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Luigi Einaudi

Un pregiudizio sulle origini della guerra

Tratto da «L'Unità», anno IV, n. 1, gennaio 1915

Vi sono sapienti, i quali, indugiandosi a ricercare le cause economiche della odierna guerra europea -indagine perfettamente legittima, quando la si compia modestamente persuasi di andare alla scoperta di una parte sola, di una parvenza, forse fuggevole, della complessa verità- affermano senz’altro, che essa fu determinata dal bisogno dell’Inghilterra di impedire il crescere rigoglioso dei rivali tedeschi nelle industrie e nei traffici o della Germania di elevare viemmaggiormente la propria fortuna economica sulla rovina dell’economia britannica.
Quelli che così discorrono partono, necessariamente, sebbene inconsapevolmente, da una premessa: che gli industriali ed i commercianti dei due paesi avversari siano capaci di ragionare intorno alla utilità ed alla possibilità di conseguire il fine propostosi, che essi sappiano fare i loro conti intorno ai costi e ai profitti dell’opera desiderata di distruzione dell’economia avversaria e finalmente che essi sappiano distinguere fra effetti immediati ed effetti remoti delle proprie azioni.
Queste son premesse necessarie, ove non vogliasi ammettere che i moventi bellici di distruzione delle economie inglesi o tedesche fossero peculiari a coloro che non sanno fare ragionamenti economici, che non partecipano alla direzione delle imprese industriali e commerciali ed attendono a scrivere spropositi su per le gazzette quotidiane, allo scopo di solleticare le passioni e le ingordigie delle folle analfabete. Può darsi ed è anzi probabile che così sia: che cioè gli unici ad immaginare la convenienza e la possibilità di distruggere, colla guerra, le industrie ed i commerci dei paesi avversari siano precisamente stati coloro che non furono mai a capo di intraprese economiche, che coi teoremi economici ebbero mai sempre scarsissima famigliarità, che conobbero unicamente l’industria dello scrivere articoli desiderati e pregiati per la rispondenza momentanea alle mille e mille passioni, nobili e sordide, elevate e basse, ideali e materiali, tumultuanti nel cuore degli uomini. Ma è chiaro che così non si scrive la teoria delle cause economiche della guerra; sibbene dalle mille e mille passioni, chiare ed oscure, consapute e subcoscienti le quali concorsero a determinare lo scoppio della guerra e ad acuire le quali può aver contribuito la idea, circonfusa di vaga nebbia, che la distruzione della economia avversaria fosse economicamente utile e possibile.
In verità, la guerra odierna ancora una volta ha dimostrato che gli uomini sono mossi ad agire da idee, da sentimenti, da passioni, non certo da ragionamenti economici puri. Perché ben si sapeva e lo sapevano gli inglesi ed i tedeschi più colti delle classi industriali, bancarie e commerciali che essi non avevano nulla da guadagnare da una distruzione rapida delle economie rivali, quale poteva essere prodotta dalla guerra, che la guerra non avrebbe tolto le ragioni profonde le quali avevano prodotto la grandezza economica del rivale e che il mezzo più economico e più efficace per giungere alle desiderate conquiste era il continuo perfezionamento di se stessi e la sperata spontanea decadenza dell’avversario.
Sapevano i tedeschi:
-che le cagioni della propria mirabile ascensione economica erano riposte nella ricchezza del proprio sottosuolo, nella conformazione del proprio territorio tutto intersecato da vie d’acqua navigabili, e sovratutto nel proprio sforzo perseverante, organizzato, fornito di tutti i sussidi più moderni della scienza, sforzo che strappa grida di ammirazione, quando se ne leggono i fasti nei libri degli inglesi e dei francesi, additanti ai propri connazionali l’esempio di tanta energia feconda;
-che essi, per crescere vieppiù, avevano bisogno di vendere maggiormente i prodotti delle proprie industrie agli stranieri ed avevano necessità perciò di avere attorno a sé popoli ricchi, laboriosi, non impoveriti da guerre o costretti a disperdere le proprie energie in continui sforzi di rivolta contro il dominio straniero;
-che in particolar modo avevano bisogno del mercato britannico, metropolitano e coloniale, il più vasto, il più ricco mercato del mondo, l’unico aperto agevolmente a tutte le provenienze;
-che essi avevano d’uopo di non rinfocolare con una guerra, il cui esito era perlomeno incerto, in Inghilterra e nelle colonie quel sentimento di ostilità verso lo straniero, che finora aveva soltanto prodotto in alcune colonie alcuni timidi ed inefficaci saggi di dazi preferenziali contro i prodotti esteri ed aveva contro di sé, quasi invincibile, il solido buon senso delle masse britanniche;
-che una guerra anche fortunata avrebbe costato tali e così colossali sacrifici, avrebbe prodotto tale arresto nella vita economica della Germania da mettere grandemente in dubbio la possibilità di trovare un adeguato compenso in un futuro anche lontano dall’impossessarsi, ancora più incerto, di colonie che l’Inghilterra conserva solo perché non ne trae alcun tributo né diretto né indiretto -neppure l’India paga alcun tributo alla madre patria, neanche sotto forma di dazi preferenziali- e verso cui la Germania sarebbe stata incapace, per l’inaridimento oramai ventennale delle sue correnti emigratorie, di inviare fiotti di emigranti atti a sommergere il fondo britannico della popolazione.
Sapevano d’altro canto gli inglesi:
-che l’ascensione economica germanica non aveva tolto ad essi alcun mercato; anzi ne aveva cresciuto uno, quello germanico, prima povero ed oggi crescente di ricchezza e di capacità di assorbimento;
-che mai fortuna maggiore all’industria inglese era capitata della cosiddetta invasione del made in Germany nella loro isola, nelle loro colonie e nei mercati prima monopolizzati dall’Inghilterra. Prima che l’invasione del made in Germany fosse avvertita e si gridasse all’allarme contro la rovina dell’industria inglese, questa decadeva sul serio. Si era addormentata sugli allori. I capi tecnici inglesi più non studiavano. Forse non avevano mai studiato a fondo i principii della scienza tecnica; ed era poco male finché l’abilità pratica serviva a tutto. Divenne un pericolo gravissimo quando i tedeschi dimostrarono al mondo quali vittorie meravigliose si possono conseguire con le applicazioni industriali dei principii teorici. Quando gli inglesi scopersero che essi decadevano e che i tedeschi crescevano, vi fu chi predicò il verbo decadente della muraglia cinese, consigliando di circondare il proprio paese e le proprie colonie di dazi protettori, per impedire colla forza alle merci tedesche di invadere il mercato britannico. Ma, per fortuna dell’Inghilterra, la parola di Chamberlain fu ascoltata solo in quanto essa era maschia ed incitatrice, non in quanto avrebbe finito per addormentare. Gli inglesi videro che colla forza non si conservano le ricchezze e la potenza, che furono create dal lavoro, dallo sforzo; e memori di ciò che essi avevano saputo compiere in passato, fondarono scuole tecniche, istituirono facoltà di commercio, si persuasero che un culto maggiore della scienza avrebbe giovato anche ai loro industriali troppo invecchiati nelle pratiche isolane.
Dopo l’espansione grandiosa che dal 1855-59 al 1870-74 portò le importazioni lorde da 169 a 346 milioni di sterline, le importazioni nette da 146 a 291 e le esportazioni da 116 a 235, era parso si verificasse davvero una stasi nell’economia britannica. Limitandoci soltanto alle importazioni al netto delle riesportazioni ed alle esportazioni di prodotti britannici, gli statisti, gli economisti, gli industriali britannici avevano osservato con melanconia che, mentre la Germania progrediva vertiginosamente, l’Inghilterra rimaneva stazionaria, anzi regrediva, dopo l’acme raggiunto nel 1873. Le due cifre estreme sono date dai quinquenni 1870-74 e 1895-99. Le importazioni nette erano appena cresciute da 291 a 393 milioni di lire sterline e da L. 9.2.4 a L. 9.16.4 per abitante; e, se le esportazioni erano cresciute di una quantità minima in cifre assolute da 235 a 239 milioni di lire sterline, erano però diminuite relativamente da L. 7.7.3 a L. 5.19.10 per abitante. In questo regresso aveva parte il gioco dei prezzi calanti nell’ultimo quarto del secolo XIX, ma restava sempre un nucleo solido di verità amara e sconfortante.
Fu quello il momento psicologico dell’imperialismo chamberlainiano; il quale predicò la necessità di chiudere l’impero all’invasione dei prodotti stranieri, principalmente tedeschi, e di trovare nella coltivazione intensiva ed esclusiva del proprio giardino un compenso alle perdite subite sui contrastati mercati del mondo esteriore.
L’attuazione della parola imperialistica sarebbe stata l’inizio della dissoluzione ed avrebbe giustificato le rampogne acerbe degli scrittori tedeschi, i quali rimproverano all’impero inglese di essere sorto e di conservarsi con la menzogna, con la frode e con la maschera vuota di una forza che interiormente non esiste. L’impero aveva ed ha ancora in se stesso le ragioni della sua vita; e ne è prova il fatto che la parola dello Chamberlain, non ascoltata in quanto predicava il vincolismo mortifero delle tariffe doganali, scosse, eccitò, fece riflettere e spinse all’azione le dormienti forze britanniche. Quante volte i sogni degli uomini rappresentativi si avverano in un modo diverso da quello che essi avevano immaginato!
Il principio del secolo ventesimo segna una ripresa nel commercio internazionale inglese. Le importazioni nette, da 393 milioni di lire sterline nel 1895-99 salgono in cifre assolute a 466 nel 1900-904, a 522 nel 1905-909 ed a 659 nel 1913, mentre passano -cito solo le cifre estreme- da L. 9.16.4 per abitante nel 1895-99 a L. 14.6.5 nel 1913. Le esportazioni, rimaste per un quarto di secolo stazionarie in cifre assolute, da 239 milioni nel 1895-99 salgono a 290 nel 1900-904, balzano a 377 nel 1905-909, e si portano a 525 nel 1913, mentre in cifre relative i due estremi sono L. 5.19.10 per abitante nel 1895-99 e L. 11.8.2 nel 1913. Anche qui influisce, come del resto in tutti i paesi del mondo, il gioco dei prezzi crescenti dopo il 1894-95; ma quanto innegabile fervore di rinnovata giovinezza e di nuovo slancio industriale!
Ora, è indubbio che di questo risveglio gli inglesi sono debitori in gran parte al pungolo della concorrenza tedesca. Se la Germania non avesse minacciato davvicino la loro supremazia industriale, se anzi in molti campi essa non si fosse indubitatamente messa alla testa di tutti i paesi del mondo, gli inglesi potrebbero ancora vantarsi di essere i primi. Ma sarebbe ben misero vanto, conservato a prezzo della propria decadenza.
Come si può affermare che gli uomini rappresentativi dei due paesi, dotati di vigor di pensiero e di azione, potessero sul serio pensare di avvantaggiare il proprio paese, costruendo, sulle rovine di una guerra, un monopolio tedesco od un monopolio britannico? Che in questa guisa si raggiunga la ricchezza e la forza lasciamolo pensare agli scribi della stampa gialla, moltiplicatisi in guisa abbominevole anche a Londra ed a Berlino; che la cupidigia cieca di arricchirsi spogliando e rovinando e dominando altrui sia stato uno degli argomenti a cui i ceti dirigenti credettero opportuno di ricorrere per rendere simpatica alle folle incapaci di ragionare una volontà di guerra che già preesisteva in essi per altre ragioni, forse sbagliate, ma in ogni caso ben diverse ed, in molti uomini, più ideali ed elevate, è facile ammettere; che la diffusione di una letteratura libellistica di quart’ordine, pullulante di sofismi economici le mille volte confutati, di statistiche artefatte, di incitamenti grossolani ad arricchirsi sulle spoglie altrui sia stata un’arte di governo usata per rendere popolare una causa a menti incapaci di comprendere le giustificazioni -reali od immaginarie che queste fossero- più profonde e più umane, si può riconoscere. Ma che da questi miseri argomenti siano state indirizzate sulla via della guerra due grandi nazioni, le cui classi dirigenti si formarono pure alla scuola dei maggiori pensatori che il mondo odierno ammiri, è un assurdo inconcepibile.

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