L'Avvenire dei Lavoratori - anno XXXV - n. 1/2 - 1 febbraio 1944

Anno XXXV (nuova serie) N. 1 • 2 (doppio) Zurigo, 1 Febbraio 1944 LIBERARE E FEDERARE! QUINDICINALE S □ CIAL.ISTA Redazione e Ammin i strazi one: CasellapostaleNo.213, Zurigo6; ContopostaleNo.VIII ~?6305 Abbonamenti: 24 numeri Fr. 6.-, 12 numeri Fr. 3.-, una copia Cent.30 Ad occhi aperti Fin dalle prime parole noi dobbiamo avvertire i lettori che questo foglio, nella sua nuova serie, trascurerà i compiti abituali dei giornali socialisti, i compiti tradizionali dell'agitazione, della propaganda, della divulgazione e della «amena cultura» e si consacrerà invece all'esame sistematico dei problemi politici fondamentali del socialismo europeo nella situazione presente e in quella che risulterà dalla cessazione della guerra in corso. «Socializzazione» fascista A nostro parere questa è ora una necessità molto urgente, in special modo per i socialisti, sui quali ricadrà la maggiore responsabilità nel determinare il futuro assetto dell'Europa. Per la seconda volta, nel breve giro di venticinque anni, la storia sta per offrire ai socialisti la possibiltà materiale di assumere la direzione della società europea. Per la seconda volta, nella vita della stessa generazione, spetterà ai socialisti (come dirigenti del movimeno operaio dei maggiori paesi europei) la responsabilità di affrontare i problemi essenziali di con- · 1 vivenza e ai civilità dai quah dipende il progresso o la definitiva decadenza del nostro vecchio continente. Sarà, la situazione nella quale la fine della guerra riporrà il socialismo europeo, in un certo senso un esame di riparazione per la grave bocciatura del 1919; sarà un'improvvisa possibilità di ripetere la prova quella volta, specialmente in Germania e in Italia, così miseramente fallita, e dal cui fallimento nacque, con l'inesorabilità del rapporto tra la causa e l'effetto, il surrogato fascista. Ora, riflettete a questo: che proporzione c'è tra questa prospettiva storica, tra questa responsabilità terribile che incombe di nuovo sul socialismo europeo e la sua effettiva preparazione? Estendete la riflessione agli altri partiti cosidetti d'avanguardia e a tutto l'antifascismo e avrete la stessa risposta. Riflettete alla quantità di esperienza politica s u b i t a dagli uomini negli ultimi venticinque anni e confrontatela con gli insegnamenti che ne sono stati ricavati. Veramente c'è poco da stare allegri. Veramente forse c'è ora un solo motivo di guardare con apprensione l'avvenire ed esso non è la forza del fascismo o dei conservatori, bensi la debolezza intellettuale e spirituale dell'antifascismo. (Questo vale per l'antifascismo tedesco ancora più che per quello di altri paesi, e ciò, mi sembra, è tutto dire.) Eppure, non bisogna troppo facilmente meravigliarsi e invocare le dure esperienze, e «dov'è andata a finire la storia maestra della vita» ? I rapporti tra l'esperienza e la coscienza sono molto più complicati. Se si constata, ad esempio, quello che è accaduto all'antifascismo italiano (qual'è riapparso alla luce del sole nell'estate scorsa) si può azzardare questa ipotesi: per sopportare le atroci sofferenze imposte dal fascismo, molte delle sue vittime dovettero forse rinunziare a pensare; ed infatti, appena crollato il fascismo, scioltesi nuovamente le lingue degli oppositori, la maggior parte di essi ripresero a parlare il linguaggio del prefascismo, il linguaggio del 1919, come se nel frattempo non fosse accaduto proprio nulla in Italia e in Europa. Questo anacronismo curioso, nell'estate scorsa, si è potuto verificare non solo negli scritti e nei discorsi dei residui giolittiani riportati a galla da Badoglio, ma perfino in militanti del movimento operaio che contro il fascismo si erano battuti eroicamente. Giolitti for ever ! Si resta perplessi nel giudicare il significato e ia portata delle recenti clamorose misure economiche annunziate dal governo repubblicano fascista e gabellate, all'indomani degli imponenti scioperi di Milano e Torino, come «socializzazione» della grande industria capitalistica. Il pubblico si domanda quale importanza esse possano mai avere, quando la crisi politica si sviluppa con una tale ampiezza da essere in procinto di tutto travolgere. L'esasperata tensione di spirito nella quale ci tiene la lotta fa che non abbiamo occhio che per la soluzione d'insieme che pare esser già segnata. E cosi siamo facilmente portati a trascurare le condizioni materiali ineliminabili che le si propongono fin da oggi, in funzione di fatti che incidono magari molto nel profondo. La verità è però che la soluzione di domani non potrà mai slacciarsi dai suoi precedenti, che sono costituiti da,,.1 ~ eventi odierni, quali che essi sieno. Per arbii:rari e fittizi che possano parere, dunque essi meritano esame. Le cose del resto non volgono mai a mutazione senza una ragione, ce lo hanno insegnato i filosofi da un pezzo. La mossa che oggi compie il morente fascismo italiano ha un cosi evidente carattere d'improvvisazione, da farla considerare possibile solo nella convulsione in cui è caduto il sistema produttivo italiano. La presa di possesso delle maggiori aziende da parte dello Stato di certo non è destinab ad effettuarsi con quella portata e carattere generale che i decreti prospettano; essa non mancherà di trovare gli opportuni temperamenti nell'applicazione e studiati intoppi ad ogni passo. Eppure sarebbe errore considerare tutto ciò come mero espediente di circostanza per spezzare le velleità di resistenza degli industriali, le quali in certa misura effettivamente e spiegabilIl fenomeno forse si spiega così: quando il dolore imposto all'uomo è eccessivo e le condizioni in cui esso deve vivere sono inumane, l'istinto di conservazione provoca un ripiegamento su sé stesso di tutto l'essere; per resistere, si serrano le mascelle, si chiudono gli occhi, si cessa di udire, e la stessa coscienza, per non impazzire, s'inverte su sé stessa e si rifugia nei cari ricordi del passato o si concentra in immagini ottimiste del!' avvenire, pur di difendersi dall'odioso e mostruoso presente. Noi dobbiamo essere grati a questa pietosa legge di natura che ci difende e ci salva dalle prove più terribili. Ma per affrontare i compiti dell'ora presente e quelli più gravi del futuro imminente; per risolvere i problemi concreti e precisi dell'economia e della socialità; per allontanare dallo orizzonte la minaccia di una terza guerra mondiale tra quindici o venti anni; per non cadere da una forma di dittatura fascista in un'altra forma di dittatura fascista camuffata d'altro nome e d'altri simboli; in una parola, per non essere più oggetti passivi di ciechi determinismi, ma artefici responsabili del nostro avvenire; per non più sub i re gli avvenimenti, ma per c re a r li , noi dobbiamo far appello a tutte le forze della coscienza. Dobbiamo guardare il presente ad occhi aperti. Dobbiamo mettere da parte gli imparaticci della lontana adolescenza e sforzarci di riflettere, di pensare, di capire, di renderci conto della realtà attuale. Solo da una concentrazione estrema di tutte le forze dello spirito, sorretto da un amore BibliotecaGino Bianco mente esistono; vedervi un provvedimento puramente e semplicemente volto a porre sotto il controllo diretto dell'amministrazione tedesca la produzione che abbia un più o meno diretto interesse bellico. Si osservi infatti che, se pure sta in vista un tale risultato, esso si potrebbe più facilmente conseguire con mezzi più mode1 ati di intervento. Invece è una tendenza già i:isita in tutta l'opera economica del fascismo, che porta a dare una tale ampiezza all'esperienza che si tenta; il sensazionale sovvertimento, operato in extremis quasi a titolo dimostrativo è propriamente il punto d'arrivo l0gico di una evoluzione per lungo tratto già operatasi. La politica fascista, attuata attraverso il ::<istemacorporativo, la sovrintendenza statale :il commercio estero, il monopolio valutario, la --reazione di enti parastatali di produzione e inanziamento, e mezzi meno appariscenti ma nÒn meno efficaci, come le «assegnazioni» di materiale, i «contigenti» di produzione e l'autorizzazione obbligatoria per i nuovi impianti e l'installazione di macchinario, è stata tutta diretta a porre nelle mani dei grandi feudatari della finanza le risorse industriali del paese. Il grande capitale monopolistico può conseguire il suo profitto solo deprimendo quello del capitale medio, spina dorsale dell'economia liberale, in quanto arrivi a ridurne le possibilità per gli investimenti più fruttuosi, a limitarne le iniziative e controllarlo per tutti i versi. Ma per riuscire appieno in questo e per coartare il «risparmio», che tenderebbe ad affluire di preferenza verso l~ aziende «sane», le medie imprese capitalistiche, abbisognano al grande capitale non meno che i poteri dello Stato. E abbiamo appunto visto lo Stato fascista, messo al suo servizio, collocare forzatamente prestiti e rendite, per sostenere col puro e assoluto del bene comune, possono scaturire i piani dell'ordine nuovo, verso i quali convergono i due fattori principali di ogni rivoluzione : l'insopprimibile aspirazione dei popoli alla giustizia e l'oggettiva necessità. Nel libro «Espoirs» dedicato alla guerra civile spagnuola, André Malraux fa dire da uno dei suoi personaggi che il compito più degno di un rivoluzionario è di «trasformare il più possibile di esperienza in coscienza.» Lo stesso concetto ha espresso Emilio Lussu, scrivendo : «Ogni guerra può essere una scuola rivoluzionaria se fatta ad occhi aperti.» Ma questo, si può opporre, non è un imperativo della vita politica. Il dovere di riflettere, di pensare, di capire, di rendersi conto, in fondo è un obbligo universalmente umano. E' cosi. Quando, come nella nostra epoca, l'esistenza stessa dell'uomo è in giuoco, (la sorte dell'uomo, nei rapporti con gli inumani determinismi che l'opprimono,) allora la politica trascende se stessa ed esprime i bisogni essenziali della creatura umana minacciata facendo appello a doveri ed impegni che investono tutta la persona. Essere socialista, oggi, nel modo come noi l'intendiamo, coincide con l'essere integralmente e coraggiosamente uomo. Essere socialista, oggi, per noi, significa avere affrontato il fascismo e la guerra ad occhi aperti. Cosi il socialismo europeo non è neppure esso sfuggito alla gran legge di natura : morire per poter rinascere a nuova vita. provento l'industria monopolistica, enfiare il mercato obbligazionario, creando enti di finanziamento allo stesso fine, e cosi obbligando il privato ad appagarsi di un interesse fisso; limitare per legge i dividendi, le riserve ecc., con questo sempre riducendo in tutti i modi la mobilità e facoltà di scelta del capitale privato. Si effettuava una sorta di mobilitazione forzata della ricchezza privata, che veniva riversata nei canali della grande industria gestita dal capitale finanziario. La caratteristica salient~ di questo complesso sistema di interventi è - in forma tendenziale - il e o n - sol id amento del capitale investito nell'industria. I dividendi tendono ad essere livellati e trasformati in interesse fisso, pur lasciando gioco alla speculazione sul mercato azionario. Il capitale accumulato dall'attività privata è posto a disposizione dei grandi gestori della finanza nazionale e rimesso alla loro discrezione. Ora, la «socializzazione» an1.~nziata porta a compiutezza questo fenomeno mostruoso che è la dittatura del grande capitale monopolistico. Come oggi si compie, è senza dubbio un passo avventato e affrettato, è anche lo sforzo disperato di padror.eggiare una situazione preagonica e ritardare lo sfacimento; ma anche cosi è ugualmente rivelatrice dei fini che mossero tutta la politica economica del fascismo. Socializzazione invertita, che non tende al socialismo, ma all'incondizionato dominio e assoluto imperio del capitale monopolista. Nessun regime, per autoritario che sia, nessuna dittatura, per semplice umore, potrebbe muovere un passo come questo senza aver percorso già in precedenza abbastanza strada in una tale direzione. Il pubblico stenta a capacitarsene, guarda stupito, e i titoli vacillano in Borsa, come hanno vacillato a tanti altri strattoni che il fascismo ha dato all'economia nazionale per servire agli interessi del grande capitale. Ma i suoi grandi elettori, i magnati dell'industria hanno un'altra ansia che quella che può provare il «risparmiatore», hanno quella solo che viene dal saper molto insicuro il domani di questo fittizio trionfo. * Sull'orlo della voragine, il fascismo si volge a irridere satanicamente, con questo gesto spavaldo, a chi s'è illuso ch'esso operasse solo in superficie e ha continuato a sognare una restaurazione quando che sia dell'economia libera. Gli fa vedere come le sian stati recisi i nervi da molto tempo, gli mostra che è ormai un corpo inerte, che può essere fatto in pezzi e calpestato senza che il mondo crolli. C'è tutta una incastellatura nuova, sulla quale s'asside da tempo il dominio del grande capitale monopolistico. Cieco chi non ha voluto vedere per non arrendersi all'evoi.uzione irrevocabile che si compieva sotto i suoi occhi, quando proprio in essa è la ragione storica che ha promosso il f . ~asc1smo. Il fascismo scomparirà, ma solo come un aspetto, una forma della dittatura capitalistica, della riassunzione che il grande capitale monopolista opera in sé della fortuna. e destini del capitalismo. Per il resto, la necessità di assicurarne l'imperio sarà domani più grande che mai, e noi vedremo ordinarsi in regimi di ferrea dittatura economica i paesi che non saranno rigenerati dalla rivoluzione socialista. Non si può contrastare con altri mezzi al progresso economico, che porta, attraverso l'economia regolata, al socialismo. Ma ciò che attende questi disperati tentativi è provato proprio dalla fine drammatica del fascismo, che esasperando la compressione di tutta la vita civile, suscita sul terreno politico le forze che lo travolgono.

• Situazionde lcinemadopola guerra Alla fine del conflitto attuale il mercato cinematografico di tutta l'Europa, liberato dal giogo tedesco, sarà dominato dalla produzione americana che deterrà una specie di monopolio mondiale. L'Inghilterra ha una produzione di film assai limitata e per la maggior parte controllata dalle case americane. L'URSS non ha attualmente né una produzione né una organizzazione tale da fare concorrenza all'America. Il film americano è stato a poco a poco cacciato per ragioni economiche da quasi tutti i paesi d'Europa dove una volta dominava indisturbato. Si sa che gli americani non vendono mai i loro film. Le case di produzione provvedono a noleggiarli direttamente fino al più piccolo cinematografo della periferia e tutti gli incassi affluiscono direttamente in America. Le copie una volta sfruttate vengono ritirate o distrutte. La regolazione degli scambi valutari non permetteva sempre l'esportazione di tutto il denaro che gli americani incassavano con la proiezione dei loro film. Essi impiegavano allora i loro crediti congelati in paesi stranieri per l'acquisto sul posto di sale di produzione o di impianti di produzione da gestire in proprio. Questi investimenti in continuo aumento pre- • occuparono tutti gli stati nazionali e cosi le case americane furono a poco a poco estromesse da tutti i mercati, soprattutto dall'Italia e dalla Germania dove la loro cacciata fu totale. E' con spirito di trionfatori che essi ritorneranno con i loro film dopo la guerra. In previsione di questa invasione si discuteva già a Roma, nell'interregno badogliano, sulle eventuali misure da prendere per evitare che l'industria italiana rimanesse completamente soffocata. La soluzione migliore apparve quella di proibire o di limitare il doppiaggio. Ciò non offendeva il diritto dell'arte alla libertà, poiché in tal modo tutti i film esteri potevan essere proiettati in Italia, ma ne limitava notevolmente il successo. Il sistema dei sottotitoli sovrimpressi sulla pellicola richiede una certa fatica per seguire i film parlati in una lingua che non si comprende. Conoscendo il pubblico italiano si può essere certi che tali film non sarebbero andati molto oltre le prime visioni nelle principali città. Sarebbe rimasta libera in tal modo una grande parte del pubblico per lo sfruttamento dei film italiani. L'abolizione del doppiato o la sua limitazione a un numero fisso di film poteva essere cosiderato anche come un omaggio all'arte poiché solo nella versione originale un film può essere apprezzato e giudicato obbiettivamente. In Italia il governo fascista aveva proibito la proiezione di film parlati in lingua straniera rendendo il doppiato obbligatorio. L'autorità riteneva che i film in lingua straniera, soprattutto americana, fossero una propaganda troppo diretta di usi e costumi che si preten - deva di combattere. Enorme errore! La grande quantità di film americani resi accessibili alle masse grazie a una nuova lingua che si venne creando, slang americano con vocaboli italiani, produsse ben più disastrosi effetti creando una superficiale «moda americana», snobismo di pessimo gusto, adottato con entusiasmo come ostentata fronda contro il fascismo. La proibizione delle canzonette e dei film americani non approdò poi a nulla se non a far nascere in Italia una vera industria di brutte copie degli originali proibiti. Sul doppiato si potrebbe discutere eternamente. Il doppiato non è una soluzione troppo brillante, artisticamente parlando, ma è pur sempre una soluzione molto comoda per comprendere i film troppo dialogati. In quanto al problema se convenga introdurlo o no come limitazione alla concorrenza americana, credo sia meglio abbandonare definitivamente simili espedienti. In primo luogo dopo la guerra in Italia gli angloamericani pretenderanno per lo meno che vengano abbandonati i sistemi fascisti già usati nei loro confronti e avranno la forza necessaria per farsi ascoltare. E' inutile ripetere con mezze misure gli errori del passato, non si creerebbe che una nuova diffidenza. In quanto alla loro invadenza economica, essa sarà regolata nel piano generale per la ricostruzione dell'Italia. L'industria cinematografica americana è abbastanza importante per non esserne esclusa. Dovrà per questo sparire la proàuzione di film in Italia? Teoricamente no. Se vi sono in Italia bravi registi e bravi attori, i loro film piaceranno sempre di più al pubblico di quelli americani. Soltanto non si può contare per questo su quegli artisti che si sono rivelati in epoca fascista, salvo rarissime eccezioni. La possibilità di fare dei film italiani dipende in primo luogo dal sorgere di quadri assolutamente nuovi. Al tramonto del fascismo il cinema era in perfetto sfacelo: registi stanchi, attori svogliati, soggettisti in cerca dell'affare e non del buon soggetto. Dieci anni di compromessi con chiunque a qualunque costo, pur di arricchirsi hanno fatto di tutto il nostro , . . apparato artistico un guscio vuoto. In~ustria~- mente la situazione è più confusa. Rrmane 11 fatto indiscutibile che mentre un film americano giunge in Italia già ammortizzato dal mercato interno e dagli altri mercati stranieri e perciò quello che incassa è sempre un utile in più, un film italiano deve contare soltanto sul mercato interno perché l'esportazione non si conquista dall'oggi al domani. Ne consegue che se per un film americano basta, poniamo, un incasso minimo di 100 000 Lire ( spese di edizione), per un film italiano occorreranno almeno 2 000 000 Lire per coprire le spese di produzione. Un film costa sempre moltissimo e pur accontentandoci in partenza di spendere magari un decimo di quanto lo stesso film costerebbe in America, avremo sempre una cifra enorme per un mercato interno dove la concorrenza fosse libera. Ammesso che lo stato desideri una produzione di film Mazionali, esso dovrà evitare accuratamente tutti gli errori del passato regime. Prima di tutto, non fissare assolutamente un programma quantitativo da raggiungere ad qgni costo, ma limitarsi strettamente alle possibilità offerte da quelle squadre tecnicoartistiche capaci e nuove di idee che sorgeranno nel dopoguerra. In secondo luogo, fissare invece un limite massimo di film da produrre annualmente in base alle possibilità di assorbimento del mercato di lingua italiana, massimo che non dovrà assolutamente essere sorpassato a meno che il prodotto non conquisti per le sue qualità importanti mercati stranieri. Non dimentichiamo che il cinema italiano è già stato due volte malato di elefantiasi. Produzione modesta a tutti i costi anche se tecnici e artisti sembreranno abbondare. Il cinema è come uno specchietto per allodole. Gli uomini veramente capaci sono in questo campo più rari ancora che altrove. Nessuna debolezza per tutti quegli elementi che invocheranno un «diritto al lavoro» in \)ase alla loro carriera passata. La carriera p'assata, salvo rare eccezioni, dovrà sempre costituire una referenza negativa. Di troppe macchie si è coperto il cinema fascista e chiunque vi abbia partecipato ne era in un certo senso responsabile. Il regista, l'attore o l'operatore non sono paragonabili all'operaio che se non va in fabbrica non può vivere. Essi, in generale, hanno scelto il cinema perché era una industria comoda e ben pagata. Tutti potevano guadagnarsi in altro modo da vivere se avessero avuto una coscienza politica o morale. Il cinema esige la responsabilità di chi vi partecipa. Approssimativamente si può dire che .s.e-.ifi. Italia si producessero venti film all'anno, sarebbero già molti per le possibilità del mercato e forse troppi per il rischio che il finanziamento iniziale dovrebbe sopportare. Per venti film all'anno occorrono circa quattordici registi. Un regista che fa più di un film e mezzo all'anno è un mestierante senza scrupoli. Mi si citino quattordici registi degni di continuare a lavorare in Italia? Ne conosco a mio avviso tre o quattro appena. Gli altri dovrebbero sorgere dal nulla; anche con molto ottimismo sarà difficile che questa cifra possa essere raggiunta presto. Lo stato ha interesse ad appoggiare una produzione di capolavori. Il prodotto dozzinale lo faccia chi ha tempo e convenienza; che importa che ci giunga dall'estero? Il film dozzinale, accuratamente controllato, è un passatempo e null'altro, come il circo1o il p~rco. dei divertimenti. Se sotto il nuovo governo italiano che sorgerà dopo la guerra si produrranno nel primo anno ci n q u e film veramente originali, italiani nel vero senso della parola, senza retorica, senza situazioni convenzionali, pieni di amore per l'Italia del popolo e non per l'Italia ufficiale, sarà un grande successo politico e culturale. L'industria potrà essere sia dello stato sia di privati, a seconda dei piani economici del nuovo governo. Probabilmente pochi industriali avranno tuttavia ancora il desiderio e la possibilità di occuparsi di cinema. Noi ci auguriamo che sia un'industria seria, e per questo più sarà modesta nei progetti e accurata nell'esecuzione, tanto meglio sarà. Una specie di ente morale, con capitale iniziale dello stato, sarebbe la soluzione migliore; naturalmente, un'istituzione non burocratica, diretta da uomilli nuovi, responsabili, esposti alla critica, animati dalla passione artistica e da quella del rinnovamento rivoluzionario del paese, e perciò alieni dagli affari, dal nepotismo e dallo spirito di cenacolo; un'istituzione autonoma nel suo funzionamento e da giudicare solo dai suoi risultati, ma libera nelle sue iniziative, senza dipendere ... dal consiglio dei ministri. Insomma, nella produzione dei film, la stessa sintesi di collettivismo e di libertà che ricercano nel campo della produzione industriale i socialisti più intelligenti. Bisognerà coraggiosamente eliminare dall'industria cinematografica italiana la corruzione introdottavi dal capitalismo speculatore. Più i salari degli artisti saranno modesti e si avvicineranno a quelli dei tecnici delle altre industrie, e meno opportunisti avranno voglia di occuparsi di cinema. Gli artisti intelligenti BibliotecaGino Bianco troveranno nel nuovo contatto col popolo e nella nobiltà della funzione artistica e morale che ad essi spetterà in regime di libertà un compenso finora sconosciuto. Per far fronte sul mercato interno alla concorrenza dei film stranieri il film italiano non dovrà più contare sul protezionismo forzoso, ma sulla propria qualità. Un'arte cinematografica la quale esprima i bisogni profondi e le aspirazioni 'lungamente represse delle classi lavoratrici, e li esprima s'intende col linguaggio della bellezza artistica, non ha paura di concorrenza. Di più: una simile produzione italiana avrà molte possibilità di successo all'estero, come il film russo quindici o venti anni fa. Nella società contemporanea il film, come il libro, come il disco di grammofono, come il quadro del pittore, è una merce, esposta perciò alle leggi del mercato, ma è una merce di un genere speciale : la sua forza d'irradiazione nel pubblico dipende in definitiva dall'intensità del suo contenuto spirituale. Il problema del film s'identifica perciò con quello del teatro, del mercato librario, della stampa ecc. : è un settore importante della sovrastruttura culturale che bisognerà ricreare da cima a fondo e metterla al servizio del popolo. Risolto il problema fondamentale, non sarà difficile escogitare gli espedienti organizzativi per «democratizzare» i rapporti tra i produttori di film e gli spettatori. La classe degli intellettuali dovrà essere mobilitata per questo scopo: giornalisti e scrittori, con una critica intelligente e una propaganda attiva possono fare molto. L'altra tappa importante che il governo deve compiere è di considerare il cinema non solo come un passatempo ma come parte integrante della cultura del popolo e di appoggiarlo almeno quanto finora lo sport. «Tutti al cinema, due volte ogni settimana», ecco il nuovo slogan. Sconti a chi va più al cinema, concorsi popolari di critica cinematografica, referendum per il migliore film o il miglior regista, proiezioni illustrate da conferenze, proiezioni retrospettive per insegnare a tutti la storia del cinema, lotterie cinematografiche. Proibizione assoluta degli spettacoli continuati e degli spettacoli misti di cinema e varietà. Tutto questo aiuterà ~ chiarire le idee. Una volta stabilito quali sono i film da boicottare, perché non si deve poter giungere a un vero e proprio sciopero degli spettatori? L'educazione politica delle masse andrà di pari passo con la loro trasformazione a pubblico cosciente di ciò che vuole e di ciò che non vuole. Boicottando un film, il pubblico lo esclude automaticamente dal mercato. Gli americani non avranno mai nessun interesse a proiettare in Italia dei film che al pubblico non piacciono. L'essenziale perché l'ente produttore riesca e trovi la forza per imporsi è che esso conservi sempre un cosciente senso critico verso i film italiani, che sia sempre disposto a rinunciare a fare dei film piuttosto che farli ricorrendo ad artisti mediocri. Si tratta prima di tutto di ridare al pubblico la fiducia, mentre ora le masse partono da una automatica diffidenza appresa in venti anni di delusioni. Il pubblico italiano è ora il più scettico del mondo; un po' per natura un po' per le disgrazie che gli sono accadute è ormai incapace di ammirare e di entusiasmarsi sinceramente. Ridiamogli questa fiducia. E questo spetta prima di tutto agli artisti che devono essere all'altezza del loro compito. VOCABOLARIO «Abbiamo smarrito i nomi delle cose.» Ideologia. La parola ideologia sembra sia stata inventata da Destrutt de Tracy per designare il mondo delle idee. In questo senso l'impiegò anche Marx. Il malvezzo di designare il marxismo come ideologia del proletariato e le espressioni: ideologia socialista, ideologia comunista, ideologia rivoluzionaria, sono dunque essenzialmente anti-marxiste. Questo malvezzo ci viene dalla Russia, ma non è una ragione perché sia tollerato. L'espressione ideologia socialista o comunista è corretta solo se si vuole designare un modo di pensare socialista o comunista del tutto astratto e indipendente dalla realtà; anime, a detta di Dante, «pasciute di vento». Dunque, è una parola che eviteremo, modestia a parte, per designare il nostro modo di pensare. l\Iassa. La parola massa indica un mucchio informe di qualche cosa. E' dunque corretto dire : un mucchio di pietre, se si tratta, per es. di macerie. Ma una cosa che si regge ancora in piedi non è una massa di pietre. Allo stesso modd si può dire una massa di soldati, e i soldati sono tra loro confusi senza distinzione di unità o di grado; ma un reggimento non è una massa di soldati. Allo stesso modo si può dire: una massa di gente, parlando di profughi o evacuati; ma la maestranza di una fabbr_ica1 non è una massa di gente. Le espressioni dunque «andare alle masse», «~onquistare le masse» «dirigere le masse», «inquadrare le masse»' sono tipicamente fasciste o comuniste, e perciò noi avremo cura _di elimi_nar_leda_l nostro linguaggio quando si trattera di designare l'azione socialista tra il popolo, tra le A che punto stiamo, cara terra, stamane? A che punto stiamo, cara terra, stamane? Andai a letto iersera e un problema mi assillava e bruciava. Mi hai destato, o mattino, per qualche rivelazione? C'è qualche cambiamento nell'aspetto della terra e nell'aspetto degli uomini? Andò avanti la Vita, mentre la mia vita riposava? E' successo qualcosa del mio sogno di amarezza e di gioia, di capovolgere il peso dei doveri quotidiani? Sono risuscitati per partecipare alla festa rinviata i profeti che morirono anzitempo e i coraggiosi uomini donne e bambini che furono vittime dell'ingiustizia o abbandonati alla morte per fame? * Le cose rubate restano rubate? La vita distrutta resta morta? Falliscono i ritardatari, i falliti, ancora? Il dormiente che ha dormito il sonno dell'uomo d'affari, si risveglierà uomo d'affari? La Legge che ieri mi afferrò alla gola, si sveglierà ancora come Legge? Il cantante si sveglierà sol<1per cantare, il pittore per dipingere, l'oratore per discorrere? Oppure il nient'altro-che-commerciante si sveglierà uomo? Oppure la Legge dello Stato diventerà la Legge dell'Uomo? Oppure torneranno gli oggetti rubati al loro posto? Oppure tacerà il cantante, deporrà il pennello il pittore e l'oratore rinuncierà alla parola, poichè qualche cosa più grande del cantare, del dipingere e del declamare si è rivelata alle masse? * Dimmi: a che punto stiamo, cara terra, stamane? Noi eravamo una volta intimamente uniti, ma in qualche modo la nostra intesa di oggi è più dolce. Tu mi ritrovi, anche se io sono lontano; tu mi scopri, anche se io mi nascondo; tu mi rafforzi se io sono debole. , Tu mi sollevi dalla banalità e dalla dissipar zione nella purezza e nell'armonia. Tu mi spieghi finalmente il segreto dei sogni delle mie notti trascorse e mi riconcili col vero senso del mio inquieto passato. Tu mi liberi dalle mie angustie e mi conduci nella pace e nella calma. * Perchè adesso io vedo che quando una volta pensavo alla Giustizia e credevo di sognare, in realtà proprio allora ero sveglio. Perchè adesso, nella rivelazione di questa mattina, ancora in dormiveglia, io sento le mie più lontane radici nel passato e nell'avvenire, in tutte le epoche e presso tutti i popoli. Camden (U. S. A.) HORACE TRAUBEL (1858). maestranze proletarie, nei villaggi, e così via. Noi contiamo sul popolo e non sulle masse. Nazionale, patriotta, ecc. Questi aggettivi, fino a pochi anni addietro, designavano partiti, uomini, istituzioni conservatrici. Spesso essi servivano a dissimulare la politica egoista e reazionaria dei capitalisti che amavano identificare la loro cassaforte col tabernacolo della nazione e della patria. Nei partiti proletari, senza distinzione di tendenza, vi era sempre stata una viva avversione ai simboli e alle parole nazionali. La qualifica sprezzante di socialpatriotta servì dopo la prima guerra mondiale a designare quei socialisti che avevano tradito il socialismo e si erano asserviti all'imperiar lismo. (La parola «nazionale» non veniva tollerata da taluni neppure per indicare una realtà geografica. Colui che scrive, redigeva venticinque anni fa un settimanale comunista, la cui ultima pagina raccoglieva le corrispondenze delle sezioni sparse in tutto il paese e perciò recava il titolo : nazionale; allo stesso modo come, in altra pagina, le lettere dall'estero erano mccolte nella rubrica: Movimento internazionale. Dovette sopprime, in seguito a molte proteste, la dicitura nazionale!) Nell'uso di queste parole è intervenuto, in questi ultimi tempi, un mutamento importante: esse sono ora sinonimo di comunista (per spiegarci meglio, di stalinista). Se dunque, amico lettore, tu trovi sul tuo giornale che a Bari o a Calcutta o a Santiago, si è formata una guardia nazionale, o che ha avuto luogo iin'assemblea di patriotti aperta dal canto degli inni nazionali, o che i patriotti hanno promosso una certa iniziativa, è superfluo che tu cerchi d'inf armarti di chi può trattarsi, e puoi essere certo che si tratta di comunisti. «Ex fumo lux!»

Anno XXXV (nuova serie) N. 1• 2 (doppio). L'Avvenire dei Lavoratori Zurigo, 1 Febbraio 1944. LIBERARE E FEDERARE! Compiti e responsabilità dei socialisti • Bisogna dare una direzione e un contenuto preciso alla rivoluzione europea in gestazione.• 1 ° Il proletariato nella società divisa in classi La classe dei lavor:atori salariati vive nell'ordine di rapporti economici e giuridici che noi continuiamo a chiamare «società capitalistica», benché negli ultimi decenni le norme del diritto di proprietà sui mezzi di produzione, e soprattutto le norme dell'effettivo controllo su la produzione e su la distribuzione dei beni, abbiano subito mutamenti radicali: la potenza enormemente accresciuta dello Stato, ma anche necessità imposte dal progresso tecnico, ed in una certa misura il successo parziale delle rivendicazioni operaie, hanno creato un tipo di economia e quindi un sistema di rapporti sociali ben diversi dalla plutocrazia liberale (e più esattamente «liberista») contro la quale insorgevano, più di cent'anni fa, i primi socialisti e le prime organizzazioni di «resistenza» spontanea fra i lavoratori. Ma qualunque siano gli spostamenti avvenuti nel ceto dirigente (nuovi ricchi, più rapaci, più spregiudicati, meno «rispettabili» dei ricchi di «antica data»; capitale finanziario prevalente su quello industriale o commerciale; parte leonina attribuita al militarismo ed alle attinenti industrie degli armamenti; corruzione di capi politici nelle democrazie; casta di plutocratici e di funzionari «corporativi» strapotenti nei regimi totalitari) e qualunque siano le modificazioni nella «divisione del lavoro» e quindi nella gerarchia dei ceti subordinati (aumentata importanza numerica e qualitativa di tecnici e di impiegati; moltiplicazione di nuove classi medie; protezione e creazione per ragioni politiche di piccole aziende agricole; ed in seguito a quel sempre più disastroso malgoverno economico che si chiamava una volta «anarchia capitalista» ed oggi è soprattutto un frettoloso, incompetente ed oppressivo intervento statale - formazione di un largo strato di nullatenenti i quali non costituiscono più un «esercito di riserva», ma sono condannati sia al mercenarismo brigantesco o poliziesco nelle squadre fasciste, sia alla degradante mendicità del parco sussidio per «disoccupazione perpetua») due fatti fondamentali determinano oggi, come un secolo fa, la posizione del proletario lavoratore nel complesso del vigente sistema sociale e politico. I 1 p r i m o è che con la sua operosità produttiva il proletariato rimane il principale fattore della prosperità materiale, dello sviluppo, dell'esistenza stessa delle «nazioni» e della loro «civiltà». I 1 s e c o n d o f a t t o è che, pur non essendo esclusi da tutti i benefici di detta civiltà e pure avendo conquistato qualche influenza su le decisioni che orientano la vita collettiva delle nazioni, i proletari si vedono tuttora ridotti ad una parte incongrua, assolutamente sproporzionata alla loro numerica prevalenza e al loro contributo produttivo, nella repartizione del «reddito nazionale»; sono posti in istato di irrimediabile inferiorità in tutte le vie di accesso ai reali valori della civiltà (dalla comodità della vita quotidiana~alle spirituali soddisfazioni dell'arte, della scienza, ecc.); si vedono nell'impossibilità di acquistare la preparazione intellettuale, l'esperienza del vasto mondo, la libertà di movimenti che sarebbero indispensabili per partecipare con criteri di vera competenza, con risorse eguali a quelle delle classi ora privilegiate, alla direzione della cosa pubblica. Perciò non possono sentirsi figli devoti e contenti delle attuali patrie; solo in una società dove sarà abolito il salariato e dove non esisterà più né una classe di proletari capitalisti né una casta di «ge~archi» burocratici (nominati e destituiti da qualche supremo capo, o duce, o gran consiglio, o politburo) per «comandare il lavoro» e disporre dei frutti del lavoro, coloro che oggi costituiscono il proletariato delle officine, delle miniere, dei trasporti, dei latifondi o dei «kolkosi» (ed anche degli eserciti combattenti) potranno identificare il loro proprio interesse, quali esseri umani, con l'interesse generale del consorzio sociale in cui si troveranno inquadrati. 2° L'Internazionalismo Non è che un altro aspetto della situazione medesima quella necessità di una fratellanza internazionale che i lavoratori dei paesi industriali hanno sentito quasi per istinto fino dal primo risveglio della loro coscienza di classe. Il mondo capitalistico, e poi quel sistema di economia e di organizzazione sociale che si tenta di caratterizzare coi termini die «supercapitalismo», di fase «imperialista» e magari di «autarchia totalitaria», hanno sempre preteso di attingere un aumento di vitalità nella lotta, prima sotto la forma relativamente pacifica della concorrenza fra individui e singole imprese, ed ai tempi nostri sotto specie di conflitti rovinosi fra grosse potenze finanziarie e monopolistiche (trust, cartelli, corporazioni) le quali per utilizzare le forze dello stato, rastrellare i risparmi del pubblico, «socializzare» le loro perdite croniche e sfruttare persino l'entusiasmo, il furore, i risentimenti, le superstizioni di grandi masse, sanno camuffare le brame di profitto con apocalittiche visioni di gloria nazionale, di conquiste ed egemonie, e magari di guerre «rivoluzionarie» e rigeneratrici delle «giovani nazioni proletarie» contro le «vecchie nazioni» plutocratiche. Purtroppo anche la classe operaia si è lasciata talvolta tentare dagli immediati vantaggi che offriva la sopraffazione di un debole vicino o dello straniero in genere. Le ricchezze estorte all'India, e la distruzione delle industrie indigene in questo impero annesso alla corona d'Inghilterra, hanno facilitato l'elevamento del livello dei salari in Gran Bretagna, e ciò potrebbe spiegare l'indifferenza di cui a lungo hanno fatto mostra le associazioni operaie inglesi di fronte alla miseria e alla schiavitù dei popoli coloniali. Del resto un'influente frazione della socialdemocrazia tedesca ( Schippel fin dal 1905) e parecchi socialisti di altri paesi hanno apertamente sostenuto l'opportwtità di «espansioni» a spese delle razze primitive. Le crudeli «barriere di colore» (Colour Bar) che dovrebbero mantenere in uno stato di abbiezione la mano d'opera negra e asiatica furono istituite spesso per iniziativa di sindacati di lavoratori bianchi in America, in Sud-Africa, in Australia. Durissimi regolamenti che hanno quasi privato gli operai di origine straniera die ogni normale «diritto al lavoro» non incontrarono quasi nessuna protesta da parte del proletariato organizzato nei paesi più evoluti di Europa. E sarebbe vano negare che una parte almeno dei proletari italiani e dei proletari germanici si è lasciata adescare dal miraggio (presto dileguato) del posto al sole in Etiopia o delle «grasse terre» di Ucraina. Ma in tutti questi casi si tratta di una evidentissima incomprensione dei reali e durevoli interessi della' classe dei lavoratori salariati. Non appena questi considerino il loro stato presente e le possibilità di migliore avvenire nella piena luce dell'esperienza e del buon senso, appare indubbio ai loro occhi che la questione sociale o sarà risolta mediante la solidarietà assoluta dei salariati di tutti i paesi, di tutte le razze, di tutte le professioni, o non potrà mai essere risolta. Nessun proletario veramente cosciente, «nessun socialista» vorrà adottare mai soluzioni «nazionali» che nell'ordine internazionale comportassero la diminuzione di altre nazioni. E ciò per pura, utilitaria, re a 1i s t i c a prudenza. Poiché la quiete e la prosperità del vicino sono la condizione indispensabile della quiete e della prosperità propria e quindi di uno sviluppo progressivo di tutti. Gli smembramenti, gli schiacciamenti di popoli interi o di «minoranze nazionali» ( o razziali) prima che delitti sono spropositi. 3° Carattere speciale dei rapporti fra popoli secondo il socialismo Importa insistere sulla connessione strettissima fra quella che si può chiamare «politica estera» conveniente ad un partito operaio e la «questione sociale»; perché le idee in proposito sono diventate alquanto incerte dopo che i socialisti hanno partecipato al governo di Stati capitalisti e quindi al giuoco diplomatico secondo le tradizioni ed i pregiudizi del mondo borghese, ma più ancora in seguito all'ambigua linea di condotta dell'Unione soviettica la quale si dice stato socialista e non esita tuttavia a fare uso BibliotecaGino Bianco dei più vieti arcani delle cancellerie autocratiche conseguendo scopi squisitamente imperialisti. Invece il modo in cui un socialista concepisce i rapporti tra i popoli (e non già tra gli Stati) implica non una semplice divergenza di vedute ma un contrasto insuperabile con tutti quei partiti politici i quali considerano normale la divisione del genere umano in «Stati sovrani» ed inevitabilmente rivali. E' naturale che al politico borghese il sistema delle relazioni internazionali si presenti come un insieme di c o o r - dinazioni e di subordinazioni di enti abbastanza astratti in quanto «riassumano» uno Stato (organizzazione e gerarchia di poteri esecutivi), un territorio ed un popolo in una specie di finta «persona giuridica» che si chiama Italia, Germania, Francia, Impero Britannico e via dicendo; così come nel diritto romano, nel codice napoleonico ed anche nella Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 (ed in quella precedente americana) la reale sostanza della persona umana, i suoi bisogni concreti e le sue particolari preoccupazioni scompaiono dietro la convenzionale «forma» del proprietario, del pagatore d'imposte, dell'elettore, del coscritto di leva, ecc. che viene coordinato e subordinato ai suoi simili ed ai suoi superiori in una rete di rapporti generici. Ora il socialismo è nato proprio dall'esigenza opposta : da una visione cioè della persona umana in carne ed ossa, dalle sue effettive sofferenze ed aspirazioni, d'un solo elementare diritto di «vivere la propria vita» e di esplicare pienamente le proprie facoltà. Non basta promulgare «libertà» spettanti a chiunque sia in grado di usarne, ma occorre assicurare a ciascuno le condizioni che lo rendono libero davvero; non vale la «eguaglianza dinnanzi la legge» se non è garantita un'eguaglianza di risorse e di «opportune occasioni» a tutti nel momento iniziale della loro «carriera in. questo mondo»; non ci si può contentare d'una corretta, esteriore «deferenza» verso una supposta, delimitata sfera di diritti o interessi altrui, ma ci vuole una cooperazione positiva ed una continua, reciproca comprensione per arricchire la propria vita personale e quella del prossimo di tutte le risorse, gli stimoli, gli appoggi materiali e morali che soltanto l'unione delle forze, la comunione nelle pene, nei pericoli, nel lavoro, nella gioia, nelle conquiste dell'intelletto può procurare. E tale comunione si estende fino alla massima : «n u 11 a d i q u e 1 che è umano mi può essere indifferente». Tutto ciò si può esprimere dicendo che il socialista vede l'uomo non «coordinato» ma integrato nel più o meno ristretto consorzio dei suoi «eguali» per nascita, per professione o per qualche «affinità elettiva»; e vede lo stesso uomo integrato in modo altrettanto immediato nella comunità più vasta che si chiama genere umano. L'umanità intiera si presenta al proletario socialista non come una coordinazione di corpi separati ( che sarebbero le nazioni ordinate a Stati sovrani), ma come una reale, unita soci età, entro la quale ogni individuo si muove libero e sicuro non solo della tolleranza ma di un attivo consenso dell'immensa maggioranza dei «consoci» nelle essenziali questioni del giusto e dell'ingiusto, dell'utile e del nocivo, della pace come supremo bene e della riprovazione di ogni violenza. 4° I socialisti e lo Stato Il socialismo, cosi come si costituì nella Seconda Internazionale, cioè dal 1889 in poi, manifestò piuttosto una propensione, non sempre cauta, ad estendere il raggio di azione ed a moltiplicare i congegni del meccanismo governativo. Gli è che mentre l'azione diretta delle organizzazioni operaie - gli scioperi anzitutto - richiedeva sacrifici e otteneva risultati incerti, sempre rimessi in questione da una crisi industriale o da una controffensiva padronale, il suffragio universale faceva salire con una meravigliosa rapidità il numero di socialisti nei Parlamenti e nelle altre assemblee elettive. Non si ignorava certo che il sistema di amministrazione, di polizia, di lavori pubblici, di eserciti stanziali, di pubblica istruzione, foggiato da Napoleone, da Bismark e dai loro imitatori, reso infinitamente più efficiente dalla moderna tecnica delle comunicazioni rapide e dalle armi ultra micidiali, era ordinato in modo da assicurare due scopi precipui: all'interno la protezione della proprietà privata e dell'arricchimento dei capitalisti; verso l'estero l'espansione capitalistica sotto forma di conquista di mercati e di colonie, in rivalità ringhiosa con altre potenze. Ma si nutriva fiducia che tutta l'attività di questo Stato borghese ed imperialista sarebbe stata sempre meglio controllata ed anzi diretta dagli «eletti del popolo». Si affermava la convinzione riformista, secondo la quale fin da ora lo Stato potrebbe funzionare da arbitro imparziale fra le classi sociali ed appoggiare certe rivendicazioni degli sfruttati contro l'egoismo plutocratico. Nel pensiero di molti fautori del collettivismo la «statizzazione» diviene sinonimo di «socializzazione». La facilità con cui allo scoppio della grande guerra del 1914 ogni garanzia costituzionale ed , ogni controllo democratico svanirono quasi istantaneamente, di fatto prima ancora che di diritto, fu cosa stupefacente per molti democratici abituati a considerare come irremovibili le conquiste che il suffragio universale non aveva cessato di accumulare durante i precedenti due o tre decenni; forse fu una sorpresa per gli stessi governanti. Lo sviluppo delle forme democratiche era stato spettacoloso, accompagnato da gioiosi tripudi, mentre sfuggiva all'attenzione del pubblico l'accentramento di risorse materiali, di servizi tecnici sempre più numerosi, più perfettamente specializzati e sempre meno controllabili, sicché al momento critico tali mezzi di azione si trovarono nuniti in poche mani. Bastò il decreto della mobilitazione generale e la formalità del voto dei «pieni poteri» accordati al governo in carica, perché ad un tratto una ristrettissima oligarchia (per giunta composta di figure mediocrissime) si tro·,asse padrona assoluta della vita e della morte di milioni di uomini. Questa rivelazione della completa impotenza non solo dell'individuo intelligente, ma dell'intiero popolo, die fronte al gigantesco ingranaggio dello Stato accentrato, spaventò sino all'avvilimento molti animi, ma non fruttò salutari insegnamenti, perché si pensò che la guerra era un fatto eccezionale dovuto ad un intreccio di fatali errori che non si sarebbe mai ripetuto. E poi la vittoria delle potenze democratiche, la rivoluzione russa, le costituzioni più che mai liberali ed anche socialisteggianti promulgate nel 1918-1919, la Società delle Nazioni, apparivano come altrettanti argomenti per credere fermamente che dopo l'increscioso intermezzo di massacri e di brutale autoritarismo, l'ascesa trionfale del suffragio universale e dello Stato democratico non incontrerebbero più inciampi. Fu invece lo Stato totalitario che spuntò e crebbe rigogliosamente. Alle combinazioni finanziarie, pubblicitarie e poliziesche che spianarono la via del potere a Mussolini e a Hitler si possono assimilare le cosidette crisi di fiducia (bancaria) che per tre volte (nel 1926, 1934 e nel 1938) strozzarono in Francia un governo di partiti di sinistra, e l'analoga manovra che nell'autunno del 1931 riuscì ad eliminare per un decennio i laburisti dal potere. I grandi servizi amministrativi dello Stato ( compresi la polizia e l'esercito), diretti da insigni «tecnici», pressocché ignoti al pubblico e praticamente inamovibili, entrarono in collusione con certe potenze dette occulte ma in cui si riconoscono facilmente i magnati della finanza, con le rispettive clientele di specialisti superiormente «competenti» in ogni ramo tecnico, economico e magari scientifico, di legulei, giornalisti, demagoghi, e magari anche di semplici delinquenti. Agli immensi mezzi di pressione economica, di propaganda, di corruzione, di violenza poliziesca, militare ed anche squadrista, che la complicità di pochi uomini realmente capaci di muovere le «leve di comando» nello Stato moderno permette di utilizzare a scopo «fazioso», le istituzioni create dal suffragio universale non sono in grado di resistere; gli uomini di governo si sottomettono o si dimettono; i Parlamenti si lasciano addomesticare o sprofondano nello scandalo e rischiano di vedere «trasformato in bivacco» la loro «aula sorda e grigia»; la pubblica opinione è presto sconvolta e travista da una «grande stampa» e da una radio anche esse divenute monopolio dei veri padroni dello Stato; il popolo sfiduciato, incapace di reagire contro fatti compiuti e compiuti con quel ritmo fulmineo - da Blitzkrieg - ( che i mezzi tecnici, di cui so 1o lo Stato dispone, rendono possibile) si lascia indurre con le buone o con le cattive ai plebisciti i quali, beninteso, sanciscono qualunque cosa col 90 O/o di voti.

4° I SOCIALISTI E LO STATO (Continuazione) Credere che le a v venture fasciste o semifasciste che hanno travolto le istituzioni democratiche in quasi tutti i paesi di Europa siano un violento, ma transitorio fenomeno patologico di cui non rimarrà traccia dopo opportune operazioni chirurgiche, credere cioè che dopo la cacciata di Mussolini, di Hitler, di Franco con la loro progenie di quislinghi, antoneschi, antepavelici, ecc. potranno normalmente funzionare riedizioni, in qualche punto corretto, della costituzione di Weimar o di quella adottata nel 1931 dalla Spagna, sarebbe altrettanto ragionevole quanto aspettarsi a che, vinti gli eserciti dell'Asse, si vedano ristabilire, su per giù, le frontiere fissate nel 1918, dei «sovrani» stati di Polonia, Cecoslovacchia, Yugoslavia, e magari gli statuti di Danzica e della Sarre. Ormai è provato che nell'era dell'aviazione, dei carri armati, ecc., le frontiere terrestri e marittime non si difendono più come ancora potevano difendersi venticinque anni fa, e che i sistemi di economia accentuata sotto il controllo dello Stato, di valute non più fondate sul valore oro ma sul grado di potenza di una finanza di Stato «autarchica», hanno reso inoperanti o molto diversi gli effetti di un «blocco» economico. Cosi sembra evidente che di fronte a questo stesso Stato che dispone (per l'uso interno quanto per la lotta contro lo straniero) dei carri armati, dell'aviazione, del monopolio della radio, di tutte le risorse procacciate dall'economia governata, i diritti personali del cittadino e la libertà di spontanee attività sociali ( come associazioni non obbligatorie e non sorvegliate) non possono più valersi delle garanzie che erano sufficienti quando una serie di comizi e manifestazioni, uno sciopero generale, e magari una giornata di barricate, bastavano per ridurre un governo a resipiscenza. La soluzione del problema sarebbe, secondo certuni, semplice e infallibile: le leve di comando, strappate ai nemici del popolo, verranno affidate ai suoi rappresentanti autentici, eletti dal suffragio universale e per giunta affiancati da altri eletti che alacremente sorveglieranno ed «interpelleranno» i piloti, mentre questi assicureranno la navigazione del Leviatano statale. Allora quella potenza concentrata che oggi opprime le masse e le precipita nella guerra, agirà a vantaggio del popolo e della pace. L'esperienza della rivoluzione russa (oltre quella della rivoluzione spagnuola che esigerebbe un più lungo discorso per le condizioni particolari in cui si svolse) dovrebbero suggerire parecchie riflessioni in merito all'ipotesi semplicista ed ottimista a cui acceniamo. 5° L'esperienza russa Non si può negare che quando l'intiera macchina dello Stato zarista cadde nelle forti mani del partito bolscevico alla fine del 1917 Lenin e i suoi seguaci avessero l'intenzione sincera di utilizzare questi mezzi potenti per la felicità delle masse operaie e contadine russe e anche per facilitare la rivoluzione sociale, quindi la solidarietà pacifica fra popoli del mondo intero. Vedere una meditata menzogna nella prima costituzione sovietica che garantiva libertà veramente illimitate all'individuo ed alle associazioni di ogni genere, sospettare il governo dei co~ssari del popolo, ancora nuovo agli arduissimi compiti della• dittatura, di aver voluto fini da principio eliminare e ridurre a gesti decorativi la cooperazione ed il controllo degli innumerevoli Consigli (Soviet) di ogni grado, eletti dal popolo e muniti di ampi poteri, è una ipotesi gratuita. Se queste forme di democrazia estrema avessero potuto conciliarsi con l'efficienza di un'amministrazione centrale, avrebbe durato; e ci vollero parecchi anni perché il governo di Lenin giungesse alla conclusione che una buona gestione delle industrie nazionalizzate non sopportava più né la «collegialità» negli organi direttivi, né l'esercizio di «controlli operai» nelle singole imprese. Prescindiamo da due argomenti addotti di solito per spiegare lo sconcertante fallimento delle libertà promulgate in Russia nel 1917: a) il basso livello dell'economia e dell'industria popolare; b) le tremende complicazioni create dalle conseguenze della guerra mondiale, del trattato di Brest - Litowsk, delle insurrezioni bianche, dal blocco e dagli interventi ostili delle potenze occidentali. Una rivoluzione fatta sul serio pone sempre e dovunque la nazione che l'ha fatta dinnanzi ad eccezionali difficoltà interne e esterne. E per quanto riguarda la misura dei «livelli di civiltà»· e la capacità di un popolo a essere degno della libertà, i criteri (specialmente dopo le esperienze fasciste) sono estremamente confusi, e per esempio su la Francia pareri contradditori sono stati espressi durante un secolo dopo il 1789. Comunque l'attrezzamento militare ed industriale di cui vediamo armato ora Stalin parrebbe dimostrare che le decine di migliaia di operai e contadini che hanno sostituito l'antica classe dirigente nella gerarchia militare, amministrativa ed economica non sono tanto inferiori agli uomini politici, generali, diplomatici, ingegneri delle nazioni più progredite del mondo. La verità è che il partito bolscevico - in seguito ad una lunga preparazione nella disciplina del «sottosuolo rivoluzionario>> e a una di uomini spregiudicati moralmente e razionalisti dogmatici fino all'intolleranza - si distingueva dalle altre correnti socialiste per il modo di concepire la lotta di classe, gli effetti (secondo esso benefici) della violenza e l'organizzazione collettivista «su basi rigorosamente scientifiche» che doveva succedere al capitalismo. Nella lotta condotta senza pietà contro gli avversari e senza indulgenza verso le proprie truppe, avevano acquititato un forte sentimento della eguaglianza come la praticano i militari in guerra, ma la libertà dell'uomo, la varietà dei suoi bisogni, le sfumature e gli «imponderabili» dei rapporti sociali in un ambiente di civilità elaborata erano ignoti per le loro esperienze. Abituati a sacrificare tutte le proprie facoltà e la vita stessa alle esigenze dell'azione rivoluzionaria, erano fin troppo disposti a vedere in ogni persona umana uno s t r u m e n t o anzicché un f i n e in sé stesso e la grandiosità abbagliante dello scopo cui miravano - il «salto dal mondo della necessità in quello della libertà» secondo la dialettica marxista - faceva apparire ovvia la giustificazione di qualunque mezzo pur che fosse o sembrasse atto ad avvicinare il finale trionfo. Non è inutile, per capire meglio l'importanza di tali predisposizioni psicologiche in un gruppo energico e posto dagli eventi ad una svolta importante dell'evoluzione politica, osservare : a) una mentalità analoga animò il partito giacobino francese ;nel 1793 e si ritrova, attenuata o ridotta a pura teatralità, negli epigoni di tale partito (democrazia di sinistra); b) l'austerità e l'umanità cui si educò il bolscevismo durante il tirocinio di cospirazioni, di prigione, esilii, possono cristalizzarsi pure nelle coscienze di molti proletari, per l'effetto delle érudeli e ingiuste privazioni sopportate fin dall'infanzia; e ciò spiega l'attrazione che esercitano non solo la dottrina ma anche la «ferrea disciplina» comunista su larghi strati della classe operaia; c) i nuclei veramente fanatici ed entusiasti del fascismo, dell'hitlerismo, della falange spagnuola si sono formati sotto influssi razj.onali e sentimentali molto affini al modo di sentire e di pensare di un bolscevico sincero del _1917. Ma soprattutto vi è una corrispondenza fra i motivi dominanti di un atteggiamento intellettuale e morale come quello del bolscevico di fronte alla vita sociale, ed il culto della forza, dell'efficacia meccanica, del risultato quantitativo ed uniforme che la natura delle cose esige dai tecnici cui incombe di trarre il massimo utile da una macchina e cosi pure dal gigantesco e complicato macchinario che è l'amministrazione centrale di uno Stato moderno. Mercé la loro psicologica disposizione i seguaci di Lenin riuscirono a diventare i padroni assoluti dell'apparecchio di governo imperiale, venuto in loro possesso quasi per un colpo insperato di fortuna. E senza dovere cedere il posto ad un altro partito, per una specie di in v o l u zio ne interna ( cioè adattandosi sempre meglio alla ragione di Stato, scartando gli elementi troppo fedeli alle origini insurrezionali, aggregandosi tecnici più valenti ed arrivisti sempre meno scrupolosi) lo stato maggiore di Lenin e di Trotzky si tramutò in una burocrazia tecnocratica e nazionalista sotto Stalin. 6° Comunisti e socialisti al governo La conquista dello Stato riuscì ai comunisti ed ai loro emuli (ed in parte imitatori) fascisti. Non riuscì invece ai socialisti né in Russia sotto Kerensky, né in Germania, né in Austria dopo le rivoluzioni stroncate del 1918, né nella repubblica spagnuola. La causa principale del successo dei partiti pronti alla dittatura e dell'insuccesso dei socialisti democratici può trovarsi espressa nel motto di Cavour: «Con lo stato di assedio qualunque imbecille è in grado di governare.» Sarebbe tutto onore dei socialisti se la differenza stesse nel fatto che essi intendono amministrare la pubblica cosa con il consenso della maggioranza dei «governati» ; mentre i comunisti non esitano a forzare tale consenso (per dire le cose blandamente). In sostanza è quasi la stessa difficoltà, cui si accennava sopra, dicendo che un socialista non immemore dei fondamentali principi e delle origini del movimento di emancipazione proletaria, concepisce l'ordine sia economico sia politico della società come una «integrazione» piuttosto che come una «subordinazione» e coordinazione degli individui, e che per ciò egli è naturalmente disposto a ridurre quanto più gli Bib 10eca 1no 1anco sia possibile il dominio di leggi e istituzioni «rigide» appoggiate su la «paura del gendarme», dei tribunali, delle pene, per estendere la sfera del «diritto sociale»; quest'ultimo distinguendosi dalle forme fisse e tassative dei codici in vigore e relativa giurisprudenza per il fatto che: a) invece di essere emanato formalmente da qualche superiore autorità (lo Stato, la Chiesa), si afferma in un diffuso sentimento di giustizia, di solidarietà, di disciplina v o l o n tari a , da cui è animata una comunità dove i legami fra le persone sono intimi (integrazione reciproca) e non esterni (di coordinazione) ; b) invece di comportare regole e sanzioni astrattamente previste per un caso generico, il «diritto sociale» è una creazione continua, uno sforzo di comprensione e di simpatia nei riguardi di ogni specifica situazione di un dato gruppo o di una data persona; c) invece di obblighi negativi ( «non fare agli altri» ecc.) implica l'esigenza: «Bisogna far e positivamente agli altri ciò che si vuole sia f a t t o a noi.» Abbiamo detto che l'atteggiamento dei socialisti quando si offriva loro la possibilità di assumere la direzione dello Stato, coincideva quasi con un'opposizione del «diritto sociale» alla sovranità dei poteri costituiti, perché in realtà tale contrasto è stato raramente concepito in modo chiaro ed esplicito dagli organi rappresentativi del movimento operaio. I partiti aderenti all'Internazionale socialista hanno accettato responsabilità di governo senza nulla mutare nella struttura dello Stato attuale accentrato (vedi soprattuto l'esperimento della socialdemocrazia tedesca) e nell'esercizio del potere hanno chiesto il consenso ma non 1 ' a t t i v a c o l l a b o r a z i o n e delle masse popolari. Che queste ~sperienze abbiano potuto essere utilissime alle classi lavoratrici o necessarie Lr1 una data congiuntura politica, e che certi insuccessi debbano ascriversi a circostanze soverchianti le buone intenzioni, è una tesi che non intendiaxp..o affatto combattere. Importa solo constatare che l'apparecchio dello Stato moderno capitato nelle mani dei bolscevichi o di fascisti, serve benissimo ai loro fini, trasformandosi rapidamente in Stato totalitario; ma ogni volta che un'occasione si presenta ai socialisti di asaumere la direzione sorgono gravissime contraddizioni fra l'impegno di mantenere l'ordine legale e i tentativi di riforma in senso socialista. La violenza potrebbe risolvere tali contraddizioni, ma l'uso della violenza rovinerebbe la causa del socialismo. 7° Efficienza dello Stato e giustizia sociale Non è U11J paradosso dire che lo Stato attrezzato con tutte le risorse moderne tecniche esige, per essere bene amministrato, una buona dose di «Stato d'assedio». Nell'ultimo decennio varie campagne erano state iniziate (in buona o cattiva fede) dalla grande stampa e da uomini politici di paesi ancora democratici (Francia) per un «governo che governi»; anche le rane, malcontente del re Travicello, esprimevano una simile desiderio. I geni napoleonici sono rari; e pert:hé uomini di media capacità riescano a mantenere in ordine e in efficienza gli innumerevoli complicati e spesso delicati servizi che lo Stato moderno ha monopolizzato, ci vuole la stabilità di una gerarchia rigorosamente graduata di tipo più o meno militare. E sembra pure necessario che il lavoro di questi tecnici non venga disturbato da intrusioni di incompetenti. Ora gli incompetenti sono la maggioranza della nazione che dovrebbe essere sovrana. Il suffragio universale può eleggere e controllare legislatori e magistrati, ma solo pochissimi specialisti sono in grado di valutare e di controllare un tecnico delle finanze, dell'aviazione, degli armamenti in genere, delle ferrovie, delle industrie; e solo chi da vicino lo vede lavorare può avere motivi seri di fiducia e di sfiducia. Un dittatore che sorvegli attentamente i propri collaboratori può sceglierli e sostituirli a ragion veduta; ma né un corpo elettorale, né un parlamento sono capaci di giudicare e anche soltanto conoscere l'opera di uffici, di stati maggiori, di enti economici parastatali ecc. Del resto il segreto è ritenuto indispensabile per molte operazioni, sia nei dicasteri amministrativi, sia nelle grandi imprese industriali, ed una «disinformazione sistematica» coltivata dalla grande stampa, fa si che l'immensa maggioranza del popolo ignori totalmente l'immensa complessività del meccanismo politico ed economico in mezzo al quale vive. L'efficienza dello stato moderno esige dunque una direzione autoritaria che si sottrae ai controlli: in tempo di guerra, quando è richiesto il massimo rendimento dell'organizzazione governativa, sono di regola i pieni poteri di un ristretto gabinetto ( di un dittatore) e la soppressione dei controlli pubblici. Ma, anche senza pretesto di evitare divulgazioni che «gioverebbero al nemico», anche in piena pace, l'efficienza di uno Stato accentrato è in ragione inversa delle libertà accordate alla persona umana e del campo concesso a quello che abbiamo chiamato il «diritto sociale». Queste osservazioni sono fatte non a sostegno di qualche diatriba libertaria o per edificare un'utopia, ma per richiamare l'attenzione dei socialisti su un problema che non è stato riveduto né dal punto di vista della dottrina né agli effetti dell'azione politica dai tempi ormai lontani in cui lo Stato capitalista non era quello di oggi, non si prevedevano le conseguenze di un totalitarismo esteso fino alla gestione «autarchica» dell'economia nazionale, ed era lecito credere definitive le conquiste del suffragio universale, della libertà d'associazione, di stampa, ecc. Probabilmente molti disastri subiti dal socialismo durante gli ultimi vent'anni provengono dal non avere afferrato l'importanza dei nuovi aspetti dell'organizzazione statale e del non averne dedotto opportune conseguenze. Il contrasto fra il partito socialista e tutti i partiti che tendono alla «massima efficienza» dello Stato non è meno profondo che il contrasto fra socialisti e partiti borghesi in merito all'assetto economico della società, ed il contrasto fra socialisti e partiti «nazionali» sulle questioni dei rapporti fra i popoli, dell'espansione coloniale e della pace perpetua. Pretendere di conciliare la massima efficienza dell'apparecchio statale moderno e quindi l'accentramento di mostruosi mezzi di azione nelle mani di un governo, con la massima libertà degli individui e dei gruppi «privati», è una illusione democratico-borghese o una truffa di propagandisti staliniani e di filosofastri dello «Stato etico» cioè fascista. Non per. nulla la dottrina socialista fa coincidere l'avvento di una società «ini cui il libero sviluppo di ciascun individuo sarà condizione del libero sviluppo di tutti» con la morte dello Stato di classe ossia con la sua trasformazione da strument~ di dominazione politica in organo tecnico-pedagogico della società. Questa <i:morte» concepita sin qui meccanicamente ed irrazionalmente come p o s t e r i o r e alla socializzazione dei mezzi produttivi e all'abolizione delle classi e come sbocco di una fase di «dittatura» ( cioè del suo perfetto contrario!), deve oggi - dopo la tragica esperienza russa - concepirsi come un processo di trasformazione s i m u 1 t a n e o ad esse ed operantesi gradualmente, in un'atmosfera piena e continua di democrazia e di libertà. Ricordandosi dunque dell'origine del movimento e dell'etimologia stessa del loro nome, i socialisti non possono trascurare le idee che finora hanno motivato e giustificato le lorò aspirazioni: a) La persona umana, e non un ente collettivo qualsiasi, è il supremo valore ed il fine di ogni sistemazione economica e politica; b) la produzione di beni e tutte le risorse tecniche devono adattarsi al benessere materiale e normale dell'uomo, e ma i l'esistenza umana deve essere asservita a qualche piano di massimo rendimento o di perfezione tecnica; c) la società è infinitamente più vasta che lo Stato che di quella è un prodotto storico, quindi transeunte; molte forme di associazione libera ed attività spontanea (sindacati, cooperative, comuni, enti autonomi, ecc.) devono potere esplicarsi fuori dello Stato ed anche di fronte allo Stato, nel senso di una limitazione e correzione dei poteri coercitivi di cui lo Stato dispone e di un riassorbimento di molte sue funzioni da parte della società (federalismo funzionale); d) per garantire realmente i diritti dell'individuo e delle comunità indipendenti dallo Stato, conviene che queste siano provviste di mezzi di azione e di risorse sufficienti per un'energica resistenza ad eventuali abusi di autorità, e conviene altres( che il potere centrale dello Stato non disponga di mezzi tali da schiacciare le iniziative regolari dei vari gruppi autonomi. Una conclusione sembra lecita : se si vogliono mantenere (o, in molti paesi ora asserviti, risuscitare) la libertà e la democrazia bi- , sogna che «supremo signore della vita economica» sia non lo stato, ma un sistema più complesso; cioè un continuo, vigile, sempre dibattuto e verificato accordo fra lo Stato e le formazioni sociali fuori dello Stato. Sarà una coordinazione condizionata non esente da critiche opposizioni; tale insomma da ricordare ad ognuno che chi vuol essere libero deve ogni giorno conquistare e difendere la propria libertà e che, finché dura la vita, i problemi, le difficoltà, le antimonie non si sopprimono. AVVISO Abbiamo inviato ad un certo numero di persone come saggio una copia del primo numero dell'Avvenire dei Lavoratori. Avvertiamo che a coloro che entro i prossimi quindici giorni non i'nvieranno l'importo dell'abbonamento non manderemo il terzo numero del giornale. Per ragioni tecniche indipendenti dalla nostra volontà il primo numero dell'Avvenire dei Lavoratori esce con alcuni giorni di ritardo. Il 3° numero uscirà venerdì 11 febbraio. L'amministrazione.

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