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Gino Bianco

Attualità di Nicola Chiaromonte

Tratto da Cosa rimane, atti del convegno dedicato a Nicola Chiaromonte (Forlì, 25 maggio 2002), quaderni dell'altra tradizione, 3, Una Città, 2006

Vorrei cercare di indicare alcune delle ragioni che rendono ancora straordinariamente attuale il pensiero e l’esempio (cioè la sua scelta di vita) di Nicola Chiaromonte. Uno stile di vita che nei fatti, e con grande coerenza, rifiutava il feticismo del successo, il perseguimento del potere e della ricchezza. Privilegiava, al contrario, una comunità di uomini "legati da una solidarietà materiale spontanea, capaci di condurre vita semplice e modesta”. Chiaromonte era un esempio di quei destini in cui il dramma della storia e il dramma della persona si incontrano, quella che è stata descritta come "la contrazione del tempo storico nel tempo personale”.
In tutti i suoi scritti c’è la critica alla nostra età che pratica il divorzio fra etica e politica; il rifiuto dei totalitarismi che fu anche insieme critica alle radici autoritarie della civiltà contemporanea, a cui non faceva da velo la distinzione di campo tra capitalismo e socialismo; il rifiuto della "violenza efficace” perché produttrice di altra violenza e causa fondamentale dell’erosione dei diritti civili e umani; il rifiuto, infine, della nozione che l’idea (o l’utopia) sia pensata per realizzarsi. Tra le caratteristiche della sua personalità, una sensibilità religiosa, un senso grandioso dei destini umani, la credenza in una interdipendenza di ciascuno con il tutto, unica concezione filosofica e religiosa compatibile con la scienza moderna. Da ciò derivava anche il suo rispetto per la natura e il rifiuto di violentarla quasi per principio, in nome del nuovo, della conquista scientifica, dell’innovazione tecnologica, del progresso.
Fin dagli anni ’30 emergono i primi connotati della sua originale polemica antistoricistica, che è anche rifiuto della tradizione neo-idealistica italiana, di quella antifascista di Benedetto Croce come di quella fascista di Gentile. Nell’analisi sul fascismo e il nazismo Chiaromonte tende a risalire oltre gli eventi per cogliere quelli che gli paiono essere i motivi di fondo della crisi della civiltà europea. Di qui la riflessione sul fatto che "il fascismo è il morbo più grave, non il vero e serio problema del mondo contemporaneo: veri e seri problemi sono che cosa il mondo deve fare della tecnica, come bisogna organizzare la vita economica perché l’economia non diventi la tirannia della vita sociale; come far fronte, infine, all’inerzia sociale prodotta dall’avvento delle masse”. Una critica, questa, che riprenderà anche nel secondo dopoguerra, contro le radici autoritarie della civiltà contemporanea (meccanizzazione dell’esistenza collettiva; violenza tecnicamente organizzata; assolutezza della politica). Nell’Italia del secondo dopoguerra, in anni di conformismo culturale di destra e di sinistra, Chiaromonte riprese e sviluppò il tema dell’autonomia intellettuale con una polemica spietata, ma scevra di risvolti politici o ideologici, contro tutte le forme spurie di engagement, contro i silenzi, le reticenze e gli opportunismi utili ad aprirsi la strada all’integrazione nell’industria culturale, nel mondo universitario, ai successi editoriali.
E nel momento in cui con la cosiddetta guerra al terrorismo si assiste negli Stati Uniti, in Israele e in tante altre parti del mondo, a una sistematica erosione dei diritti umani e civili, la rivendicazione -condivisa da Chiaromonte- al diritto di disobbedienza è di grande rilevanza. Una rivendicazione sviluppata prima sulle pagine di "Politics” e poi di "Tempo presente”, del diritto e dovere di rifiutare un ordine che implichi manifestamente delle atrocità contro l’umanità. Senza l’introduzione e il riconoscimento negli ordinamenti giuridici dell’"obiezione di coscienza” e del diritto alla disobbedienza, gli stessi processi delle corti internazionali (si tratti di Norimberga per i casi degli alti ufficiali tedeschi coinvolti in crimini di guerra, o della Corte dell’Aja per le atrocità nella più recente guerra civile della ex Jugoslavia) appaiono più come episodi di vendetta che non di giustizia.
Mentre ancora si discute sul ruolo della Resistenza e dilaga tra gli storici (soprattutto in Italia) il confronto tra revisionisti e antirevisionisti, è di grande attualità la critica devastante condotta da Chiaromonte soprattutto nelle pagine di "Politics”, "Italia Libera” e "Controcorrente” sulla conduzione della seconda guerra mondiale e sulle responsabilità dei governi alleati e degli alti comandi militari, che avevano ignorato sistematicamente le aspirazioni dei popoli coinvolti in quell’immane conflitto a un rinnovamento profondo della società e degli Stati. La critica radicale di Chiaromonte -cominciata sulle pagine di "Giustizia e Libertà” negli anni ’30 e che si ritrova in tutti i suoi scritti- alla sovranità, allo Stato-nazione, è oggi particolarmente attuale con l’irrompere di vecchi e nuovi nazionalismi, conflitti etnici, xenofobie e razzismi, mentre la perdita irreversibile della sovranità da parte degli Stati-nazione nell’economia, nella politica estera e nella difesa li condanna a un processo di putrefazione.
Da questo rifiuto dello Stato-nazione derivava il suo europeismo senza riserve. Dell’Europa non ignorava il "cuore nero” o i germi che avevano prodotto le guerre di religione, lo schiavismo, il colonialismo, le grandi persecuzioni della storia (tant’è che, con molto anticipo rispetto ai nuovi revisionismi, pensava che il nazismo non fosse una peculiarità tedesca e della Germania, ma un prodotto della decomposizione della civiltà europea). Ma additava nella violenza e nella guerra, e non nelle singole religioni o civiltà, la disumanizzazione, il razzismo, le distruzioni di massa.
Il suo europeismo non era, tuttavia, antiamericanismo, anche se degli Stati Uniti non amava i disegni imperiali di una pax americana imposta al mondo. In un’epoca, quella odierna, di clowns e voltagabbana che dopo aver costruito le loro carriere politiche e intellettuali seminando odio contro l’America, organizzano o partecipano agli Usa-Day, non sembrerà inutile ricordare l’integrità morale e il rigore intellettuale di Chiaromonte nei confronti della costruzione europea, dei rapporti tra Europa e Stati Uniti.
Dopo il crollo del comunismo nell’Unione Sovietica e nei paesi dell’Est e la crisi delle socialdemocrazie e della sinistra dappertutto in Europa (si guardi alla Francia, all’Italia, all’Olanda, ma anche al New Labour, in Inghilterra) è certamente di grande attualità l’indicazione di un socialismo non marxista, il rifiuto del cosiddetto socialismo scientifico nella duplice versione comunista e socialdemocratica (persino i laburisti di Wilson, Crossman e Callaghan pensavano, negli anni ‘60 e ’70, di aver portato la scienza a Whitehall). Il socialismo di Chiaromonte è schiettamente libertario, ha un fondamento morale e si ispira a Proudhon e a Herzen. Ma le radici del suo socialismo sono anche in Tolstoj e, paradossalmente, in John Stuart Mill, il grande teorico del liberalismo, lo Stuart Mill dell’Autobiografia, dove si delinea una convergenza tra liberalismo e socialismo. Come in Caffi -il suo grande maestro ed amico- l’enfasi era soprattutto sulla "società civile”, su una percezione tragica e grandiosa insieme delle trasformazioni nelle credenze, nel sentimento religioso, nelle istituzioni, e sugli sconvolgimenti epocali cui era andato incontro il secolo scorso con la crisi delle scienze, l’irrompere del nichilismo, l’avvento della cultura di massa e poi, drammaticamente, con la prima e la seconda guerra mondiale. Tra le cause fondamentali della decadenza del movimento socialista, Chiaromonte indicava la menzogna, la dissimulazione, la malafede che non riguardavano soltanto il silenzio e la complicità degli stalinisti nei confronti delle degenerazioni e atrocità del totalitarismo sovietico, ma l’assenza -da parte dei partiti della sinistra- di ogni analisi seria sui grandi cambiamenti che avevano sconvolto la società moderna, la loro incapacità di argomentare, e soprattutto agire, seriamente sui temi della distribuzione della ricchezza, della giustizia, della libertà, della modernizzazione pur di non inimicarsi segmenti di sinistra o di destra. La loro visione della realtà era e continua ad essere molto approssimativa, giacché l’enfasi sulle ideologie maschera un totale disprezzo per le idee, per una valutazione razionale delle opportunità. In questo modo -insisteva Chiaromonte- tra cedimenti e inganni la sinistra è stata atrofizzata dallo spirito burocratico, dagli opportunismi di partito, ridotta ad essere quasi sempre appendice degli apparati dello Stato e condizionata dalle convenienze elettoralistiche, dallo spirito di conservazione e sopravvivenza delle sue classi dirigenti. Al governo o all’opposizione, in altre parole, non riescono ad esprimere e realizzare un vero progetto ma traccheggiano, si adattano e cercano di sopravvivere con una politica di scambi grandi e piccoli con corporazioni, settori della società, localismi, diciamo pure di clientele.
Nella tradizione socialista era di grande importanza il concetto della giustizia sociale. Ma la giustizia -insisteva Chiaromonte- non è un principio economico, non possono derivarne regole per la tassazione, gli investimenti e la destinazione di risorse, la programmazione economica o il rapporto tra pubblico e privato. Il principio della giustizia va inteso piuttosto nel senso che per l’umanità la morale deve essere più importante dell’ideologia.
Diffidente della storiografia, Chiaromonte opponeva un ostinato rifiuto alla sacralizzazione della storia e per comprendere la realtà prediligeva l’immaginario o le nuove frontiere della scienza, della fisica e della matematica. Nei suoi scritti, nei suoi "Appunti” o nelle sue conversazioni affiorano di continuo -anche quando si occupava di letteratura, di politica o del rapporto tra arte e società- riferimenti alla meccanica quantistica o all’indeterminismo di Heisenberg. Era, in un certo senso, un moderno fenomenologo, sia pure non sistematico, che sperava nella possibilità di legare insieme scienza e filosofia, mondo della natura e ragione, nel tentativo di comprendere il nuovo che stava sconvolgendo la società e il mondo. Nelle riflessioni di Chiaromonte convergono voci importanti della cultura europea contemporanea, dai motivi della rivolta di Camus, alla critica dell’industria culturale di Enzensberger, alla polemica antiautoritaria di Leo Strauss e Hannah Arendt. Certo, il suo pensiero è eclettico e frammentario, ma già Husserl -un filosofo molto caro a Chiaromonte- aveva sottolineato come, con la decomposizione della realtà, la frantumazione del linguaggio e gli approdi cui era giunta la conoscenza scientifica, l’approccio eclettico fosse inevitabile.
Del resto, sull’importanza del frammento, della non compiutezza, sul rapporto tra arte e società, le idee di Chiaromonte sono nel solco della grande tradizione culturale europea: Virginia Woolf (che in uno dei suoi saggi più illuminanti aveva scritto: "Questa è un’età di frammenti”), Conrad, Forster, l’Eliot di The Waste Land, ("con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”), Walter Benjamin e Elias Canetti (che ha scritto: "Solo nel frammentario si trova l’interezza della vita”), tanto per citare alcuni nomi. Quello che questi scrittori volevano dire è che frammentaria è la scrittura perché frammentario è il mondo, la società, l’uomo cui la scrittura si rivolge.
Saggista corsaro tra riviste e giornali, Chiaramonte ha aiutato me, come molti altri della sua e della mia generazione, a vedere che in questo duro enigma della vita associata contemporanea, sia liberale sia totalitaria, tutto tende ad offuscare le coscienze. Si può dire che è stato un naufrago, ma naufraga è stata anche tutta l’élite della grande tradizione culturale del XX secolo. La sua testimonianza è stata una straordinaria denuncia dell’orrore del mondo e al tempo stesso di indomita speranza.
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