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Pietro Adamo

"La prima cosa è dire no!”: Nicola Chiaromonte tra ragione, storia e utopia

Tratto da Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte, quaderni dell'altra tradizione, 1, Una Città, 2002

2. La parola e il fatto

La "crisi” del moderno si presenta quindi come frutto di una scissione tra richiesta di verità/libertà e pratica quotidiana, che conduce ad una condizione generalizzata di anomia, alienazione e nichilismo: un fenomeno che non si esaurisce sul piano del politico, ma che anzi implica un giudizio complessivo sullo stile di vita e di pensiero dell’Occidente. Un "giudizio” che si esplica, negli scritti di Chiaromonte, nell’analisi del problema epistemico alle origini della difficoltà "moderna” di cogliere il nesso che lega la domanda di verità e l’esigenza di libertà: la già citata "questione della storia” al centro di Credere e non credere. In quest’ultimo libro viene esplicitata la dimensione propriamente conoscitiva della questione, con la contrapposizione tra la sfera individuale, apparentemente caratterizzata dal libero arbitrio e dal senso dell’autodeterminazione dei singoli, e quella della storia, determinata da leggi sue proprie, impenetrabili per l’intelletto umano: "C’è, da una parte, la Pace, la vita reale degli individui”, scrisse a proposito di Guerra e pace nel saggio su Tolstoj che apre il libro, fatta del succedersi di sentimenti, impulsi, pensieri, e vicende quotidiane: lì l’individuo si sente libero e responsabile. In quest’orizzonte della vita "reale”, la vita della società nel suo insieme, le decisioni dei potenti, la grande politica, le guerre e le battaglie, appaiono come una serie di accadimenti privi di senso e di razionalità, in quanto non scaturiscono direttamente dall’esistenza "normale” degl’individui e non hanno un rapporto chiaro con i loro motivi ordinari. D’altra parte, oltre e al disopra di questo, c’è la Storia, il gran movimento che trascina gli individui e i popoli con forza tale da farli apparire completamente necessitati. E la Storia, infatti, è il regno della Necessità. Ma quale sia la legge di questa necessità nessuno può dire: la vera causa dei grandi movimenti della storia sfugge tanto all’individuo che vi soggiace quanto allo storico che li osserva dal di fuori38.
Questo iato insuperabile costituisce il luogo della "crisi”: è qui che si impone la scissione inevitabile tra Libertà e Storia ed è qui che si produce l’ethos razionalistico-costruttivistico che, sulla base della pretesa di "leggere” la Storia e magari anche di "agirla”, ha costruito le premesse per i processi di sviluppo dell’alienazione e il nichilismo contemporanei. L’illusione di poter decodificare la Ragione nella Storia ci conduce a trascurare l’elemento maggiormente caratterizzante della nostra condizione: "Non solo siamo noi stessi parte dell’avvenimento, quindi in buona misura sue vittime e non soltanto suoi agenti, ma anche parte di un corso di eventi cosmici che supera una volta per sempre la nostra capacità di comprensione”39. Da questa considerazione di fondo sull’intreccio tra Storia, Ragione e Politica, sulla quale viene costruita una peculiare sociologia dell’indeterminazione, si dipana la lucida critica di Chiaromonte nei confronti di alcune delle categorie principali del pensiero antagonista della sinistra novecentesca, dall’ansia ricostruttivistica al furore rivoluzionario, dalla rivincita del sacro alla fedeltà alle ideologie del progresso: una critica che culmina, per certi versi, nella sua valutazione quasi feroce della mentalità comunista.
Tale sociologia dell’indeterminazione sembra, di fatto, il prodotto di una riflessione di ampio respiro sulla natura dell’impresa scientifica moderna. Rifiutando le volgarizzazioni tardopositivistiche, Chiaromonte sposa la prospettiva secondo cui "la visione dello scienziato è rigorosa ma, quanto a essere veridica, lo è solo nei suoi propri termini e nei limiti che essa si assegna”. Nell’idea piuttosto "dogmatica” che è "l’anima, per dir così (o la causa finale), dell’impresa scientifica”, ovvero che la sola forma valida di conoscenza sia "la misurazione esatta degli oggetti del mondo”, rinveniamo tuttavia la consapevolezza che nel mondo vi è molto che "non può essere espresso in termini di obiettività misurabile”. In altri termini, la stessa impresa scientifica si offre oggi assieme alla consapevolezza dei propri limiti, che rendono anch’essa insufficiente come "pretesa spiegazione o sistemazione del mondo”, a fronte del "sentimento del casuale, dell’aleatorio, dell’irrazionale insiti nella combinazione di cose e di circostanze che chiamiamo realtà”40.
In un appunto risalente a metà anni Sessanta, Chiaromonte insiste sul "carattere frammentario, discontinuo, irriducibile alla logica come alla forma, del reale”, considerato una "congerie di frammenti, un proliferare di oggetti, di individui, di fatti”, una "folla” refrattaria "a ogni specie di ordine”, o anche, nota altrove, "un pullulare di significati”41. L’oggetto della critica è quindi il "realista” (filosofico o politico), ovvero chi ritiene di possedere "il segreto del reale”, pretendendo "che le nostre idee siano un’interpretazione autentica, facciano presa sui ‘fatti’ e contribuiscano a ‘fare la storia’”42. Se sul piano delle opzioni politico-esistenziali a tale realismo Chiaromonte contrappone un tipo particolare di utopia43, sul piano strettamente filosofico e sociologico gli contrappone una versione della conoscenza scientifica che fa tesoro della lezione culturale della meccanica quantistica. Dalla sua analisi dell’evento "misterioso per natura e per natura irraggiungibile” emerge infatti una conclusione metodologica che suona quasi come una traslazione sul piano sociologico dell’heisenberghiano principio di indeterminazione: "Tutto infatti accade come se negli eventi fosse all’opera un teorema il quale dicesse che se si presumono conosciuti i moventi ideologici e razionali di un evento non se ne possono più conoscere le componenti di fatto, mentre se se ne conoscono le componenti di fatto i moventi ideologici sfuggono necessariamente”44. "L’ordine della realtà dei fatti è separato per natura dall’ordine dei pensieri”, aggiunge in un saggio successivo: la Storia è una catena di eventi troppo magmatica perché il pensiero possa illudersi di poterle imporre un ordine. Al massimo, si può sperare in "incontri (o accordi), altrettanto felici che temporanei”. Non mi pare casuale che nel saggio in questione, tra i più efficaci nell’illustrazione del carattere "indeterminato” della (non)filosofia della storia di Chiaromonte, compaiano proprio i nomi dei padri della meccanica quantistica. Prima Max Planck e poi, soprattutto, Werner Heisenberg, in un passaggio decisivo che richiama il saggio su Tolstoj sopra citato e che lega discontinuità quantica e critica della causalità storico-politica:
È uno scienziato, Werner Heisenberg, a dirci che "la conoscenza dell’attuale è, per natura, sempre una conoscenza incompleta”. Fuori dal suo contesto strettamente scientifico, l’affermazione di Heisenberg è suggestiva in quanto echeggia l’essenziale del ragionamento di Tolstoj sulla storia e la possibilità di manovrarla con la forza: l’obiezione di Tolstoj al "napoleonismo”, infatti, consisteva sostanzialmente nel negare la possibilità di conoscere la situazione presente e quindi di dominarla da un centro unico di volontà e di potere45.
I rilievi che Chiaromonte muove a tutti coloro che pretendono di incarnare tale "centro” si configurano principalmente come critica dell’immaginario rivoluzionario tradizionalmente associato alla sinistra: una mentalità, scrive a Caffi nel 1951 (senza poi spedire la missiva), che non ammette l’esistenza, tra i due "ordini” sopra citati, non solo della libertà umana, ma anche della "contingenza” e della "polivalenza” dei fatti46. Un atteggiamento che produce una sensazione collettiva di inerzia da un lato e una sorta di feticismo della forza dall’altro. Dagli scritti del direttore di Tempo presente emerge così un potente "ritratto del rivoluzionario moderno”, preso nell’illusoria rete della decodifica della Storia e abbagliato dal mito (religioso) di un’"Azione immediata e risolutiva”47. E mentre coloro che accettano passivamente il culto della razionalità della Storia diventano, per via d’inerzia, propensi a farsi massa, a "prender posto nei ranghi e farsi strumento di una volontà superiore”, gli attivisti affrontano la Storia facendosi affascinare dalle sue possibilità, dal "prorompere degli eventi” e dall’"l’urto delle forze, dove tutto è aleatorio e febbrile”, valorizzando così una risoluzione del problema della Storia in quello della Forza, nel tentativo di supplire all’irrazionalità apparente del fluire degli eventi con "l’impegno totale nell’evento attuale, senza pretenderlo diverso da quello che è. Puro rischio”. Ma così facendo riproducono, come I conquistatori di Malraux, i vizi dell’ideologia e del tecnicismo:
C’è [infatti] il problema del potere, che per loro si riduce a quello del comando: come ottenere una forza efficace da un tumulto. Per risolverlo, bisogna uscire dal presente e situarsi nella storia: rappresentarsi l’impresa cui si partecipa come una "situazione”, conoscerla come un fatto obbiettivo, dominarla come un problema intellettuale […]. A questo punto il "conquistatore” diventa un ideologo (perché per conoscere il significato dell’evento bisogna rappresentarlo nei suoi termini astratti, come conflitto fra forze "storiche”) e un tecnico (perché per dominarlo bisogna ridurlo a calcolo di forze e d’efficacia)48.
Questa sorta di "richiamo” mistico ai "fatti” prefigura un nuovo tipo di "fanatico”, nota Chiaromonte, sorretto appunto da una "mentalità ‘storica’”, grazie alla quale, "temporalizzando ogni fenomeno e ogni forma di discorso, è possibile sostenere che ciò che oggi ‘sembra’ cattivo domani si dimostrerà ‘buono’”. Tale atteggiamento non è altro che una inedita manifestazione dello spirito religioso, in particolare di quello cristiano: una fede che non si cura "né delle contraddizioni intrinseche”, "né delle obiezioni dei miscredenti”, che considera secondario "ogni scarto tra fine ultimo e pratica momentanea”, e che, soprattutto, si realizza nei fatti, nella necessità dell’azione. La tradizione rivoluzionaria ha così partorito un "Essere Supremo e Perfettissimo” analogo al Dio cristiano per scopo e funzione, si legge in un appunto rivelatore:
La questione se esista per il rivoluzionario un Assoluto, paragonabile al Dio cristiano, perde sostanza appena si rifletta che, per il rivoluzionario come per il cristiano, ciò che veramente importa è la funzione di quella qualsiasi istanza che per loro è l’ultima e assoluta: se c’è un appello dai fatti compiuti all’Idea ovvero dai comandi della Chiesa all’intimità della coscienza, allora Dio esiste per l’uno come per l’altro. Altrimenti sono entrambi atei. L’importante non è, del resto, l’idea di Dio, ma il compimento della volontà divina; l’impresa che è la misura della verità e del bene, anzi la fonte stessa della verità e del bene, che in ultima analisi, per il rivoluzionario progressista come per il cristiano, sono affare di "pratica” più che di teoria: Fiat voluntas tua49.
Questa lettura rientra ovviamente nella vasta letteratura sul "rivoluzionario di professione” che ha caratterizzato la polemica occidentale contro il socialismo reale e, più in generale, contro l’ethos antagonistico dei rappresentanti occidentali della tradizione leninista e delle loro vulgate50. Non certo a caso, il più compiuto tentativo chiaromontiano di analizzare la peculiare forma di riscoperta del "sacro” associata alla religione della rivoluzione è contenuto nel celebre Il tempo della malafede, pamphlet pubblicato dalla Associazione italiana per la libertà della cultura, che resta, pur nel suo approccio sofisticato e non particolarmente virulento, un rilevante episodio italiano della Guerra Fredda. L’attacco non è qui rivolto alle pretese cosiddette "scientifiche” del marxismo (argomento già affrontato in via definitiva da Chiaromonte nell’influente, in America, Of the Kind of Socialism Called Scientific), quanto piuttosto alla mentalità che caratterizza in Occidente l’accettazione del comunismo come criterio di vita e di azione. I suoi commenti, ispirati da un altro celebre pamphlet anticomunista finanziato anch’esso dall’Associazione e dovuto alla penna di Roger Caillois, ricalcano di fatto le argomentazioni popperiane sull’infalsificabilità -e quindi la non-scientificità- del marxismo stesso:
Dubitare di una teoria scientifica e criticarla è glorificare e arricchire la scienza. Ma, nel contesto delle esigenze comuniste, dubitare del marxismo significa "insinuare che il partito comunista potrebbe avere torto”. Questo vuol dire che, nell’ortodossia comunista, ogni rapporto fra Marx pensatore e una nozione qualsiasi di verità che ne misuri, confermandole o inficiandole, le preposizioni, è una volta per tutte obliterato51.
È questa la dimensione in cui prende forma il Partito-Dio dei comunisti, un "Partito dogma e idolo, incarnazione di un Assoluto assolutamente relativo, misura, esso, di ogni atto e di ogni intenzione, ma che nessun atto e nessuna intenzione possono misurare e circoscrivere”. Il progetto politico comunista -ma anche il progetto rivoluzionario tout court- è quindi una trasposizione al terreno del politico della forma escatologica: lo scopo dell’azione non è "un ordine ‘giusto’, da ottenere umanamente in questo mondo, ma la sostituzione violenta, a questo mondo, di un mondo del tutto diverso”. L’obiettivo risulta analogo alla "definizione negativa di un Dio indefinibile, non un’azione umanamente fallibile nel difettoso mondo sublunare”. Proprio per questo motivo, per la sostanziale incommensurabilità al mondo reale del progetto, "cessa ogni misura” e "nessun atto può più apparire inumano”52. Contro chiunque si proponga come "portatore di una verità”, "catafratto in un linguaggio chiuso” che conduce all’aggressione e non alla discussione, non resta che un ragionevole esercizio di scetticismo: "Una verità non esiste. Esiste la verità che nessuno possiede. Chi si comporta altrimenti che come uno scettico fiducioso di fronte a una verità che gli venga proposta, o a un fatto che si offra al suo giudizio è un nemico del ben pensare e anche un malefico seminatore di futura violenza”, si legge in un appunto che risale, non certo casualmente, al 196853.
D’altro canto, è proprio grazie alle sue qualità di ineffabilità che il Dio dei comunisti esercita un fascino insuperato sull’uomo-massa. Quest’ultimo, allontanato dalle domande chiave sul senso della realtà che lo circonda (su verità e libertà, avrebbe scritto qualche anno dopo il direttore di Tempo presente), trova nell’esaltazione della forza implicita nel messaggio rivoluzionario comunista una risposta adeguata alla contingenza del tutto materiale della sua condizione:
L’importante è che [l’impresa comunista] sia la sola a rispondere a un mondo apparentemente dominato dalla necessità materiale col linguaggio della necessità e della forza. La forza efficace di mutare materialmente una situazione materiale è infatti attributo essenziale di questo Dio. Per questo, esso può promettere la sostituzione finale di uno stato di cose ottimo a quello presente pessimo: donde la sua natura eminentemente "progressiva”. Tale promessa è garantita dalla semplice presenza della forza, non da altro54.
Il bersaglio polemico di Chiaromonte sono, più che i comunisti stessi e i loro seguaci tra gli "oppressi”, entrambi impenetrabili, sia pure per motivi diversi, all’argomentazione razionale, i loro "compagni di strada” intellettuali e artisti, che accettano "l’adesione intellettuale a un sistema che è d’imperio” illudendosi di poter evitare "conseguenze per l’intelletto”, ovvero di conservare autonomia e autodeterminazione55. In quanto agli intellettuali di casa nostra, l’adesione "organica" al comunismo nasconde in genere ciò che oggi chiameremmo un atteggiamento da radical chic: usi, nel corso della storia nazionale, a sentirsi sempre responsabili non verso "la società tutta intera” ma piuttosto verso "la classe dominante”, la loro relazione con il comunismo è "semplicemente l’occasione di un conformismo di specie inedita, una maniera nuova di mettersi la coscienza in pace schierandosi (con la firma) dalla parte della giustizia, del proletariato e del progresso, senza peraltro cambiar nulla al proprio modo di pensare”56.
La partecipazione di Chiaromonte alla polemica anticomunista negli anni Cinquanta e le sue successive prese di posizione sul ribellismo degli anni Sessanta (dagli studenti al mito di Guevara) lo pongono ovviamente tra le fila dei difensori dell’Occidente. Una scelta esemplificata non solo dagli scritti del nostro (penso soprattutto agli interventi nella Gazzetta nelle prime annate di Tempo presente, con i duri attacchi ai "teorici dell’equidistanza” e al "loro forsennato e razzistico antiamericanismo”57), ma anche dalle modalità di finanziamento della rivista stessa, che dipendeva dal Congresso per la libertà della cultura58. Del resto, nell’evoluzione del pensiero politico di Chiaromonte, tra gli anni Quaranta e i Sessanta, si scorge una tendenza prepotentemente laica, spregiudicata, antidogmatica, guidata da uno spirito scettico che mette infine in discussione anche i capisaldi della dottrina economica del socialismo. Nella recensione apparsa in politics di La Déclaration des Droits Sociaux, uno dei più noti libri di quel Georges Gurvitch che aveva proposto alla generazione dell’antifascismo il recupero di Proudhon in chiave di socialismo libertario antimarxista, Chiaromonte apprezza il tentativo gurvitchiano di dar vita a "un metodo coerente di pensiero socialista basato su premesse filosofiche chiare”, mettendo in evidenza come, a partire da "linee proudhoniane”, nel sistema delineato dal filosofo russo i diritti umani si fanno sociali nel contesto di una "società pluralistica”, la sola nella quale si riconosce che "la difesa dei diritti dell’individuo” è "uno dei diritti fondamentali dei gruppi”59. Gurvitch è tuttavia bistrattato (gentilmente) per la sua eccessiva moderazione, che tradisce lo stile di pensiero radicale di Proudhon. In particolare, Chiaromonte sottolinea che l’accettazione gurvitchiana del mercato (con "i diritti dei consumatori e quelli dei produttori a confrontarsi liberamente gli uni con gli altri”), nel quadro di un riconoscimento legale di tre distinti gradi di proprietà (individuale, pubblico e sociale), esige una protezione particolare "per la proprietà sociale e federale”, cioè, traduce l’italiano, per la "proprietà comune dei mezzi di produzione”, necessità cui Gurvitch accenna timidamente solo nelle ultime pagine del suo libro. Ma questa, conclude Chiaromonte, è invece "la questione essenziale”60. Nella recensione l’italiano sembra quindi pensare ancora nei termini di una conciliazione possibile tra piena libertà politica e una soluzione economica nei termini del comunismo libertario (riproducendo, di fatto, la soluzione del problema proposta dall’ultimo Rosselli).
Ma nel fondamentale Of the Kind of Socialism Called Scientific, che apparve nella nota serie New Roads di politics circa un anno dopo61, Chiaromonte muta idea sulla "essenzialità” della questione. Of the Kind è una confutazione delle componenti centrali della filosofia della storia marxista e dei suoi corollari in termini di politica ed economia -centralità della lotta di classe, concezione materialistica della storia, dialettica, dittatura del proletariato, proprietà collettiva dei mezzi di produzione, e così via- che ne mette in discussione la pretesa di essere "veri” e "scientifici”, mirando soprattutto all’empirio-Marxism di quegli intellettuali americani che, pur negando l’assolutezza delle verità del marxismo, ne difendevano i meriti sul piano "empirico”: come per esempio James T. Farrell, che, scrisse Chiaromonte in un successivo scambio d’opinioni rivelatore, "ci chiede di trattare il marxismo come fosse vero sinché non si trova qualcosa di meglio” (l’americano replicò correttamente che la differenza reale tra la sua posizione e quella del suo antagonista stava nel giudizio sullo stalinismo: "È o no lo stalinismo conseguenza necessaria del marxismo?”)62. In Of the Kind, tuttavia, Chiaromonte caratterizza il socialismo in modo nuovo. Il nucleo profondo del marxismo sta nel "trasferire l’elemento utopico […] dalle idee e gli ideali agli eventi”, costituendo non solo un’interpretazione univoca e necessitante degli eventi stessi, ma valorizzando una concezione strumentale della forza e del potere, che culmina, di fatto, in un’idea del "potere dello Stato” assimilabile a quella del dispotismo. Il socialismo, invece, inteso come "sforzo coerente per una società migliore” in cui si faccia "minore violenza al corpo e allo spirito dell’uomo”, non può che basarsi su un principio di giustizia, agito e sperimentato, "una realtà che esiste nella coscienza umana”, che (anche qui con un recupero delle idee portanti di Proudhon) funzioni come principio normativo: un principio che culmina nella "descrizione chiara e distinta delle caratteristiche necessarie e delle forme della migliore società, quale la si desidera”. Si tratta forse di utopia: bene, scrive con gusto l’italiano, allora non resta che ammettere "che non esiste altra forma di socialismo che quella utopica”. Il socialismo chiaromontiano, seguendo da presso la soluzione indicata dagli antifascisti libertari degli anni Trenta63, si configura allora non come una precisa soluzione economica, ma come intransigente presupposto umanistico di una società fondata sulla piena libertà di sperimentare, in un contesto segnato dalla critica radicale del potere statuale:
Se socialismo significa possibilità per l’uomo di acquisire un progresso reale nella società, e se la condizione essenziale del progresso sociale è la libertà di cercare sempre nuove soluzioni - abbandonando, se necessario, non appena si dimostrano impraticabili o in qualche modo inumane, modificandole o cambiandole con una libertà almeno analoga a quella dello scienziato nel suo laboratorio - se questo è socialismo, come può esistere non solo il socialismo, ma persino il più timido accenno a esso, quando il potere dello Stato è senza limiti?64
Se da un lato il socialismo è pensabile solo contro la particolare forma che le istituzioni hanno preso in età moderna, ovvero contro quello "Stato” che pare culminare logicamente nell’esperienza totalitaria (e non, ovviamente, contro l’insieme di istituzioni che in una qualsivoglia società esercitano compiti di coordinamento), dall’altro viene qui concepito come fondamento, e nel contempo come esito possibile, di un esercizio di libertà: libertà di mettere alla prova, adottare, selezionare o scartare soluzioni e pratiche65. Ogni "finalismo” è eliminato a priori, mentre la società viene immaginata in costante mutamento: in un certo senso il socialismo chiaromontiano è costruito su una potente convergenza tra mezzi e fini. Ed è proprio sul piano della difesa di questa particolare concezione del socialismo, come prodromo etico e metodologico di una società libera, che si radica la scelta di Chiaromonte in favore dell’Occidente e della democrazia. Nell’ultimissimo intervento in politics, che costituisce una analisi stupefacentemente anticipatrice del fenomeno della "partitocrazia” e del suo legame "circolare” con lo Stato, si legge che tale circolo vizioso non può essere spezzato se non attraverso una paziente opera di educazione e ricostruzione sociale. Ora, sinché c’è democrazia (e, con tutti i suoi difetti, il sistema presente è democratico), tale opera è possibile. Piccoli gruppi si stanno formando proprio ora e anche all’interno dei partiti non tutto è marcio. Se l’Europa avrà pace, e se la ricostruzione economica non sarà distrutta dalla militarizzazione, prenderà forma una "nuova sinistra”, o meglio, prenderanno forma gli elementi di una società nuova66.
In forza di questa possibilità, che, come vedremo, si trasformerà con gli anni sempre più in un’ipotesi di "resistenza a oltranza”, Chiaromonte assumerà contemporaneamente le vesti di Cassandra, lamentando la degenerazione a oltranza della democrazia "macchinale”, e quelle di difensore dell’Occidente contro le tentazioni totalitarie dell’Oriente, riservandosi, cioè, il diritto di critica nei confronti dell’Occidente stesso. Soprattutto, si nota nella sua posizione il progressivo fastidio per la vulgata dei difensori del socialismo "reale”, autoritario o di Stato. Già a fronte dello stesso Caffi, maestro di pensiero e di azione, Chiaromonte rivendicava nel 1951 il diritto di discutere liberamente di certe "verità” asserite in modo dogmatico e moralistico, come (scelta significativa) la "lotta di classe” e la "proprietà privata”: "Chiedo la libertà di considerare falso -o meglio, equivoco- il concetto di "lotta di classe” senza per questo essere tacciato di servo del capitalismo”67. Su quest’ultimo tema è rivelatrice una sua voce di una Gazzetta del 1963, intitolata "Neocapitalismo”: se si volesse "cercare un significato un po’ più serio della parola”, bisognerebbe tornare indietro di più di cinquant’anni, al momento in cui, negli Stati Uniti d’America, taluni capitalisti si resero conto di non essere interessati al pauperismo, bensì all’accrescimento costante del tenore di vita delle masse, e cioè a una politica di alti salari, anziché di "mera sussistenza”, come Marx aveva predetto.
Questo semplice fatto, naturalmente, sconcertava le teorie costruite sulla base del capitalismo di rapina del principio del secolo, e (insieme a molti altri fatti sociali e politici che venivano emergendo dopo la prima guerra mondiale), avrebbe dovuto consigliare qualche socialista a rivedere da capo la questione del socialismo68.
La concezione del socialismo di Chiaromonte, costruita sulle idee di società aperta, libera sperimentazione, avversione per ogni finalismo, rimandano ovviamente ai valori centrali dell’esperienza liberale, a un ethos liberale e libertario che sarebbe certamente semplicistico identificare tout court con le versioni dominanti del liberalismo ottocentesco e novecentesco. Su queste Chiaromonte ha espresso giudizi molto duri, come testimonia la sua analisi del ruolo della cultura liberale d’anteguerra nell’ascesa del Leviatano. Il giudizio lapidario (e un po’ parodistico) sul liberalismo di Croce e sulla funzione di quest’ultimo nella storia dell’antifascismo riassume la sua opinione sullo storicismo: "Il liberalismo di Croce è tutto qui: un’attività volta a corrodere ogni affermazione teorica o pratica con l’insinuazione, elevata a principio logico, che anche quella opposta è valida, e al tempo stesso tutt’e due sono in certo senso false”, in un contesto di "placidità” e "torpore” "tipicamente italic[o]”, che dà forma a una vera "apoteosi dell’assenza di principi”. L’"eterna ri-giustificazione delle convenzioni morali, intellettuali e sociali correnti” trasforma il liberalismo crociano in "un conservatorismo assoluto nell’assoluta contingenza d’ogni cosa”69. In quanto a "certo pensiero progressista, ‘liberale’, ‘laico’, ‘razionalista’”, si legge in un appunto dei primi Sessanta, si rivela anch’esso funzionale all’imposizione del principio secondo il quale "l’uomo deve sottomettersi […] alle ‘leggi’ di una storia da lui stesso concepita”70. Insomma, il "liberalismo” implicito nelle posizioni di Chiaromonte è una sorta di liberalismo dei principi primi, che si risolve nella difesa di un Occidente, mi verrebbe da dire, ridotto ai minimi termini71: priorità della libertà individuale e dei suoi corollari ("la libertà politica è la conseguenza necessaria e naturale della libertà della parola umana d’ogni giorno”72), consapevolezza della sua dimensione indispensabilmente associata, necessità strutturale del pluralismo degli stili di vita, critica del conformismo, eccetera. Un altro Occidente, quindi, che nella riflessione del direttore di Tempo presente assume le fattezze di un tentativo di recuperare i valori centrali di quel socialismo umanistico ottocentesco in cui l’ansia della rivoluzione era legata alla "devozione ferma al vero” e alla "sofferenza degli umili”, un socialismo impersonato al meglio dagli "aristocratici” che militavano "nelle file del movimento socialista e libertario” e che credevano fermamente alla "buona novella”: "L’ordine sociale non era né immutabile né divino”73. Ed è stata proprio la sconfitta di questa fede ad aprire la strada alla grande "crisi”.

38 CC, p. 47. Sulle relazione tra critica del Progresso, mito della Storia e crisi della Politica in Credere e non credere si veda V. Giacopini, Scrittori contro la politica, Bollati Boringhieri, Torino 1999, cap IV, pp. 117-137 (intitolato "Nicola Chiaromonte: una solitudine senza isolamento”).
39 Ivi, p. 76.
40 CC, pp. 216-217.
41 CR, p. 57; N.C., "Le regole del gioco”, Tempo presente, giugno 1957, ora in SEP, pp. 87-93, citaz. p. 92.
42 N.C., "Riflessioni su una crisi”, cit., p. 266; N.C., "Il realista e l’utopista”, Tempo presente, novembre 1963, ora in SP, pp. 277-287, citaz. p. 277.
43 Si veda il paragrafo successivo.
44 N.C., "Riflessioni su una crisi”, cit., pp. 265-266.
45 N.C., "Il realista e l’utopista”, cit., pp. 278-279.
46 N.C., "Lettera ad Andrea Caffi”, 19 settembre 1951, ora in TC, pp. 99-110, citaz. pp. 103.
47 N.C., "Sono i falsi mistici”, cit., p. 336.
48 CC, p. 142.
49 N.C., "Lettera ad Andrea Caffi”, cit., p. 104; N.C., "La falsa religione”, Nuovi Argomenti, marzo-aprile 1954, ora in SP, pp. 216-222, citaz. pp. 218-219; CR, p. 23.
50 Interpretazioni analoghe, almeno in parte, a quella di Chiaromonte sono proposte da A.B. Ulam, La rivoluzione incompiuta (1960), tr. it. Vallecchi, Firenze 1968; L. Kolakowski, Lo spirito rivoluzionario (1972) SugarCo, Milano 1982; L. Pellicani, I rivoluzionari di professione, Vallecchi, Firenze 1975; R. Billington, Con il fuoco nella mente (1980), tr. it. Il Mulino, Bologna 1986.
51 Associazione italiana per la libertà della cultura, Roma 1953, ora in SP, pp. 180-207, citaz. p. 183. Il riferimento è a R. Caillois, Descrizione del marxismo, tr. it. Associazione italiana per la libertà della cultura, Roma 1954 (il pamphlet era stato pubblicato in Francia nel 1951 da Gallimard, con il titolo Description du marxisme).
52 N.C., Il tempo della malafede, cit., pp. 188, 191.
53 CR, pp. 191-192.
54 N.C., "La falsa religione”, cit., p. 219.
55 N.C., Il tempo della malafede, cit., p 193.
56 N.C., "Intellettuali e comunismo”, Tempo presente, dicembre 1964, ora in SP, pp. 288-291, citaz. p. 290.
57 N.C., "Guerra fredda”, Tempo presente, maggio 1956, nella Gazzetta, pp. 179-180.
58 Il Congress for Cultural Freedom, fondato a Parigi nel 1950, si proponeva di incoraggiare, appoggiare e finanziare le imprese -soprattutto riviste- che si opponevano al comunismo. Sebbene sin dagli inizi molti avessero sospettato che l’organizzazione fosse segretamente finanziata dal governo americano, solo nella primavera del 1967 il sospetto divenne certezza, quando uno dei responsabili dell’International Organization Division della CIA ammise che tra i dirigenti del CCF (e persino tra gli editors di Encounter) erano presenti stipendiati diretti della Agency e che i fondi del CCF provenivano in sostanza dalle casse della stessa Agency. Nelle redazioni delle riviste coinvolte (in particolare Encounter) si ebbero dimissioni a pioggia; il solito Macdonald rese una confessione pubblica in Esquire, in cui ammetteva di essere stato stipendiato dalla CIA per 14 anni (in qualità di consulente di Encounter), sottoscrivendo poi una dichiarazione di sfiducia della Partisan Review nelle riviste finanziate dal CCF. Gino Bianco ha raccontato che l’incontro della primavera 1967 tra Chiaromonte e Melvin Lasky, il co-direttore di Encounter che era probabilmente l’agente CIA in questione, si concluse con "uno scontro quasi fisico”, con un Chiaromonte indignato soprattutto per non essere stato informato dei fondi segreti (G. Bianco, Nicola Chiaromonte, cit., p. 142). La dichiarazione di Macdonald portò a un infuocato scambio di lettere tra lui e Chiaromonte; l’italiano era anche stato colpito da un saggio di Noam Chmosky che si apriva e si chiudeva con citazioni laudative dello stesso Macdonald e che, nell’usuale stile chomskiano, nascondeva dietro la critica serrata dell’antistalinismo una posizione ambiguamente antioccidentale (si tratta di "La responsabilità degli intellettuali”, ora tr. it. in N. Chomsky, I nuovi mandarini, Einaudi, Torino 1969 pp. 322-367). Chiaromonte chiese all’amico se la sua sottoscrizione della dichiarazione implicasse una sua mancanza di fiducia nella buona fede di Tempo presente, illustrando una differenza sostanziale tra la sua posizione e quella di Macdonald: "Chiaromonte giudicava accettabile il finanziamento segreto a patto che la rivista conservasse una propria indipendenza”, conclude Wreszin, "Dwight insisteva sul fatto che il finanziamento segreto fosse immorale e non etico in sé” (M. Wreszin, A Rebel, pp. 427-428). Sia Wreszin sia Sumner si soffermano più volte sui dissidi tra Macdonald e Chiaromonte, dovuti sia a una marcata differenza di carattere sia a obiettive divergenze teoriche e politiche. Tutto ciò, comunque, all’interno di un rapporto caratterizzato da grandissima devozione e rispetto: "Dwight aveva letteralmente spasmi di dolore ogni qualvolta capiva che non avrebbe mai più parlato con Chiaromonte”, scrive Wreszin descrivendo la reazione di Macdonald alla notizia della morte dell’amico, "era la persona cui Dwight si sentiva più vicino moralmente, intellettualmente e anche personalmente. […] Chiaromonte era la persona di cui Dwight si era maggiormente fidato nella maggior parte della sua vita adulta” (M. Wreszin, A Rebel, cit., p. 473). Secondo Sumner la relazione tra i due, giudicata di fondamentale importanza per comprendere il senso stesso dell’esperienza di politics, era fondata su una "dinamica mentore-discepolo” e si configurava come "una vera amicizia nel senso classico del termine, un legame forgiato non solo dalla reciproca ammirazione ma anche dal desiderio comune di proporre impegni morali condivisi” (G. Sumner, Dwight Macdonald, cit., p. 233).
59 N.C., "Social Law, after Proudhon”, cit., p. 26.
60 Ivi, p. 27.
61 Sulla serie vedi A. Donno, Dal New Deal alla guerra fredda, cit., pp. 159-183 e G. Sumner, Dwight Macdonald, cit., pp. 149-178.
62 N.C., J.T. Farrell, "New Roads.Discussion”, politics, may 1946, pp. 168-170, citaz. p. 170.
63 Si conceda il rimando a P. Adamo, "Società aperta e libera sperimentazione: l’antifascismo libertario di fronte ai totalitarismi”, relazione tenuta al convegno La sinistra e le due libertà, Forlì, gennaio 2002. Si veda anche la successiva nota 65.
64 N.C., "Il socialismo scientifico”, politics, february 1946, tr. it. in VI, pp. 159-186, citaz. pp. 164, 167-168, 182.
65 Nei circoli dell’antifascismo libertario la connessione tra società libera, da un lato, e piena libertà di sperimentazione a ogni livello dell’esperienza individuale e della vita associata, dall’altro, era stato spesso colta e sottolineata, sia pure con enfasi e misure differenti, da militanti del partito socialista (Giuseppe Faravelli, Alberto Jacometti, Olindo Gorni, Ignazio Silone), dagli anarchici che più avevano riflettuto sulla logica del totalitarismo (Camillo Berneri, Luigi Fabbri, Torquato Gobbi) e dai giellisti più attenti alla dimensione culturale dello scontro con i fascismi (primo fra tutti Carlo Rosselli). La più nota esposizione del principio risale probabilmente all’immediato dopoguerra, nella formulazione datane da Ignazio Silone nel celebre "Uscita di sicurezza”: "La libertà […] è la possibilità di dubitare, la possibilità di sbagliare, la possibilità di cercare, di esperimentare, di dire di no a una qualsiasi autorità, letteraria artistica filosofica religiosa sociale, e anche politica” ("Uscita di sicurezza”, 1949, ora in I. Silone, Romanzi e saggi. II. 1945-1978, a cura di B. Falcetto, Mondadori, Milano 1999, pp. 827-828).
66 N.C., "European Letter”, politics, summer 1948, pp. 159-161, citaz. p. 161.
67 N.C., "Lettera ad Andrea Caffi”, cit., p. 100.
68 N.C., "Neocapitalismo”, Tempo presente, luglio 1963, nella Gazzetta, p. 75.
69 N.C., "Pangloss redivivo”, in Benedetto Croce, Edizioni Controcorrente, Boston s.d. (dopo il 1946), pp. 43-53 (pubblicato in origine in politics con un titolo più neutro, "Croce and Italian Liberalism”, june 1944, pp. 134-137), citaz. pp. 45; N.C., "Risposta al Croce”, in Benedetto Croce, cit., pp. 92-96 (pubblicato in origine in Italia libera, 16 luglio 1945), citaz. p. 95.
70 CR, p. 188.
71 Secondo Vittorio Giacopini l’adesione di Chiaromonte alla concezione di individuo proposta dal liberalismo va valutata con attenzione: non solo il direttore di Tempo presente "da nessuna parte e in nessun modo […] si attesta nella difesa a oltranza delle strutture -e delle certezze- dell’individualità”, ma è anche "costretto ad ammettere” -con una "punta di rammarico”- "che il codice e il linguaggio dell’individualità non possono ricostruire da soli un contesto coerente” (V. Giacopini, "Vivere agli occhi degli altri: Nicola Chiaromonte e la critica della politica”, in L’eredità di Tempo presente, cit., pp. 95-111, citaz. pp. 100-101). Le eccezioni sollevate da Giacopini illustrano l’approccio "prudente” di Chiaromonte alle categorie centrali del pensiero liberale -approccio che ritroviamo senza eccessivi problemi in molti intellettuali liberali moderni e contemporanei (con l’eccezione dei più acerrimi individualisti "metafisici”)- senza per questo metterne davvero in discussione l’appartenenza di fondo.
72 CR, p. 186.
73 N.C., "Letture greche”, Tempo presente, febbraio 1965, pp. 23-30, citaz. p. 24; "Il tempo della malafede”, Tempo presente, marzo-aprile 1967, pp. 6-14, citaz. p. 9. Del resto, ancora nel 1969 Chiaromonte descriveva il suo ideale di società libera in termini di "vero socialismo” (lettera a Mary McCarthy, citata in G. Sumner, Dwight Macdonald, cit., p. 231).
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