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Pietro Adamo

Nicola Chiaromonte e la tradizione libertaria

Tratto da Cosa rimane, atti del convegno dedicato a Nicola Chiaromonte (Forlì, 25 maggio 2002), quaderni dell'altra tradizione, 3, Una Città, 2006

Nel marzo del 1999 sono tra gli organizzatori di una serie di conferenze tenute alla Libreria Tikkun di Milano intitolata "Gli eretici della sinistra”. Il primo incontro prevede la discussione su Albert Camus, Camillo Berneri e Nicola Chiaromonte. L’incontro si fa subito vivace. Il moderatore (per la cronaca Attilio Mangano) presenta infatti i tre pensatori in una sorta di scala discendente di "eresia”: Camillo Berneri l’anarchico, Albert Camus il libertario, Nicola Chiaromonte il liberale. Sia il sottoscritto sia Giovanni Scirocco (relatore su Chiaromonte) ci opponiamo con una certa veemenza a siffatta caratterizzazione ed entrambi insistiamo -con aperto divertimento del pubblico- sul diritto di Chiaromonte a essere inserito, a pieno titolo, nel canone libertario.
L’aneddoto sembra significativo. Illustra la posizione che Chiaromonte occupa in certo immaginario storico-politico-culturale italiano. Prevale cioè la posizione pubblica del Chiaromonte degli anni ’50, direttore di "Tempo presente”, convinto sostenitore dell’Occidente, acerrimo nemico del comunismo, indagatore indefesso dei vizi intellettuali e culturali del radicalismo all’italiana e più in generale dell’ethos rivoluzionarieggiante ed escatologico della sinistra tout court.
Una posizione certo laica, ma che risulta facilmente accomunabile a quella dei conservatori che si oppongono a ogni seria ipotesi di mutamento sociale. Il fatto è che le grandi battaglie di Chiaromonte, immediatamente prima, durante e dopo "Tempo presente”, lo situano di fatto a fianco dell’intellighenzia liberale d’Occidente, anche se molto spesso, a guardare in forma ravvicinata gli argomenti usati dal nostro, se ne colgono con facilità i distinguo e le sfumature che lo differenziano da un Raymond Aron o da un Karl Popper.
E’ un’immagine in sostanza avvalorata anche da buona parte degli scritti pubblicati postumi, che prediligono il Chiaromonte impegnato nella polemica a tutto campo contro l’ideologia del progresso e del millenarismo rivoluzionario. E’ questa prevalenza a giustificare, almeno in parte, lo scetticismo rispetto a una sua collocazione in ambito libertario. D’altro canto, il confronto con la letteratura riguardante Chiaromonte in lingua inglese risulta quanto meno sorprendente. Già nel 1949 Mary McCarthy lo incapsula in un’altra categoria rispetto alla vulgata italiana: il suo Monteverdi (che impersona Chiaromonte nel romanzo L’oasi) "era un anarchico”. E la definizione gli resta attaccata, in alcuni casi con una chiarezza e una determinazione che può suonare sin troppo marcata: "the italian anarchist Nicola Chiaromonte”, scrive con sicumera High Wilford nel suo The New York Intellectuals. Ora, gli americani si sono occupati di Chiaromonte essenzialmente in relazione alla sua partecipazione all’esperimento di "Politics”, la rivista fondata da Dwight Macdonald nel 1944, che per un lustro ha raccolto intorno a sé una varia intellighenzia americana ed europea, antimarxista, ben conscia del senso del termine totalitarismo (è in questo ambiente che Hannah Arendt ha concepito e scritto Le origini del totalitarismo), pronta a elaborare una via verso la società libera fondata sulla tradizione libertaria. Gli autori di "Politics” incoraggiano a ripensare la "sinistra” sulla base della riscoperta di Proudhon, Tolstoj, Herzen, corretti magari da Tocqueville: dal coacervo di proposte e analisi comparse sulla rivista -opera dello stesso Macdonald, di Paul Goodman, di Andrea Caffi, di Albert Camus e ovviamente di Chiaromonte- emerge una particolare variante della tradizione libertaria, che potremmo definire gradualista, separatista e "antipolitica”. Una prospettiva in sostanza non molto lontana da quella elaborata dagli stessi Caffi e Chiaromonte un decennio prima, all’epoca della loro militanza in Giustizia e Libertà.
E’ opportuno a questo punto comprendere come il termine "anarchismo” indichi una galassia di credenze, opinioni, idee ed argomentazioni che troppo spesso vengono riassunte e ridotte sotto l’etichetta di un rivoluzionarismo comunistico, millenaristico e costruttivistico. Il percorso dell’anarchismo e più in generale dell’ethos libertario è molto più variegato di quanto non si pensi e si svolge lungo un arco intellettual-politico sospeso tra due poli generali di attrazione: da una parte quello che condivide l’immaginario rivoluzionario e gnostico-millenaristico della tradizione radicale di sinistra, grosso modo quella giacobina nata con la Rivoluzione francese, che, in sostanza, si propone di sostituire l’esistente con un altro mondo, spesso immaginato in modo del tutto astratto, sovrapponendolo con la violenza alla rete concreta delle relazioni tra gli uomini nel qui e nell’ora; dall’altra parte una teoria gradualista che, in una pluralità di modi e di strumenti (anche in questa tendenza minoritaria abbiamo assistito a una proliferazione di "scuole”), propugna una sorta di separazione della parte sana della società dalla parte malata della stessa e la costituzione di una controsocietà che funzioni contemporaneamente da modello ideale e da cellula in espansione sul corpo della società "antica”, che ne sappia cioè eliminare le parti in putrefazione e conservare quelle ancora feconde. Si tratta di due modi diversi di intendere non solo il rapporto con l’esistente, ma anche il rapporto con la politica. Per i primi questa è il mezzo principale attraverso il quale attuare la rivoluzione rigeneratrice; per i secondi, invece, è proprio il rifiuto della politica di massa e l’insistenza sul lifestyle, sulla resistenza passiva, sulla "separazione” a rendersi mezzo per attuare un cambiamento epocale nelle credenze e nei modi di pensare ancor prima che nelle istituzioni e nell’economia. E se è vero che la funzione storica dell’anarchismo nelle convulsioni dell’età contemporanea ha trovato i suoi punti di forza nell’ideologia gnostico-escatologica della rivoluzione per via insurrezionale, è altrettanto vero che, per quanto riguarda l’interpretazione, l’analisi e la critica degli elementi di illiberalità, di autoritarismo e di repressione ancora presenti nelle società industriali e tardo-industriali, molto più fecondi si sono rivelati i gradualisti, i secessionisti e gli "antipolitici”.
Restando alla superficie del percorso di Chiaromonte, si potrebbe forse pensare che, come molti altri pensatori della sua generazione, il nostro abbia superato il suo radicalismo giovanile con una calma accettazione dell’Occidente con tutti i suoi vizi e difetti. Ma le cose stanno in altro modo. Chiaromonte resta in sostanza fedele alla via gradualista e antipolitica accennata negli anni ’30 e pienamente abbozzata nell’esperienza di "Politics”: ne sono testimonianza soprattutto gli articoli non antologizzati degli ultimi anni di "Tempo presente”, a partire dal 1965 circa, quando, a confronto con le nuove suggestioni che emergono a sinistra, il direttore della rivista presenta una serie di letture, di ipotesi, di tesi, di opzioni, che rimandano con una certa chiarezza alla "via” libertaria elaborata decenni prima, ora contrapposta ai rituali dei sessantottini. E’ in questo senso che scopriamo un curioso paradosso: lontano dai gruppi libertari organizzati, dai loro linguaggi, dalle loro pratiche e anche dalla loro storia, tetragono nei confronti di ogni tentazione rivoluzionaria insurrezionalista, critico nei confronti dell’ethos costruttivista radicale, Chiaromonte risulta contemporaneamente il pensatore anarchico italiano più importante e originale della seconda metà del Novecento -una volta che del termine anarchia si accetti un’interpretazione ampia e intellettualmente sofisticata che tenga conto delle differenze tra le due grandi tendenze sopra descritte- e il meno noto e conosciuto come tale.
Il percorso di Chiaromonte è scandito in quattro momenti: il suo periodo di militanza giellista, all’inizio degli anni ’30; la sua collaborazione, negli anni ’40, durante il suo soggiorno in America, con "Politics”; la sua attività politico-intellettuale negli anni ’50 e primi ’60; gli ultimi anni, quelli del confronto critico con il Sessantotto.
Agli inizi degli anni’30, negli ambienti di GL, Chiaromonte è tra i primi a proporre una lettura complessiva e articolata del fenomeno totalitario, riassunta nel lungo saggio La morte si chiama Fascismo, comparso nel gennaio 1935 nei "Quaderni di Giustizia e Libertà”. Qui le radici del totalitarismo sono identificate nella concezione della politica che vede nello Stato il suo punto di riferimento imprescindibile, con la conseguente critica, prima dello Stato liberale ottocentesco, poi dello Stato tout court, nonché con il rifiuto della politica che passa attraverso i partiti di massa tradizionali. L’analisi tocca tutti i punti caldi della questione totalitarismo -il militarismo statuale, l’avvento della cultura di massa, il ruolo della violenza come "levatrice” del progresso storico, e così via- ma di fatto si inserisce in un dibattito che in quel momento infervora gli animi all’interno di GL e nel quale si possono identificare due fazioni abbastanza precise. Da un lato i più tradizionalisti, cioè i sostenitori di una soluzione liberal-democratica della crisi italiana, secondo i quali il punto caratterizzante del giellismo -l’applicazione del principio dell’autonomia a tutte le sfere dell’attività umana- va letto come la base per una soluzione istituzionale federalistico-regionalistica del problema della nuova Italia (il rappresentante più noto di questa tendenza è Emilio Lussu). Dall’altro lato troviamo il gruppo dei torinesi, che, rimandando a Gobetti e all’esperienza dei consigli, pensano che il principio dell’autonomia debba innervare tutta la vita sociale, con la costruzione di uno Stato "dal basso”, che parta da consigli di fabbrica e consigli comunali e si articoli con un’organizzazione che resti comunque dipendente dalla "base”. In sostanza, una democrazia dei consigli che però, proprio per l’afflato autonomistico, presenta marcati risvolti libertari. Carlo e Riccardo Levi, Leone Ginzburg e poi lo stesso Carlo Rosselli rivalutano così esplicitamente la tradizione anarchica: "Dobbiamo creare uno Stato con i mezzi dell’anarchia”, dichiarano audacemente Carlo Levi e Ginzburg in un loro intervento a quattro mani, mentre Rosselli, alla fine del 1935, concorda con l’anarchico Berneri sulla necessità di costruire una società libera sulla base di un’impostazione federalistico-libertaria dal basso.
Nel confronto Chiaromonte si schiera abbastanza chiaramente con i torinesi, per lo meno per quanto riguarda la lettura del principio dell’autonomia. Nel suo Per un movimento internazionale e libertario, pubblicato nell’agosto del ’33 nei "Quaderni”, dichiara infatti che Giustizia e Libertà deve trasformarsi in un movimento "più che antifascista, antitirannico, antistatale”. Ovvero, "un movimento di cui risultasse chiaro che non è legato a nessun pregiudizio di democratismo generico, ma sviluppasse e concretasse in orientamenti politici d’ordine generale i germi vitali insiti nel felicissimo concetto d’autonomia che rimane il cardine delle rivendicazioni di GL”. Tuttavia, l’analisi si salda sin da queste prime elaborazioni a una prepotente sfiducia nella politica di massa e a una sottile critica dell’indirizzo ecumenico e "omnicomprensivo” che Rosselli tenta di imprimere a GL per farne il perno decisivo dell’attività rivoluzionaria antifascista. L’interpretazione del totalitarismo come punto d’arrivo di una tendenza politica moderna improntata dal connubio tra Stato e massa (condivisa con Caffi) lo spinge a diffidare di quelle iniziative che non sembrano sapersi sottrarre a questo paradigma complessivo, comprese quelle della sinistra rivoluzionaria (che Rosselli vorrebbe inglobare e controllare). "Nulla sarebbe più necessario quanto la formazione di un centro studi”, scrive (senza dubbio scandalizzando gli attivisti antifascisti in GL, nettamente maggioranza), aggiungendo di giudicare necessario "che il problema dell’antifascismo sia portato dal terreno di una lotta particolare sul piano della cultura occidentale e dei suoi problemi”. Nella Franca spiegazione indirizzata a Rosselli nel dicembre del 1935 -in sostanza, l’addio a GL- distinguerà polemicamente tra agire e agitarsi, rimarcando come l’ecumenico minestrone giellista, pronto a frullare insieme Garibaldi, Mazzini e Marx, aggiungendovi magari Malatesta, funzionale solo alla polemica spicciola tra i partitini in esilio e abbastanza ridicolmente volto a valorizzare sentimentalmente "facili formule sovversive” e "vecchie memorie del Risorgimento”, sia fatalmente impreparato a far fronte ai "problemi dello Stato, del neocapitalismo, dell’Europa e del posto dell’Italia nell’Europa”.
Negli ambienti di "Politics” Chiaromonte troverà così un ambiente propenso a combinare l’attività di "centro-studi” e quella di propulsore politico-intellettuale di un cambiamento che rifugga dalla logica "totalitaria” della rivoluzione. I suggerimenti e le iniziative di Chiaromonte, principale consigliere e ispiratore di Macdonald, si innestano di fatto sulla tradizione libertaria americana, che, al contrario di quella predominante in Europa, sin dal suo incipit ha valorizzato la dinamica gradualista e secessionista. Con una regolarità forse sconcertante, e che deve in verità molto alla natura stessa dell’esperimento americano, sin dalla fine del ’700 (e forse ancora prima) gli intellettuali americani scoprono (più o meno ogni generazione e mezzo) nella loro tradizione i fondamenti per pensare una soluzione libertaria della vita associata: i più arrabbiati antifederalisti jeffersoniani (1780-1800), gli abolizionisti convinti della "malignità” di ogni governo (1820-1840), gli sperimentatori bohémien e comunitari di metà ’800 (dai quali John Stuart Mill prende a prestito la formula "sovranità dell’individuo” resa famosa nel Saggio sulla libertà), i critici del nuovo Leviatano emerso dalla Guerra civile (1870-1890), i radicali deweyani pacifisti, persino gli agguerriti liberisti ultrà nemici del New Deal, antesignani dei contemporanei anarco-capitalisti. La rivista di Macdonald costituisce un capitolo di questa strana storia di scoperte e riscoperte, spesso condotte in modo indipendente l’una dall’altra.
Nel caso di "Politics” la vicenda si arricchisce però per il decisivo apporto degli intellettuali stranieri, spesso, come lo stesso Macdonald, profughi da una forma o l’altra di comunismo o socialismo. Nel più recente libro sul "gruppo”, Gregory Sumner ascrive grande rilevanza al ruolo giocato dai libertari europei, ovvero da Chiaromonte, Caffi e Camus, i quali hanno avuto una funzione molto importante nello scandire, sulla rivista, i momenti importanti nella maturazione di una "terza via” libertaria e gradualista. E tuttavia, coloro che l’hanno meglio colta, dal punto di vista della delineazione della prospettiva sia sul piano culturale sia sul piano delle indicazioni pratiche, sono stati, e certo non casualmente, i due anarchici riconosciuti del gruppo, Paul Goodman e lo stesso Macdonald (quest’ultimo con una professione di fede dichiarata nel decennio successivo). Nonostante gli europei abbiano fornito alcuni tasselli essenziali nella logica secessionista -la critica feroce dello Stato moderno, l’analisi altrettanto feroce della propensione totalitaria del socialismo "scientifico”, la valorizzazione dell’utopia, la costruzione di una genealogia libertaria, il suggerimento (caffiano) dell’azione per "piccoli gruppi”- sono Goodman e Macdonald a indicare come tali "piccoli gruppi” potrebbero costituirsi, quali debbano essere le forme dell’interrelazione tra di loro e con il resto della società, come debba svilupparsi la loro azione (anti)politica sia al livello comunitario (da loro prediletto) sia al più ampio livello statuale-istituzionale. I termini usati da Caffi, Camus, Macdonald, Goodman e lo stesso Chiaromonte per descrivere questi gruppi e la loro attività -"piccoli gruppi”, "gruppi d’amici”, "famiglie”, "fratrie”, eccetera- riassumono al meglio la prospettiva gradualista e secessionista che ispira gli intellettuali di "Politics”.
Gli scritti (sotto forma di "lettere”) che Chiaromonte invia all’amico Macdonald tra il 1947 e il 1949, quando l’italiano si ritrova in giro per l’Europa, insistono ancora, e costantemente, su tale punto: sarà possibile mutare le cose solo e soltanto se si riuscirà a costituire nutriti gruppi di "fratrie” (nei decenni successivi userà anche il termine "gruppi coerenti”) disposti a rinunciare al modo tradizionale in cui viene esercitata l’azione politica e ad avviarsi per strade nuove, autonome rispetto al paradigma dello Stato moderno. Tuttavia, è proprio in questo frangente che Chiaromonte si ritrova in un certo senso costretto a rinunciare all’"utopia”. Il ritorno in Europa è drammatico. La speranza di poter ricostruire, sulle ceneri di un’Europa distrutta, un’esperienza libertaria simile a quella che ispira "Politics” si rivela priva di fondamento: né in Italia né in Francia (e la delusione di Camus è cocente quanto quella dell’italiano) ci sono le condizioni per costituire significativi gruppi autonomi disposti ad adottare una logica gradualista, separatista e "antipolitica”.
E’ in questa delusione che troviamo le radici del Chiaromonte degli anni ’50, del fustigatore della mentalità comunista e del difensore dell’Occidente, che ancora oggi sono le categorie in cui viene di solito inquadrato. Tuttavia, le principali direttive del pensiero chiaromontiano nel quindicennio 1950-1965 ci permettono ancora di cogliere, per lo meno in filigrana, la continuità della sua lettura libertaria della modernità. La sua critica pervicace della società di massa e la sua feroce disamina del comunismo risultano in questo periodo strettamente legate: in un certo senso la prima è la vera condizione storica per l’esistenza del secondo. L’immaginario della sinistra rivoluzionaria -non solo quella marxista-comunista, ma anche quella socialista e, per inferenza (vista la sua non-presenza politica), quella anarco-comunista- è da Chiaromonte scomposto nei suoi elementi costitutivi: fede nel progresso, mito rivoluzionario, palingenesi misticheggiante. Tuttavia, si sbaglierebbe a pensare che il co-direttore di "Tempo presente” sia un acritico sostenitore dell’Occidente nella sua lotta contro la sinistra rivoluzionaria. Al contrario, nel momento stesso in cui afferma la necessità di difenderle dal totalitarismo, Chiaromonte rivendica il diritto di criticare fino in fondo i vizi delle stesse società (cosiddette) "libere”. I suoi interventi in "Tempo presente” la dicono lunga sulle modalità della sua adesione ai vari organismi anticomunisti organizzati in Usa, Francia o Italia. La sua critica della "democrazia macchinale”, insieme alla sua chiara presa di posizione sul tema dei rapporti Est-Ovest, ci permette di intravedere il Nostro ancora alle prese con il tentativo di concettualizzare una "terza via” praticabile. Non, però, quella "terza via” paracomunista, organicista e corporativistica che sembra caratterizzare nel periodo buona parte dei terzaforzisti italiani, che sperano di conciliare senza tanti problemi un’organizzazione collettivistica della vita economica con la conservazione delle libertà politiche. La "terza via” chiaromontiana va in altra direzione: se sarebbe esagerato identificare la sua scelta per l’Occidente con una scelta decisa e senza condizioni in favore del mercato, è certo sicuro che la sua polemica anticomunista è radicata nel rifiuto convinto e inappellabile di ogni tipo di organizzazione statuale delle attività umane.
Tuttavia, a partire dal 1965, quando il tema della Nuova sinistra comincia a diventare d’attualità, sia per le agitazioni dei giovani americani e dei pacifisti inglesi, sia per i tentativi di rinnovamento in Italia (con i radicali e il Psiup), sia, soprattutto, per l’emergere della questione giovanile, Chiaromonte torna nuovamente sui suoi passi, riproponendo, di contro alle ipotesi rivoluzionarie che caratterizzano sempre più i giovani politicizzati dell’epoca, il recupero della versione gradualista e secessionista della tradizione libertaria. In un articolo dedicato alla "Ribellione degli studenti”, Chiaromonte scrive: "Il rimedio, in verità, se c’è è altrove. E a molto lunga scadenza. Consiste nella secessione risoluta da una società (o meglio: da uno stato di cose, giacché "società” implica comunanza e ragione, che sono precisamente quello che manca, oggi, nella vita collettiva) […]. Da questa società -da questo stato di cose- bisogna separarsi, compiere atto pieno di eresia. E separarsi tranquillamente, senza urla né tumulti, anzi in silenzio e in segreto; non da soli, ma in gruppi, in ‘società’ autentiche le quali si creino una vita il più possibile indipendente e sensata, senza alcuna idea di falansterio o di colonia utopistica, nella quale ognuno apprenda anzitutto a governare se stesso e a condursi giustamente verso gli altri, e ognuno eserciti il proprio mestiere secondo le norme del mestiere stesso, le quali costituiscono di per sé il più semplice e rigoroso dei principi morali, e sempre per natura escludono la frode, la prevaricazione, la ciarlataneria e la fame di dominio e di possesso. Ciò non significherebbe assentarsi né dalla vita dei propri simili, né dalla politica in senso serio”.
In questo caso "politica in senso serio” sta per arte della convivenza tra gli esseri umani. In molti dei saggi scritti nel periodo, ma anche negli appunti scritti solo nei suoi taccuini, ritroviamo riconfermata e valorizzata la prospettiva della secessione pacifica. Per esempio, in un appunto risalente al 1968-69: "Importa essere eretici, oggi, separati dalla massa, chiusi in cerchie ben definite e tenute insieme da idee e interessi comuni. Il rapporto di queste cerchie o gruppi con la società ‘in genere’ e lo Stato dev’essere di distanza, di partecipazione minima, di scepsi e critica ma non di rivolta. Perché lo scopo di tali ‘fratrie’ è di ricostituire società giuste, anzi di ricostruire dalle fondamenta una società, sic et simpliciter. Tali ‘fratrie’ hanno quindi, per cominciare, il compito di stimolare la società a passare dalla politica intesa come realizzazione di un assoluto Bene alla morale come misura e limite dell’azione politica, nonché come distanza da mantenere continuamente fra l’idea di comportarsi con giustizia verso gli altri e l’azione politica come mezzo per la realizzazione di una giustizia obiettiva impossibile”.
E’ quindi l’esperienza della gioventù rivoluzionaria a riportare Chiaromonte alla discussione della tradizione libertaria. Il motivo è evidente. Nella sua chiave interpretativa, gli eventi e le agitazioni di quegli anni non solo non mostrano alcun afflato rivoluzionario "vero” (cioè antitirannico e antistatale, come aveva scritto trentacinque anni prima), ma sono invece, ancora una volta, la manifestazione della volontà di dominio, della fede nella violenza "progressiva” che accomuna destra e sinistra. Nel suo intervento sulla Nuova sinistra, pubblicato nel numero di settembre-ottobre 1967 di "Tempo presente”, raduna sotto una singola etichetta la fascinazione dei giovani per personaggi come Guevara, Castro e Mao e le dichiarazioni programmatiche di alcuni dei loro leader (in particolare Daniel Cohn-Bendit): "Il culto della potenza e della violenza che si diffonde, sotto specie di ‘nuova sinistra’. E con questo, il cerchio dell’involuzione della sinistra europea, cominciato nel 1914, si chiude”. Per Chiaromonte, che si scontra a volte in modo verbalmente violento con leader studenteschi piuttosto noti, i venti del ’68 dimostrano una volta di più, e inconfutabilmente, la sterilità della scelta rivoluzionaria violenta. Proprio di fronte alla riemersione in grande stile di tale ipotesi, ecco riacquistare senso il sottolineare l’altra possibilità, una "terza via” davvero "terza” tra contendenti che sono di fatto accomunati dal paradigma della fede nella potenza levatrice della violenza. Nel numero del maggio 1967 di "Tempo presente” la prospettiva "terza” viene presentata nel modo più esplicito possibile: "Di fronte alla violenza del potere organizzato, oggi, la prima cosa è dire ‘no’, e ritrovarsi con i pochi (inevitabilmente pochi) pronti a dire ‘no’ e a resistere; la seconda è cercare i modi della resistenza nella direzione del rifiuto d’obbedienza, della resistenza passiva, del sabotaggio silenzioso, e non sul terreno della violenza, sul quale si è certi di essere sconfitti; la terza, infine, è di non cercare il successo rapido e vistoso, ma sapersi ritirare nell’ombra e preparare lentamente il momento in cui, come diceva Proudhon, ‘le pietre si solleveranno da sole’”.
Il confronto con i sessantottini riporta quindi a galla l’impostazione secessionista, antipolitica e gradualistica di Chiaromonte, che lo colloca con una certa chiarezza -sia pure in modo paradossale, data la concettualizzazione del suo pensiero che sembra oggi prevalente- nella tradizione libertaria. Del resto, è proprio questo paradosso che rende Chiaromonte eccentrico -in senso etimologico- in tale tradizione: in altri termini, eccentrico e quindi profondamente originale. In Italia la sua è una prospettiva assolutamente inusuale, sia in riferimento al prevalente anarchismo nostrano, immerso totalmente nell’ethos della rivoluzione "levatrice” della storia, sia in riferimento alle differenti tradizioni liberali, quasi tutte unite, comunque, sotto la bandiera dello Stato (minimo o massimo che sia). Ed è forse questo il vero motivo per cui, tra i tanti recuperi che la nostra affannata sinistra istituzionale ha tentato negli ultimi tre lustri, non mi sembra sia mai comparso il suo nome. Forse il Chiaromonte libertario, antipolitico e secessionista, è ancora troppo eretico per palati che solo da poco hanno maturato il gusto pieno della libertà.
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