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Da un vecchio fallito

Pubblicata in Alberto Castelli (a cura di), Il socialismo liberale di Andrea Caffi, in «Storia in Lombardia», Vol. XVI, n. 2, 1996, pp. 129-167

22 luglio [s.d. probabilmente 1935]

Carissimo, grazie per quel che mi mandi. Arrivare a qualche idea chiara mi pare sempre il bene più desiderabile. Temo tuttavia che se la discussione si rifacesse nelle condizioni dell’altra sera, poca speranza vi sarebbe di uscire dal vago, dal troppo soggettivo.

Opportuno potrebbe essere: di sospendere almeno a principio della discussione la pregiudiziale offensiva dell’"utopismo”, "città del sole” ecc...; non fa che provocare risentite risposte come "opportunista”, "filisteismi”.
Allo stesso modo: perché non aspettare un esame delle ragioni, forse non tutte assurde, prima di rimproverarmi d’aver assistito alle vicende del bolscevismo -durante 45 mesi- con sdilinquimenti da donnicciola, ed a questi "attacchi di nervi”, attribuire la mia convinzione sulla gratuità di certe alte qualifiche date ad un sistema ultra-militare e burocratico, su un uso della menzogna e del bluff in proporzioni non minori di quel che lo pratica il fascismo e sugli aspetti davvero non trascurabili di certe piccole "immoralità” (quelle per cui tu ironicamente supponevi che avrei spasimato con grida sentimentali sulla "santità della vita umana”; purtroppo non ho avuto occasione di gettare tali grida né allora né poi, perché giudico che non avrebbero nessun effetto su l’attuale generazione, abituata ad ogni orrore, incapace d’indignazione morale; allora, poiché a ben altro bisognava pensare e se con pazienti demarches e qualche volta vere astuzie mi è riuscito di fare uscire dalle cantine della Ceka una diecina di persone, non riesco a considerare ciò come "isterismo sentimentale”).
Per terminare questo esordio dirò ancora, che ammetto benissimo d’essere trattato come un fallito, come un "pariah” non solo nei riguardi economico-sociali; ma ho udito dire da grandi artisti ed anche da uomini d’azione che essi qualche utile suggerimento l’avevano raccolto proprio da taluno che era un vieux raté. Un po’ di esperienza, un po’ di perspicacia si possono acquistare anche nei naufragi. Ed è per questo motivo che mi permetto di "offrire il mio parere” nella speranza che serva di correttivo nei piani elaborati da persone alle quali di tutto cuore auguro successo.
Se per non rimanere "vago” o "involuto” occorresse chiarire i principii da cui parto nei miei ragionamenti, ecco come cercherei di formularli: 1) una constatazione, che mi sembra dedotta dall’esperienza (di tutto quanto ho veduto davvicino di organizzazione amministrativa, sindacale, politica, militare, diplomatica) è che bisogna sempre chiedersi che cosa diventi l’uomo -la persona concreta in carne, ossa, anima immortale, passaporto- in seguito a qualche "provvedimento generale”; che i "valori collettivi”: nazione, Stato, classe, partito, chiesa nel mondo attuale sono sempre "inumani” perché imbastiti, mantenuti, diretti da "menti energiche”, tecnicamente capacissime di far marciare il gregge umano, ma che mai si sono soffermate a rappresentarsi esattamente la vita (degli individui e degli "ambienti”) che con le loro "misure generali” rimescolano.
Non è sempre stato così: non soltanto Pericle o Gian della Bella conosceva uno per uno i suoi ateniesi o fiorentini, ma anche un despota, un re feudale o militare viveva con la gente a cui direttamente comandava in una comunione di sentimenti, di ritualità, di gusti ed abitudini che oggi non esiste fra organizzatori ed organizzati -il capitalismo naturalmente e l’immensità degli stati centralizzati, la meccanicità dell’urbanesimo dove ciascuno è "solitario nella folla”- e per conseguenza tutta una mentalità che molti credono normale (paragona Ford che "tratta bene” anonimi automi con faccia umana e un antico "imprenditore” che poteva amare o odiare ciascun suo servo; stessa mentalità d’un Lenin per il quale il singolo uomo non aveva interesse che come "strumento” - ma per giunta in un modo tutto diverso da quello in cui per es. Napoleone "utilizzava” gli uomini. Napoleone si attaccava, si appassionava per i suoi collaboratori, si sdegnava delle loro deficienze; Lenin indifferente valutava la "misura d’utilità” e senza rimpianto all’occorrenza sostituiva - magari trovando la stessa "produttività” che prima in un bipede, distribuita fra due o tre; non è differenza di temperamento, è spostamento di valori e di metodi determinato dal meccanismo della vita moderna. Ora questa riduzione dell’uomo a funzione mi sembra la grande calamità della nostra epoca. Dal momento in cui ho aderito al socialismo (dunque 30 anni fa) non ho mai cessato di concepire il socialismo, la rivoluzione sociale e le "riforme” in senso socialista altrimenti che come una recisa liberazione del "contenuto umano” da questo ingranaggio di "gerarchie” illusorie (insisto ancora una volta non erano illusori Dio, il re "beneamato”, "la patria” sia che fosse cinta da visibili mura sia che ciascuno la sentisse sua perché «al di là del confine non vi sono uomini ma esseri incomprensibili»; la guerra e il fascismo ci hanno dimostrato quanto sia oggi artificiale, spudoratamente menzognero volersi richiamare a simili "valori”; ultimo valore collettivo «sentito» davvero sembrava «la classe», ma effettivamente solo quella proletaria - "sentita” in uno sciopero, in una fondazione di trade-union, in una rischiosa manifestazione il 1° maggio - cioè quando ciascuno doveva mobilitare il proprio entusiasmo ed affrontare immediate responsabilità. Temo che il burocratismo socialdemocratico prima, lo statalismo bolscevico molto più efficacemente poi, abbiano tolto alla coscienza di classe la sua spontaneità. Inoltre tutta l’evoluzione economica moderna tende allo stesso tempo a differenziare il "proletariato” ed a rendere incerti i confini fra esso ed altre "classi”. Quindi il socialismo deve trovare un altro "concetto ideale”. Non temo d’affermare che potrebbe essere soltanto l’«uomo vivente», il "tu” con il quale "io” - invece di allontanarlo nella categoria straniante del "lui” - anelo a fondermi in un affettivo "noi” (perdona questo ghiribizzo grammaticale, ma il pensiero mi sembra chiaro). Non mi si dica che ciò è un truismo, una piatta massima che "non impegna a nulla”. E’ proprio in funzione dell’uomo immaginato, compreso (possibilmente) e quindi amato come un "me stesso” che mi sembra ragionevole considerare ogni istituzione umana, ogni regime economico e politico (forse con strane conseguenze: di trovare più significato e giustizia in una casa abissina con schiavi affezionati al padrone che nel palazzo di Rothschild, dove ugualmente ignobili e "lupi l’uno per l’altro” sono il padrone umanitario ed i [?] con redditi da ministri); mi sembra questo che ho detto l’unica base seria del pacifismo, della democrazia (che non sia di pura forma) d’ogni esperimento cooperativistico. Un momento! non alzare sdegnosamente le spalle, profferendo: tolstoismo, gandhismo, ecc. -anche nelle leggi, nel funzionamento di uffici uno spirito "umano” può introdursi (di solito quando vi entrava finora si è parlato di disordine e di rilassatezza o si è ammirato con estetismo superficiale certa "saggezza orientale”)- naturalmente non basta (benché sia importante) l’indole di colui che applica le leggi, fa funzionare l’ufficio: non vedo proprio come uno stato maggiore, una questura, un ufficio di pubblicità potrebbero non essere inumani; come una scuola con programma fisso, con l’insegnante stanco, carico di cure familiari, costretto ad adulare i suoi superiori per non perdere il posto possa risolversi in altro che avvilimento di valori umani; una giuria può mostrarsi umana con un "assassino passionale”, ma in un processo di divorzio in Inghilterra l’elemento d’"umanità” è escluso fin da principio perché tutto è predisposto per scandalose speculazioni. Dunque le istituzioni possono più o meno convenire, più o meno ostacolare, bisogna avere un criterio per preferire certune alle altre, riformare, abrogare, creare anche nel campo dello Stato e soprattutto in quello del diritto; quasi tutto il programma di Giust. e lib. mi è parso da questo punto di vista accettabile, soprattutto perché vi vedevo pure l’intenzione ben esplicita di segnare un "punto di partenza”, non un punto d’arrivo, un "ideale equilibrio” (proprio questo "equilibrio” o "normale assetto” a me, qualificato "utopista”, profondamente mi ripugna: sia la perfezione meccanica del comunismo, sia «lo stato felice dell’umanità sotto Marco Aurelio») - Ma l’attività politica e tutto quel che ne deriva costituiscono appena un settore della "vita sociale”, e questa non è che uno fra quegli aspetti della "vita umana”. L’attività politica è molto depauperata di "contenuto spirituale” da quando s’è distaccata dalla religione, dalla "osservanza del buon costume”, ecc. (aridità, vuoto morale dell’impero romano in confronto della polis, dello stato napoleonico paragonato alla vecchia monarchia, del "cretinismo parlamentare” rispetto ai covenants di credenti). Un movimento che possa destare un serio interesse nelle coscienze, deve subordinare la politica a certi valori spirituali più vasti, ed inquadrare l’azione politica in una complessa visione di azione sociale (educazione, economia, costumi); all’assenza di tale inquadramento e di tale subordinazione ho creduto di dovere attribuire la sterilità e i risultati negativi d’un buon numero di "azioni” che ho osservato durante gli ultimi trent’anni. Per quanto ingenuo (o banale) sembri il mio richiamo alla considerazione dell’uomo in carne e ossa, dell’"uomo mio fratello”, dell’uomo sempre superiore ad ogni regola o istituzione, vi è -mi pare sinceramente- l’embrione d’una vera religione; la quale come ogni religione non sarà mai rigorosamente osservata in tutti gli istanti della vita pubblica e privata che da pochi; ma il loro esempio e apostolato potrà fruttare, modificare l’opinione pubblica, stabilire nuovi criteri, penetrare nella "comune mentalità” nelle abitudini sociali. Ogni relazione comporta, ben inteso, una mistica e una metafisica; mi sembra di avere trovato elementi, sufficienti per me, nella tradizione umanistica - in Platone, in Fichte, in Simmel, nella "scuola fenomenologica”, nelle memorie del socialismo eroico, negli stati d’animo e nelle generose aspirazioni dell’arte del XIX s., ecc. Ma certo sarebbe augurabile che sorgesse qualche genio per darci una nuova, più esplicita e più sintetica espressione di tale fede. Questa però deve già essere fattiva prima. Ho tanto il sentimento d’essere disprezzato a priori come "utopista”, ecc. che mi dilungo e mi ripeto; ma proprio queste idee che ispiravano il nostro gruppo della Jeune Europe (sorto nel 1912 e quasi tutto perito verso il 1916-17) non mi sembrano smentite da quel che seguì - anzi rafforzate, chiarite dall’esperienza (sul "pacifismo assoluto” non potevamo avere una convinzione così chiara come dopo l’esperienza del massacro; che il comunismo potesse attuarsi come "caserma” e "prigione” ci pareva come una esagerazione di laici malevoli). Che io non sia il più degno di rappresentare tali idee, è un’altra questione. [...]
2) Un altro "motivo dominante” della mia scemenza utopistica mi viene dall’essermi occupato di studi storici. Perché la rivoluzione del 1789 fu, nonostante i tragici intrecci, un radioso, durevole trionfo, mentre i moti europei del 1848 terminavano nei disastri e nella vergogna (di questo è prova il tono in cui tu pronunci "quarantottesco”)?
Fatta astrazione di tutte le minuzie della storia economica e delle "situazioni” strategiche, ecc. (che rendono sempre incomparabili due epoche) una certa "misura comune” mi è sembrata possibile anche per l’estensione dei confronti a diversi altri grossi momenti della storia europea (l’Olanda nel 1586 e la Boemia nel 1620, la Francia nel 1615 e l’Inghilterra nel 1642, l’ascensione prodigiosa che comincia nel XI sec. e la impressionante decadenza sociale che s’afferma nella seconda metà del XIII, ecc., ecc.). Perché un movimento nel quale si congiungono lo slancio di masse con il fervore di "pensiero critico” raggiunga un risultato positivo cioè un grande acceleramento nella liberazione della vita sociale, da forme ed istituti che la strozzavano, e nello spostamento dei ceti governanti la società occorrono: a) un linguaggio comune fra l’"uomo nella strada” ed il "rappresentante dell’avanguardia intellettuale”; b) un movimento, in cui la "dottrina rinnovatrice” sia nel suo grado di piena efficienza: cioè corrisponda al massimo di "coltura” possibile in quella data epoca e perciò sia completamente "presa per vera”, senza scetticismo o sforzo di senile cocciutaggine dogmatica, dai migliori, dai piu dinamici, giovani spiriti dell’epoca. La rivoluzione del 1789 proclamava ed attuava quel che i più forti spiriti dell’epoca affermavano, coincideva con la suprema ragione (Kant) e con il primo romanticismo (Rousseau ed anche il giovane Schlegel, ecc.) - allo stesso tempo il suo "razionalismo” e "sentimentalismo” (amore dell’umanità, uguaglianza degli uomini, "natura” contro ogni tradizione) erano penetrati in larghissimi strati fino al popolo. Nel 1848 le "idee-forza” del movimento erano già appassite, istecchite, avevano avuto il loro momento di splendore attorno al 1830; il romanticismo era già logoro, semi screditato, Mazzini era già irrigidito nel dogma, Lamartine "posava” con un miscuglio di concetti imprecisi nel cervello; fra i "begriffi” hegeliani, le intricate contrazioni d’un democratismo nazionalista (come quello dei "germanisti” prevalenti a Francoforte) e la mentalità delle masse non v’era affiatamento; mentre un grandissimo intelletto come Condorcet - era pienamente nella "linea del 1789”, tanto Proudhon che Marx si trovavano "in margine” al 1848 - lo criticarono acerbamente non trovando nulla a che collaborare con sincero entusiasmo; la vera scienza, la vera arte erano già al di là dello "spirito quarantottesco” (mentre nel 1789 un Schiller o un David erano tanto consoni all’epoca). Non dico che questo "passatismo” dei capi del moto rivoluzionario sia stato "la causa dell’insuccesso”, ma sostengo che ciò era il sintomo "inequivocabile”, che v’era poca speranza di vedere il movimento giungere a conquiste veramente fruttuose. Ora il socialismo moderno (marxista) ha avuto la sua epoca di apogeo tra il 1890 ed il 1900, tra il 1905 ed il 1910 il socialismo ha cessato di attirare a sé le migliori forze intellettuali, e nei circoli dirigenti delle varie socialdemocrazie si notò un livello di spiritualità sempre più inferiore a quello delle rispettive "avanguardie” (ma queste - ed è una importantissima osservazione - fino al 1914 tentennarono nella ricerca affannosa, già resa "isterica” dal misterioso presentimento di catastrofi, di salde "verità nuove” e furono - le "avanguardie” - inghiottite dalla guerra prima di avere veramente trovato; dal 1918 al 1930 nuotarono rottami alla superficie del mare ancora agitato, nessuno navigò con vele dispiegate e bussola ben regolata).
Verso il 1915 il propagarsi spontaneo di scioperi generali (Italia, Austria-Ungheria), il sindacalismo con la Charte d’Amiens, la stessa rivoluzione russa mostrarono che il socialismo (o "nuova democrazia”) doveva decidersi: lanciarsi in un vasto movimento d’insurrezione, o, riconoscendo d’avere «spianato il terreno a utili riforme», senz’altro associarsi ai "partiti di governo”; diventare governativo dappertutto ove vi fosse la minima possibilità (Francia, Belgio, Italia, Inghilterra); nell’un caso come nell’altro si sarebbe probabilmente evitata la guerra. Nessuna sezione dell’Internazionale seppe mostrare iniziativa; le direttive dettate dalla particolare situazione della socialdemocrazia tedesca (e da una molto "filistea” interpretazione di tale situazione) prevalsero, fecero perdere l’occasione. Nel 1918 in Germania è giunta al potere una socialdemocrazia già sciupata, poco atta a "vibrare” con la gioventù e con le masse, disprezzata (non sempre a torto) dagli "spiriti audaci”. Nel 1903-1905 Lenin ed i suoi compagni figuravano ancora fra quel che di più "eletto” v’era nella "intellighenzia” russa. Siccome nella prima rivoluzione del 1905-1907 essi si sono battuti bene, hanno conservato un certo prestigio come "uomini d’azione”; ma non è negabile che tutta la "vita della coltura” fra il 1907 e il 1914, molto febbrile in Russia, ha distanziato il livello a cui s’erano fermati i socialdemocratici. Senza la guerra, dal primo caotico momento di "nuove correnti” si sarebbe sviluppata quella più poderosa che avrebbe espresso realmente le "migliori aspirazioni” della società russa e meglio avrebbe saputo affiatarsi con la "psicologia delle masse”. Anche qui: massacro della generazione promettente. Ma in più la rivoluzione nata dal disastro della guerra, per ciechi eventi. Alla testa si sono trovati gli "uomini del sotterraneo” che rappresentavano un momento già trapassato dell’"attualità spirituale”, che anche presi uno per uno si possono dimostrare istecchiti nei preconcetti e nei rancori del 1907; tutta la serietà della fede con cui questi uomini hanno agito, tutta la meravigliosa abilità di "manovratore politico”, di cui ha dato prova Lenin non possono cancellare questo fatto: il bolscevismo per trionfare ha dovuto schiacciare la coltura superiore in Russia, ha violentato le spontanee aspirazioni (quindi distrutto molte vitali energie) nel popolo, rappresenta una mentalità di tipo inferiore perché irrigidita, incomprensiva di quanto è stato "inventato” nel regno dello spirito dopo il 1905.
Siccome nel fascismo e hitlerismo io vedo non un assurdo scherzo della storia, ma l’espressione fedele del "caos” spirituale ingenerato in parte dalle "ansiose prime ricerche” d’una nuova via, bruscamente troncate nel 1914, in parte dalle vicissitudini della guerra stessa, gli attribuisco -malgrado tutto- una superiorità di "grado vitale” sulle «ideologie congelate» (per quanto queste possano apparire più nobili, più vicine all’"eterna verita”, ecc.; ma nella vita un asino vivo ha sempre avuto la precedenza sul leone impagliato). E tu sai come sempre abbia insistito sul carattere «lungo ed arduo» della lotta contro questo prodotto legittimo (la schiuma lo è pure su un liquido torbido) dell’era nostra.
Per rimettere a posto a world out of joint è necessario che prenda consistenza una ideologia ben rappresentata da vere élites e abbastanza penetrata in larghi strati - veramente degna di un momento supremo della storia universale. Quindi enorme sforzo di pensiero critico, indispensabile creazione, apostolato, esempi eroici, quali li suscita la vera fede (parlo non di "gesta eroiche”, che naturalmente hanno il loro valore, ma dell’eroismo di una vita intera). Quel che mi resta di vita non lo dedicherei ad altro che alla liberazione dell’Europa 1) dalle incrostazioni mortifere d’anteguerra 2) dalla schiuma obbrobriosa della guerra. Credo che le due cose debbano essere distrutte assieme perché l’una vive dell’altra; la falsa democrazia, la plutocrazia, la dittatura comunista, la dittatura fascista si alimentano a vicenda, offrendo l’una all’altra pretesti di «rendersi necessarie o desiderabili». La mia "utopia” è che questo compito sia dei più vasti e più rischiosi che si possano immaginare. Altrimenti si può trastullarsi con avventure; con un po’ di fortuna si può riuscire a metter su un’altra repubblica spagnuola; ma mi domando proprio se valga la pena. Cioè no: sarà una nuova complicazione del problema, forse una variazione interessante - ma «volere con tutto l’animo» si può soltanto la risoluzione del problema centrale stesso.
3) Il mio terzo principio l’ho attinto dalla lettura di Erodoto che ai giovani persiani si insegnava soprattutto di «dire sempre la verità». M’è sembrato che l’esperienza della vita confermasse la bontà di tale precetto - e che la furbizia "politica” avesse sempre "le gambe corte”. Se si è potuto augurare che "da persone oneste” si comportassero gli Stati perché non fare lo stesso augurio per i partiti politici? Può essere qualche volta incomodo e qualche volta ridicolo. Ma pure il ridicolo è sempre stato impavidamente affrontato dagli apostoli d’un movimento veramente grande. «Dire tutta la verità, e nient’altro che la verità». Ciò implicherebbe il precetto di dire soltanto quello che veramente penso, non potrò naturalmente rivolgermi agli ufficiali perché mi aiutino a rovesciare Mussolini: la prima cosa che dovrei dire è che considero il mestiere stesso di ufficiale pochissimo diverso da quello di gangster o assassino professionale. Capisco quanto tutto ciò sia "utopistico”, dunque insensato. Ma organicamente non mi è più possibile trovare qualche gusto al jeu de dupes, e non credo alla santità d’una causa con tali espedienti sostenuta. Suppongo che nel popolo e nella gioventù molta "avversione per la politica” derivi dal convincimento che «la politica non si fa mai senza inganno».
Ecco, caro amico, come mi sono orrendamente dilungato a spiegare il mio punto di vista. Non so proprio se avrai avuto la pazienza di leggermi; ma almeno dopo tale fatica non dovrebbero sussistere equivoci.
Ti auguro un buon riposo sulla sabbia al sole e tutti i successi possibili alla Tua indomabile energia Tuo
Andrea Caffi
P.S. Ho riletto attentamente l’articolo Battistelli e trovo che è saldo, anzi buono. Si potrebbe discutere su quella "omogeneità” politica sociale che egli crede necessaria per gli Stati Uniti d’Europa.

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