo quella di lasciar morire di farne il popolo. Ma per il momento non vogliamo occuparci di situazioni ipotetiche, e vogliamo invece considerare quale politica dovrebbero addottare i socialisti inglesi di fronte a un sistema capitalistico tutt'ora funzionante, il quale, sia pure in quantità non sufficente, effettua la distribuzione delle merci. Noi non ci rivolgiamo agli innamorati della rivoluzione che credono alla stessa soltanto in quanto è violenta (quelli cioè ai quali non importa la natura e la sostanza della rivoluzione); ci rivolgiamo a coloro i quali si sono resi conto dell'urgenza di un cambiamento radicale del sistema economico britannico e che vorrebbero attuare questo cambiamento con il minimo possibile di violenza e di sofferenze durante il periodo di transizione. Anzitutto diciamo loro che non c'è nessuna necessità immediata che giustifichi il passaggio nelle mani dello stato di tutte le industrie. Organizzare un'industria come entità unificata per servire il pubblico interesse, non è facile cosa. La sua attuazione richiede dei dirigenti di grande capacità; e le capacità organizzative di primo ordine sono rarissime. Il socialista sensato, cosciente della vastità dei compiti che ad ogni modo gli spetteranno, avrà la prudenza di evitare ogni estensione inutile del raggio delle sue responsabilità, e tra le istituzioni esistenti si servirà di quelle che si possono adattare ai suoi fini. Non avrà il desiderio di capovolgere per il divertimento di dover poi ricostruire; poiché egli sarà seriamente e intensamente occupato in opere necessarie di creazione, egli non avrà il tempo per le superflue opere di distruzione. Le imprese meno facili ad integrare in un sistema socializzato, saranno le piccole imprese; le industrie più difficili da socializzare saranno quelle composte da un grandissimo numero di ditte indipendenti. Una grande industria trustificata, consistente in pochi stabilimenti giganti, la quale si trovi già sotto un controllo finanziario unificato, potrà essere socializzata con un semplice cambiamento nella sua direzione centrale, seguito da variazioni secondarie, attuabili quando l'occasione si presenterà. In questo senso le grandi industrie trustificate sono già mature per la socializzazione; la sola difficoltà sarà nel trovare gli uomini più adatti a occuparsi di esse e a dirigerle in uno spirito socialista. (Continuazione pag. 5)

Bit I problemi della lederazione europea tiamo che neppure i piccoli stati (non parliamo delle tre grandi potenze che emergeranno da questa guerra) siano pronti ad accettare la proprietà internazionale del potere. Per quanto ogni rinvio possa riuscire pericoloso dobbiamo rinviare ogni soluzione radicale di tale problema. Nel frattempo esaminiamo fino a che punto, in una Europa integrata e in un mondo ordinato, possiamo procedere per organizzare la nostra vita comune, soprattutto la nostra vita economica, nella direttiva supernazionale. In quanto l'ideale di indipendenza impedisce la cooperazione e disdegna ogni sottomissione al volere del più grande numero, nelle questioni di interesse comune, deve dirsi superato perché un ostacolo ad ogni progresso verso un ordine nuovo. Le ~ovranità • 1· naz1ona 1 Che cosa intende il mondo d'oggi per «indipendenza di stati sovrani»? La domanda ci è avanzata da una amara lettera di un lettore svedese che stampiamo questa settimana. La lettera può sembrare fuori posto in un giornale che ha sempre sostenuto che il diritto all'autogoverno è un diritto vitale per l'esistenza del paese. Ma nelle complesse questioni dei rapporti con l'estero, l'indipendenza non può che essere una espressione relativa. La sovranità dei piccoli popoli è una di quelle romantiche illusioni che per alcuni trasforma la politica di ogni giorno in un sentimentale racconto di fate. Per il nostro lettore svedese l'indipendenza degli stati baltici aveva un comprensibile significato. Ma in una maniera o nell'altra questo enigma riguarda tutti noi. Con le loro armate acquartierate sul suo suolo, il Maresciallo Stalin e Mr. Churchill confermano l'indipendenza della Persia, e l'assicurano di futuri favori economici che dipendono manifestamente dal suo non del tutto volontario aiuto alla nostra causa. Il popolo del Libano è ugualmente sicuro della propria indipendenza, perché le simpatie britanniche hanno reintegrato un ministero che la «Francia combattente», dipendente a sua volta dall'appoggio inglese ed americano, aveva deposto. La Corea, in base alle· decisioni della conferenza del Cairo, riceverà pure dal destino, alla fine della guerra, questo dono agognato. Che cosa significa tutto ciò? In che senso la Lituania, l'Austria, la Persia, .il Libano e la Corea si potranno dire indipendenti? Il fatto nudo e crudo, decisivo nel mondo attuale, è che la guerra meccanizzata e soprattutto la guerra aerea, richiede tali enormi -risorse economiche che un piccolo stato non può avere nessuna speranza di difendersi con qualche probabilità di successo; inoltre, la potenza militare di uno stato povero ed arretrato come la Lituania è talmente trascurabile che una grande potenza non si dà neppure tanto da fare, per tirarselo dietro come cliente o come satellite. E' passato il giorno in cui gli olandesi potevano aver fiducia nelle loro dighe e un Hofer poteva sfidare Napoleone nel Tirolo. I danesi combatterono coraggiosamente contro Bismarck, ma non poterono resistere ad Hitler. Ne 1 p e - riodo tra queste due invasioni della Danimarca l'indipendenza sovrana dei piccoli stati è svanita. Essa ebbe ancora una certa realtà, forse un'ombra di realtà, durante il secolo scorso. L'alta politica era allora l'esclusivo attributo delle grandi potenze che formavano il concerto europeo. Prevaleva in quel periodo - periodo che in confronto del nostro fu assai umano e di buone maniere - la convinzione che i piccoli stati non dovessero immischiarsi nei grandi affari; in cambio la loro neutralità veniva rispettata. Nessuna grande potenza poteva costringerli a diventare loro satelliti, né le grandi potenze potevano intervenire nelle loro questioni interne. Fu il periodo del «laisser faire» in economia, e l'idea parallela della neutralità non costituiva un'eccezione nella politica europea. Con gran fragore questa epoca finì con l'invasione tedesca del Belgio nel 1914. Gli alleati allora, nel loro comportamento verso la Grecia e la Persia e negli sviluppi dati dal blocco, concepirono i diritti dei neutrali secondo quello che a loro conveniva. Cosa fu che mise fine all'epoca vittoriana con i suoi ideali di indipendenza nazionale? In parte lo sviluppo delle comunicazioni e l'annullamento delle distanze. In parte la sviluppo della produzione di massa e la concentrazione dell'industria in pochi giganteschi trust e cartelli. Cosa ciò significasse fu reso evidente quando i tedeschi adottarono la M i t t e 1e u r o p a come obiettivo principale nell'ultima guerra. L'industria meccanizzata, la richiesta di maggiori e più sicuri mercati, faceva saltare i vecchi limiti delle frontiere nazionali. La stessa cosa avveniva anche con un'altra tecnica: la penetrazione di capitali stranieri nell'industria. Questo processo continuò in maniera sempre più rapida in Europa dopo l'ultima guerra. La maggior parte di noi imparò durante la grande crisi economica, se non l'aveva imparato già prima, che l'economia teneva poco conto delle frontiere. Un panico fece crollare i prezzi a Wall Street e alterò in pochi mesi il valore di tutta la moneta, nelle tasche di ogni contadino e di ogni operaio, in tutto il mondo, dal Reno al Gange, in modo tale che nelle sue conseguenze la modificazione avvenuta può considerarsi equivalente ad una mezza dozzina di rivoluzioni. Nel frattempo in un centro dopo l'altro, venivano sperimentate nuove tecniche di penetrazione politica. Alla vigilia dell'ultima guerra, Izvolsky, durante il memorabile periodo in cui fu ambasciatore della Russia a Parigi, si vantava, in un dispaccio segreto, che più tardi i bolscevichi pubblicarono, di aver sussidiato ogni quotidiano francese, salvo l'organo di Jaurès, L' H umani t é. Fino a che punto dunque la pubblica opinione poteva dirsi espressione di una ra ciarf1di endente? ~ cose a,gche ~iù gravi fu:uono cope te nei c1~0~ ginoli di Mosca. Ma furono poi i nazisti quelli che perfezionarono questa arte di penetrazione politica con i risultati che ben presto abbiamo dovuto affrontare da Madrid a Bucarest. La seconda guerra mondiale portò a Londra una me~za dozzina di governi sovrani che vogliamo sperare abbiano dedicato gli anni di esilio in proficue meditazioni sul significato e sul valore dell'indipendenza nell'epoca degli Stukas e delle tanks. E' ormai da molti anni un luogo comune per i pensatori politici della sinistra l'affermazione che dobbiamo tutti prepararci a fare qualche sacrificio della nostra sovranità. La formula è errata solo in quanto assume che la sovranità fosse per la maggior parte degli stati europei una realtà che essi devono sacrificare con nobile spirito d'altruismo. Per la maggior parte di loro, anche se in gradi diversi, era solo una pericolosa e gravosa illusione. In realtà essi non erano liberi di scegliere quale politica adottare, il che rappresenta per noi il significato dell'indipendenza. La neutralità è divenuta un impossibile lusso e la loro scelta, soggetta alle limitazioni geografiche, non può essere altro che una scelta fra questa o quella grande potenza, da tenere come protettrice. La Svezia può sembrare una eccezione, ma per quanto tempo avrebbe conservato la sua libertà se avesse rifiutato di rifornire la macchina di guerra nazista con il suo eccellente minerale di ferro? Quel mulino macina fino e da ognuno prende quel che ha bisogno: da alcuni piccoli stati la carne da cannone e da altri stati le materie prime per fabbricare i cannoni. Per due volte abbiamo già avuto la nostra lezione. Prima che un'altra ripetizione ci annienti, dobbiamo tutti ben mettere in chiaro che cosa è per noi che ha veramente valore in questo irrealizzabile ideale di indipendenza, in questa sospirata concezione di sovranità. E prima di tutto dobbiamo domandarci se è proprio lo stato nazionale con le sue frontiere tracciate dalla storia e dalla geografia, l'unità più appropriata per le nostre attività moderne? E', per esempio, cosa assurda immaginare che gli stati nazionali possano ciascuno per suo conto, stabilire un controllo sullo spazio aereo, tanto se si pensa ai bisogni dei trasporti civili quanto se si pensa a quelli della difesa militare. Solo un po' meno assurdo è pensare che le principali ferrovie del continente europeo possano essere gestite nel modo migliore da una qualche decina di autorità indipendenti e spesso ostili fra loro. Ed è forse ragionevole che un fiume quale il Danubio, che potrebbe essere la sorgente di energia elettrica per sei stati rivieraschi e potrebbe essere utilizzato in modo da aumentare immensamente il loro basso livello di vita, non sia sottomesso ad alcuna autorità collettiva, salvo, in un certo grado, per quanto riguarda la navigazione? La geologia distribuì i migliori depositi di ferro e di carbone attraverso le frontiere politiche che la storia ha tracciato. Ciò si deve riconoscere per la Ruhr, per la Saar, per il Lussemburgo, per la Lorena e per il Belgio. Ed è vero anche per l'area intorno alla Slesia superiore ed il Teschen che divide polacchi, cechi e tedeschi. In questi due casi si dimostra che le frontiere si oppongono ad una efficiente organizzazione industriale e creano un problema insolubile per la sicurezza ed il controllo degli armamenti. Inoltre in tali casi la sovranità impedisce la creazione di un consorzio internazionale per gestire le pericolose industrie pesanti. E potremmo continuare: dalla creazione di una banca internazionale per controllare tutte le nostre monete, alla questione se possa essere escogitato un organismo internazionale per collegare gli arretrati stati agricoli dell'Europa con gli stati industriali più progrediti, in maniera di proteggere e sviluppare i primi ed assicurare la occupazione completa della mano d'opera nei secondi. Sono problemi questi che non possono essere risolti, e neppure si può tentare di risolvere, se noi tutti cittadini dei grandi o dei piccoli stati non siamo disposti a sottometterci in ognuna di queste sfere d'azione ad una qualche rappresentativa autorità supernazionale. La stato che si rifiuta non resta fedele ad un nobile ideale di indipendenza: si comporta in modo reazionario, anti-sociale, con conseguenze che, col passare del tempo, potranno riuscire fatali a lui come ai suoi-vicini. In tutti questi casi (e ne potremmo ricordare molti altri) lo stato nazionale non è l'appropriata unità per la pianificazione e l'organizzazione. Qual'è allora la funzione dello stato nazionale? E' certamente quella di prender cura e di dare sviluppo all'eredità consacrata nel suo linguaggio e nelle sue tradizioni culturali, l'intero campo dell'educazione, nel più ampio senso della parola. A questo proposito è bene ricordare che i servizi resi alla civiltà da alcuni dei piccoli stati hanno meritato la nostra imperitura gratitudine. Questo si deve dire pec ·almente per l'Austria e per gli stati scanin~ I oltre va attribuito agli stati nazionali l'intero campo dell'amministrazione e della legislazione rivolta alla giustizia, alla polizia e ai servizi sociali, e i regolamenti per l'industria e l'agricoltura. In questi casi una vigilante e coerente opinione pubblica è della massima importanza, e per manifestarsi ed agire con maggiore facilità occorre un'area con un unico linguaggio. Ma quando poniamo la domanda ultima, che va alla radice dell'intera nozione di sovranità: «Dobbiamo o no conservare la proprietà del potere militare?» - la nostra risposta è per una categorica, se pur sconcertante, negazione. Noi pensiamo che la pace sarà sempre pr~caria, noi pensiamo che il mantenimento dell'ordine mondiale sarà sempre enormemente difficile, se non impossibile, fino a che gli stati nazionali, grandi o piccoli, vorranno conservare della forze armate per loro conto, in una misura che eccede quel che sarebbe necessario per il mantenimento dell'ordine interno. In poche parole affermiamo che il solo modo di conciÌiare l'autonomia con la cooperazione è di avviarsi verso la federazione. Pure noi dubiQuel che veramente è di incalcolabile valore è il rifiuto di sottomettersi alla volontà di una singola potenza. Ma la libertà da ogni arbitraria coercizione potrà essere assicurata solo quando impareremo a stare insieme sotto una disciplina democratica. Invece di asserire la nostra indipendenza, come grandi potenze o come piccoli stati, quel che dobbiamo fare, se vogliamo sopravvivere, è di organizzare la nostra reciproca dipendenza. (The New Statesman and Nation, 18. dic.1943) La politica e§tera italiana (A. proposito di alcune didiiarazioni del conte Sforza) Il «N e w Y o r k Ti m es» ha pubblicata la seguente corrispondenza da Napoli, in data 3 marzo u. s.: «In una intervista concessa al giornalista Sulzberger il conte Sforza si è dichiarato favorevole alla restituzione delle isole del Dodecaneso alla Grecia - che dovrebbe avvenire in seguito· ad un plebiscito - ed alla creazione di una zona internazionale a Fiume, comprendendo il territorio intorno alla città, quale residenza di una nuova Lega delle Nazioni. Le idee del conte Sforza offrirebbero delle possibilità per la risoluzione di alcuni problemi relativi alla pace futura del Mediterraneo e presentano il punto di vista italiano su altre questioni. Si deve, però, mettere in rilievo che il conte Sforza non, è certo, per ora, in una posizione che gli permetta di tradurre in pratica le sue idee. Parlando delle isole del Dodecaneso, il conte Sforza ha detto: «Quale espiazione per i delitti del fascismo contro la Grecia, e come nuova prova della fedeltà dell'Italia al principio di nazionalità, noi saremo ben contenti come italiani di favorire la restituzione del Dodecaneso alla Grecia, se gli abitanti lo desidereranno. Io mi farei sostenitore del plebiscito che dimostrerebbe certamente il desiderio della immensa maggioranza degli abitanti di tornare alla Grecia.» Riguardo a quelle che prima erano le colonie africane dell'Italia il conte Sforza ha dichiarato: «Io non credo nell'avvenire delle colonie. In tutti i modi non sarebbe però cosa saggia togliere all'Italia democratica le colonie che aveva prima del fascismo. E' di enorme importanza evitare la creazione di nuovi miti sull'ingiustizia e sulla violenza. Il conte Sforza ha aggiunto che riteneva che si sarebbe dovuto consentire all'Italia di conservare tutta la Libia, ma che avrebbe voluto garantire l'autonomia per i Senussi, come aveva fatto nel 1919, quando aveva assicurato tale autonomia, salvo la esposizione della bandiera italiana nelle feste del venerdi. Analogamente egli ha richiesto che l'Italia conservi la Somalia e l'Eritrea che ha chiamato «le colonie gemelle dell'Africa». Dopo avere definita l'invasione dell'Etiopia «il delitto del fascismo e delle nazioni che l'hanno consentita» ha asserito che l'indipendenza del paese era una «compensazione necessaria». Nel Levante, secondo il conte Sforza, l'Italia ha dei fortissimi interessi morali ed economici, ma non degli interessi territoriali. Riguardo all'Albania ha detto: «Questo paese è contornato dal mondo slavo, e fatalmente si appoggia all'Italia come ad una sorella maggiore. C'è una sola maniera per affermare la egemonia e l'influenza italiana in Albania, e cioè assicurare per sempre la indipendenza dell'Albania». Il conte Sforza si è scagliato quindi contro i motivi dinastici che spingono la famiglia monarchica italiana a suscitare il problema montenegrino. Il Montenegro - ha detto - è una regione essenzialmente serba, che fà parte della comunità slava. «E' assurdo pensare al Montenegro come ad un paese che voglia fare da sé.» In Dalmazia - ha osservato - «l'immensa maggioranza è slava quantunque l'elemento italiano predomini in alcuna delle sue belle e storiche città. E' desiderabile una resurrezione della Jugoslavia ed una reale, durevole amicizia che renda impossibile la concezione di una qualsiasi politica di persecuzione degli jugoslavi contro l'elemento italiano». Il conte ha detto che la maggioranza della popolazione di Zara è italiana, ma si tratta di un problema minore, e un compromesso potrebbe soddisfare entrambe le parti. Per il complicato problema delle pretese slave sulle regioni di Fiume e di Trieste il conte ha presentato una soluzione nuova: «Fiume e le regioni slovene appartenenti all'Italia non possono essere considerate frontiere perfette come quelle che esistono fra l'Italia e la Francia. E' d'altronde cosa assurda pensare, con una gretta mentalità nazionalistica, a frontiere che mutano ogni venticinque anni». Dopo avere dichiarato che Fiume era un porto molto bene attrezzato, che la nuova Lega delleNazioni dovrà essere assai più ;:iotente e meglio organizzata di quel che era a Ginevra, e dopo avere affermato che la Svizzera ha scoperto che «la neutralità vale più degli strumenti internazionali», il conte Sforza ha suggerito che Fiume con il territorio contiguo venga offerta quale sede di una nuova «Super-Lega». In questa corrispondenza il pensiero del Conte Sforza risulta così frammentario e mutilato che non è possibile assumerla come base per un giudizio serio sull'indirizzo ch'egli vorrebbe dare alla nostra politica estera. Possiamo però dire che, cosi quale la leggiamo, l'intervista non può certo soddisfare gli italiani che attendono che la loro politica estera venga audacemente impostata su una ampia visione delle più profonde esigenze della nostra epoca, nell'interesse di tutta quanta l'umanità. Per noi che facciamo prevalere sulle considerazioni nazionalistiche quelle ideali di carattere universale, il problema vero, il problema centrale dell'ora presente non è quello dei confini territoriali con i quali il nostro stato uscirà dalla guerra, ma quello del trionfo di alcuni grandi principi sui quali soltanto riteniamo sia possibile la ricostruzione della vita civile nel mondo. A questi princivi - che hanno per noi un valore per sé stessi e non come strumenti di difesa degli interessi nazionali, dobbiamo richiamarci tutte le volte che consid,eriamo i nostri particolari problemi nazionali, e questi principi noi per primi dobbiamo in ogni occasione propugnare, per raccogliere tutte le forze progressiste europee attorno a un programma che possa veramente consentire la loro pratica collaborazione nel più ampio concerto formato da tutti i vopoli della terra. Completamente errato sarebbe JJresentarsi come curatori dell'azienda fallimentare fascista, preoccupati solo di salvare il salvabile dello stato italiano. Non potremmo che rimanere impigliati in meschine questioni territoriali, in cui la nostra vosizione sarebbe debolissima, e la nostra voce non potrebbe avere alcuna risonanza. Tutta la nostra politica estera deve invece essere inipostata sul deciso sitperamento del princivio delle sovranità nazionali, tendendo a una organizzazione unitaria federale, in cui gli innumerevoli intricati problemi territoriali degli stati del nostro continente diventino questioni di dettaglio, di secondaria importanza. E per far questo dobbiamo vresentarci nella nostra qualità di oppositori della prima ora al fascismo, rivendicando il nostro diritto, non di italiani, ma di uomini liberi, di essere ascoltati da tutti coloro che hanno cari i valori essenziali della civiltà occidentale, perché per ptimi abbiamo lottato contro lei tirannide totalitaria, 11erprimi abbiamo messo in guardia i democratici degli altri paesi contro il pericolo del consolidamento di una tale tirannide con l'aiuto che ad essa veniva dai loro governi. In tale

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