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Albert Camus

L'ospizio degli invalidi

Tratto da «Tempo presente», n. 11, novembre 1964

I giovedì, quando non si era puniti, e le domeniche, si dedicava la mattinata alle compere e alle faccende domestiche. Il pomeriggio, Pierre e Jacques potevano uscire assieme. Nella bella stagione c’era la spiaggia delle Sablettes, oppure la piazza d’armi, vasto terreno sterrato, dove c’era un campo di football rozzamente delimitato, con numerose corsie per giocatori di bocce. Vi si poteva giocare a football, il più delle volte con un pallone di stracci e squadre di marmocchi arabi e francesi, che si formavano sul posto.
Ma il resto dell’anno i due bambini si recavano nell’Ospizio degli Invalidi di Kouba, dove la madre di Pierre, dopo aver lasciato l’impiego alle poste, era capo guardarobiera. Kouba era il nome d’una collina a oriente di Algeri, a un capolinea tramviario; qui, invero, la città finiva e cominciava la mite campagna di Sahel, con i suoi dolci colli, le acque relativamente abbondanti, i prati quasi lussureggianti, i campi di terra rossa e invitante, scanditi in distanza da tronchi di alti cipressi o da canneti. Vigneti, alberi da frutto, granturco vi crescevano ubertosi, senza gran fatica. Per chi veniva dalla città e dai suoi quartieri bassi, umidi e caldi, l’aria sembrava tanto più viva, e la si considerava salubre. Per gli algerini, i quali non appena possedevano qualche soldo o una piccola rendita d’estate scappavano da Algeri e se ne andavano in Francia, dove il clima è più temperato, bastava che in una località qualsiasi si respirasse un’aria un po’ più fresca per battezzarla aria di Francia. E così, a Kouba si respirava aria di Francia.
L’Ospizio degli Invalidi, creato poco dopo la guerra per i mutilati in pensione, si trovava a cinque minuti dal capolinea. Era un vecchio convento, vasto, dall’architettura complicata, dai molteplici ingressi sotto ali aggiunte, dalle grosse mura imbiancate a calce, porticati e ampie sale fresche con soffitti a volta. In esse erano stati collocati i refettori e i servizi. In una di queste sale si trovava il guardaroba diretto dalla signora Marlon, la madre di Pierre. Tra l’odore di ferri caldi e di biancheria umida, affiancata da due lavoranti, una araba e l’altra francese, ella si occupava per prima cosa dei bambini, dava loro un pezzo di pane e cioccolato ciascuno e poi, rimboccandosi le maniche sulle belle braccia floride e robuste, diceva: «Mettetevi questo in tasca per le quattro e andate in giardino, che io ho da fare».
I bambini incominciavano con le corse per i porticati e i cortili interni; il più delle volte consumavano la merenda immediatamente per sbarazzarsi del pane, che non sapevano dove mettere, e del cioccolato, che si fondeva tra le dita. S’imbattevano nei mutilati, chi senza un braccio e chi senza una gamba, e chi sistemato su una carrozzella a ruote di bicicletta; non vi erano né sfigurati né ciechi: soltanto mutilati, vestiti con proprietà, spesso decorati. La manica della camicia o della giacca, o la gamba del pantalone, era ripiegata con cura e fermata attorno al moncherino invisibile con una spilla di sicurezza: non era orribile. Ce n’erano molti, e i bambini, passata la sorpresa del primo giorno, li consideravano alla stessa stregua di tutto ciò che scoprivano di nuovo e che subito incorporavano nell’ordine naturale delle cose. La signora Marlon aveva spiegato loro che quegli uomini avevano perduto un braccio o una gamba in guerra, e la guerra faceva parte integrante del loro universo, non sentivano parlar d’altro. La guerra aveva influito su tante cose attorno a loro che non stentavano affatto a capire che ci si potesse perdere un braccio o una gamba, e che anzi la si potesse addirittura definire come un’epoca della vita durante la quale si perdono le gambe e le braccia. Quindi quell’universo di storpi non era affatto triste, per loro: alcuni erano cupi e taciturni, è vero, ma la maggior parte erano giovani, sorridenti, e scherzavano persino sulla propria infermità. Ce n’era uno biondo, con un faccione quadrato, pieno di salute, che si vedeva spesso in giro nel guardaroba: «M’è rimasta una gamba sola -diceva ai due bambini- ma a darvi un calcio nel sedere ci riesco benissimo» e, appoggiandosi con la mano destra sul bastone e con la sinistra sul parapetto della galleria, si drizzava e lanciava il suo unico piede nella loro direzione. I bambini ridevano insieme a lui, poi se la davano a gambe: pareva loro normale d’essere i soli a poter correre o a servirsi delle due braccia. Una volta però che giocando a football Jacques s’era storto un piede e aveva trascinato la gamba per qualche giorno, fu colpito dal pensiero che gli invalidi del giovedì si trovavano per esempio nell’impossibilità di correre, prendere un tram in movimento o colpire una palla. Allora gli apparve tutt’a un tratto il miracolo della macchina umana e, al tempo stesso, lo colse un’angoscia cieca al pensiero che avrebbe potuto esser mutilato anche lui. Poi, la cosa gli passò di mente.
I bambini passavano accanto ai refettori dalle persiane semichiuse, dove le grandi tavole, tutte rivestite di zinco, luccicavano debolmente nella penombra; poi, alle cucine, dai recipienti enormi, caldaie, pentole, da cui esalava un odore persistente di grasso fritto. Nell’ala estrema, scorgevano le camere a due o tre letti con le coperte grigie, e gli armadi di legno bianco. Infine, per una scala esterna, scendevano in giardino.
Tutt’intorno all’Ospizio degli Invalidi si stendeva un gran parco quasi interamente abbandonato. Alcuni invalidi s’erano assunti il compito di coltivare cespugli di rose e aiuole di fiori, nonché un orticello, cinto da grandi siepi di canne verdi; ma più in là il parco, che in altri tempi era stato magnifico, era incolto. Eucalipti immensi, palme regali, alberi di cocco, tronchi di ficus colossali, i cui rami bassi mettevano radici più lontano, creando un labirinto vegetale denso d’ombra e di mistero, cipressi folti e compatti, aranci vigorosi, boschetti di oleandri rosa e bianchi straordinariamente sviluppati dominavano viali semicancellati dove l’argilla aveva inghiottito la ghiaia e il tracciato veniva corroso da un groviglio odoroso di lillà, gelsomini, passiflora, clematide, caprifoglio in cespugli, invasi a loro volta da un rigoglioso tappeto di trifoglio, di acetosella e di erbe selvatiche. Passeggiare in quella giungla profumata, arrampicarvisi, nascondervisi col naso al livello dell’erba, aprirsi il varco a colpi di coltello nell’intrico dei rami, uscirne infine con le gambe zebrate e il viso stillante d’acqua, era inebriante.
Altra occupazione che riempiva gran parte del pomeriggio era la confezione di terribili veleni. Sotto una vecchia panca di pietra addossata a un muro coperto di vite selvatica i bambini avevano accumulato tutto un armamentario di tubetti d’aspirina, boccette di medicinali, vecchi calamai, cocci rotti, tazze sbeccate, che costituiva il loro laboratorio. Là, sperduti nel più fitto del parco, a riparo dagli sguardi, preparavano i loro filtri misteriosi. L’oleandro rosa ne era la base, semplicemente perché avevano spesso sentito dire che la sua ombra era malefica e che l’imprudente il quale si fosse addormentato ai suoi piedi non si sarebbe mai più svegliato. Le foglie dell’oleandro e il fiore, quando era la stagione, venivano dunque lungamente macinati, tra due pietre, fino a farne una poltiglia maligna, il cui solo aspetto prometteva una morte orribile. Lasciata all’aria aperta, questa poltiglia assumeva subito iridescenze particolarmente terribili; nel frattempo, uno dei bambini andava di corsa a riempire d’acqua una vecchia bottiglia. Poi venivano macinate le bacche dei cipressi, le cui doti malefiche apparivano certe ai bambini per l’incerto motivo che il cipresso è l’albero dei cimiteri. Le raccoglievano sull’albero, non a terra dove, ormai secche, asciutte e sode, avevano un irritante aspetto di salute. Mescolavano in una vecchia tazza le due poltiglie, le coprivano d’acqua, poi le filtravano attraverso un fazzoletto sporco; il succo che se ne ricavava, d’un verde inquietante, veniva maneggiato con tutte le precauzioni che si devon prendere con un veleno fulminante e poi travasato con cura entro tubetti d’aspirina o boccette di farmacia che venivano tappate evitando di toccare il liquido. Quel che restava veniva mescolato con altre poltiglie composte di tutte le bacche disponibili, al fine di confezionare una serie di veleni di virulenza progressiva, scrupolosamente numerati e riposti sotto la panca di pietra fino alla settimana seguente, affinché la fermentazione rendesse quegli elisir irreparabilmente funesti. Terminata quell’opera tenebrosa, Jacques e Pierre contemplavano estatici la collezione di sinistre boccette, e annusavano beati l’odore acido e amaro esalato dalla pietra maculata di poltiglia verde. I veleni, del resto, non erano destinati a nessuno: quei chimici calcolavano il numero di persone che avrebbero potuto sopprimere spingendo talvolta l’ottimismo fino a supporre d’averne fabbricata una quantità sufficiente per spopolare la città; ma non avevano mai pensato che quelle magiche droghe potessero sbarazzarli d’un compagno di scuola o d’un insegnante antipatico. Il fatto è che non detestavano nessuno, cosa che avrebbe loro non poco nuociuto nell’età adulta e nella società nella quale erano destinati a vivere.
Ma le giornate importanti erano quelle di vento. Uno dei lati dell’Ospizio che dava sul parco confinava con quella che, in altri tempi, era stata una terrazza. La balaustra di pietra giaceva tra l’erba, ai piedi della vasta base di cemento coperta di mattoni rossi. Dalla terrazza, aperta su tre lati, si dominava il parco e, oltre il parco, un dirupo che separava la collina di Kouba da uno degli altipiani di Sahel. La terrazza era orientata in modo che, quando si alzava il vento di levante, sempre violento ad Algeri, veniva sferzata in pieno per il lungo. I bambini, in quelle giornate, correvano verso i primi palmizi; ai piedi di essi, c’erano sempre distesi lunghi rami secchi: ne raschiavano la base per asportarne la parte pungente e poterli impugnare a due mani; poi, trascinandosi dietro le palme, correvano verso la terrazza. Il vento soffiava furioso, fischiava tra gli immensi eucalipti squassandone pazzamente i rami più alti, spettinava i palmizi, gualciva con un rumore di carta le larghe foglie lucide degli alberi di ficus.
Bisognava arrampicarsi sulla terrazza, issarvi le palme e mettersi spalle al vento; poi, i bambini prendevano a piene mani le palme secche e stridenti, le proteggevano in parte con i loro corpi, e si voltavano di scatto: la palma s’incollava immediatamente a loro, ed essi ne respiravano l’odor di paglia e di polvere. Il gioco consisteva nell’avanzare contro il vento, levando la palma sempre più in alto: vinceva quello che riusciva ad arrivare all’estremità della terrazza per primo senza che il vento gli strappasse la palma dalle mani, e poi a restare in piedi, la palma tenuta a braccia tese, tutto il peso del corpo proiettato in avanti su una gamba sola, lottando vittoriosamente, il più a lungo possibile, contro la forza rabbiosa del vento. Là, ergendosi al disopra del parco e del pianoro ribollente d’alberi, sotto il cielo percorso da veloci immense nuvole, Jacques sentiva il vento, venuto dagli estremi confini del paese, scendergli giù per le braccia dalla palma, per riempirlo d’una forza e d’una esaltazione che gli facevano emettere senza tregua lunghe grida, finché, braccia e spalle fiaccate dallo sforzo, finiva con l’abbandonare la palma, e la tempesta d’un colpo la trascinava via insieme alle sue grida. E la sera, a letto, morto di stanchezza, nel silenzio della camera dove la madre dormiva il suo sonno leggero, egli ascoltava ancora urlare dentro di sé il tumulto e il furore di quel vento che avrebbe amato per tutta la vita.
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