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Nicola Chiaromonte

A proposito di "fatto sociale", mito e sacro (2)

s.d.
Provenienza: Biblioteca Gino Bianco - Fondo Gino Bianco
Tratto da Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte, quaderni dell'altra tradizione, 1, Una Città, 2002

Prendiamo la formula marxista, che è la più logica, e quindi la più capziosa, fra i progetti di trasformazione sociale. L’idea, insomma, è che, per operare una trasformazione sociale, occorre un nucleo che elabori in direttive teoriche, oltre che politiche, la coscienza rivoluzionaria delle "masse”, e l’organizzi. Questo nucleo - il partito - dovrà, beninteso, non separarsi mai dalle "masse”, ma, agendo in seno ad esse, "interpretarne” le aspirazioni e guidarle nella loro lotta quotidiana. I suoi quadri non saranno, d’altronde, "chiusi”, ma si apriranno continuamente alle energie fresche che affluiranno dalle masse. Al momento dell’esplosione rivoluzionaria, il "partito” si trasformerà in stato maggiore, e prenderà la guida della battaglia decisiva. Ma potrà farlo solo se interpreta veramente il "momento storico”, se è effettivamente all’avanguardia del proletariato: se, in qualche modo, avrà perfettamente realizzato lo stirb und werde dettatogli dal momento critico della palingenesi rivoluzionaria. Una volta riportata la vittoria nella lotta violenta, il partito resta il guardiano geloso dello "sviluppo storico” ulteriore - e il gioco è fatto. Ossia, occorrerà ancora badare all’organizzazione di un’ottima polizia, senza la quale la massa disorganizzata, non sufficientemente cosciente del "momento storico”, potrebbe creare qualche brutta sorpresa alla propria avanguardia. I ribelli hanno trionfato, ed instaurato un sistema sociale che porterà il nome dei valori da cui avevano tratto la loro forza e il loro ascendente sulle masse. Se queste non sono ancora convinte del "passaggio dialettico”, e danno segno di dubitare che la realtà corrisponda effettivamente ai nomi che le si dà, il vocabolario dogmatico fornirà sempre al partito la definizione di "eresia” o "deviazione” contro cui marcerà la polizia di Stato.
In questo schema abbiamo deliberatamente tralasciato dei motivi pur essenziali, ma esso è comunque sufficiente per tirare la conclusione che segue. Il partito rivoluzionario è l’esempio tipico di un’associazione che pretende di esistere solo in funzione di ciò che è al di sopra di sé - l’ideale - e al di fuori di sé - la "massa”, il "proletariato, il "popolo” - e che sfocia nella concretissima tirannia dei suoi membri sulle masse. Una tirannia che è tanto più feroce in quanto pretende di essere impersonale - e lo è in effetti, poiché si tratta di un potere tecnico che dev’essere lasciato nelle mani del miglior tecnico, ossia dell’uomo o della cricca che lo detiene, il miglior tecnico del potere politico essendo, per definizione, colui che è riuscito ad impadronirsene e a conservarlo.
Il partito rivoluzionario è quindi l’esempio di una "comunità” che pretende di non essere in alcun modo separata dalla vita universale (nel caso specifico, la "collettività”, o semplicemente l’ "umanità”), ma ha, al contrario, la pretesa di rappresentarne la dinamica profonda e il fine ultimo, sebbene in realtà, per la sua stessa pretesa, si chiuda nel dogmatismo e nell’intolleranza, si isoli in un sistema di finalità sempre più anguste, per costituirsi alla fine in potere organizzato, il quale, per conservarsi, deve disprezzare e schiacciare senza pietà ogni fermento di spontanea vitalità.
Il partito rivoluzionario, insomma, può essere considerato come l’esempio più sorprendente di un tentativo collettivo che pretende di non avere altra finalità che quella di giungere all’azione più efficace per la realizzazione dell’idea che lo anima; in pratica, la sua azione si rivela tanto più efficace quanto meglio sa sbarazzarsi di ogni scrupolo ideologico, per vedere solo i fini immediati; mentre allo stesso tempo, coloro che volessero conservare una qualche purezza ideologica non sembrano, in ogni caso, poter fare altro che balbettare frasi incoerenti e impotenti contro la "logica” dei fatti, e finiscono per essere scacciati dal terreno dell’azione.
Bisogna aggiungere che il partito rivoluzionario è stato (e sembra ancora essere) l’unico serio progetto di trasformazione sociale dei tempi moderni. Nello stesso tempo, l’idea rivoluzionaria, per il fatto di esigere dall’individuo l’esame e la riforma dell’insieme dei suoi rapporti con il mondo, e di imporgli obblighi rigorosi nei confronti di se stesso e degli altri, è stato senza alcun dubbio il criterio più valido per una "selezione dei migliori” - e quindi per la formazione di un’aristocrazia, nel senso originale della parola. Coloro che sono venuti alla ribalta - da Lenin e Trockij a Durruti e Ascaso - erano più che altro, è vero, uomini di rottura; ma pensiamo al 1905, alle migliaia di oscuri militanti nel mondo intero; al senso dell’onore, al rispetto e al desiderio di educazione dell’operaio o del contadino anarchico spagnolo.

º º º
Su cosa dunque può fondarsi una "comunità”, non tanto per "evitare gli errori del passato” o per garantirsi contro i rischi che sono insiti in ogni impresa umana, ma semplicemente per essere sicura di se stessa, per avere quella fiducia nel proprio essere senza la quale nessuna opera può essere intrapresa?
Sulla solidarietà? La Giustizia? La Ragione? La Verità? Su tutte queste idee messe assieme? Se si vuole. Ma non è l’essenziale. L’essenziale sarebbe piuttosto (a quanto pare) che un’"idea” o un atteggiamento etico non pretenda mai di diventare una sorta di "denominatore comune” di un insieme di individui. Perché, allora, la mera coesistenza di individui differenti la smentirà: ad ogni istante, le propensioni, le avversioni, le idee, le manie entreranno in un conflitto corrosivo. L’idea dovrà allora mantenersi con la forza e l’astrazione, oppure la comunità finirà per scomparire. Difatti, per un insieme di individui, ogni idea particolare scade presto in moralismo e regola, e la "pietà” genera immancabilmente l’ipocrisia reciproca. Perché, per la realtà dell’uomo, ogni idea, ogni verità, ogni regola è sempre "punto di vista” - il resto è sempre là. E questo resto è molto semplicemente la realtà stessa.
Sembra quindi che occorra escludere radicalmente ogni verità, ogni regola, ogni atteggiamento precostituiti.
Si vorrebbe proporre di fare un accordo preliminare intorno a quest’idea: che la Verità non ha assolutamente niente a che vedere con il coup de théatre intellettuale, morale o storico - dogma, rivelazione o "follia collettiva”; che essa significa sempre ricerca disinteressata, controllo reciproco, libertà critica; che si può essere più o meno "nel vero” o "nel giusto” - senza rappresentare mai (né tanto meno "incarnare”) la Verità o la Giustizia. Questo atteggiamento - di religioso rispetto - è precisamente quello dell’uomo che crede assolutamente alla realtà della Verità e della Giustizia, e al loro carattere sacro - mentre ogni atteggiamento dogmatico costituisce una "profanazione”.
Non si potrà mai essere troppo intransigenti su questo punto.
Detto ciò, una comunità "ristretta”, anche la più ambiziosa (e soprattutto la più ambiziosa) non può esordire con atti solenni o ieratici. L’atto veramente sacro è quello di associarsi e, associandosi perché ci si è trovati d’accordo su alcuni fatti essenziali, riconoscersi liberi ed eguali. A partire da quel momento, la comunità sarà responsabile di se stessa e della propria opera, niente di più. E’ una vita che sboccia, e tutto quel che appartiene alla vita può capitarle, a cominciare dal fallimento o dalla disgregazione.
Ma può anche capitare che una comunità di tal specie riesca a vivere pienamente. In tal caso, sembra che essa arriverà a incontrare necessariamente la sfera del sacro, a creare dei riti, dei simboli, dei miti. Perché si direbbe che queste siano le forme di ogni vita profonda e ben definita. Se si trattasse di coltivare qualche "universalismo” o "filantropia” più o meno vaghi, non usciremmo dai limiti del discorso e, con ogni evidenza, non si darebbe luogo alla costituzione del "sacro”. Ma più si tratterà di una vera opera comune, più quest’opera avrà personalità, e più vi sarà spazio per quelle forme particolari e stabilite della vita sociale che sono i riti e i simboli.
Ora, per una comunità fondata sulla rinuncia ad ogni "monopolio” parrebbe essenziale, sembra, cercare di definirsi e singolarizzarsi il più possibile come società. Perché, se si vuole veramente rimanere vivi, ossia avere una forma propria e, nello stesso tempo, restare aperti alla vita più vasta della società, quel che interessa prima di ogni altra cosa (se non si vuole che l’individualismo e l’astrazione riprendano il sopravvento) è la consistenza e la solidità dei legami.
In fin dei conti, questo significa semplicemente che, in una comunità di questo genere, dovrebbe essere il più possibile evidente che il fatto sociale sul quale essa riposa è della stessa natura dei fatti infinitamente diversi da cui nasce, continuamente, ogni vita sociale autentica.
Per esempio: nel discorso, nella riflessione o nella contemplazione, è del tutto naturale che, quando si giunge a certe profondità, o a un certo diapason, si taccia: per riverenza, ma anche per la difficoltà ad esprimersi.
Ma davvero ciò impedisce di marcare nettamente le tappe? Tutto il problema è lì. E qui Platone sembra insegnarci che, al contrario, bisogna esplicitare il più possibile, per essere sicuri che, quando si farà silenzio, sarà davvero perché si è davanti all’ineffabile, e non per qualche debolezza emotiva. In fondo, il senso del "sacro” risiede, prima di tutto, nella definitiva rottura con il "luogo comune” e i giochi di prestigio intellettuali che lo sorreggono. Rompere con il "luogo comune” significa in definitiva personalizzare i rapporti con il mondo e gli esseri. Il che si può esprimere dicendo che si è sul terreno del sacro appena si ricerca davvero la verità di una cosa, di un fatto o di un essere.
Parimenti, è possibile che per la semplice pratica di un’autentica "cortesia”, non codificata, ma sorvegliata dalla ricerca e dal rispetto della "grazia”, si arrivi naturalmente alla produzione di gesti rituali. La vera "cortesia” sembra, infatti, sempre implicare un certo senso del "sacro”.
[Infine, lasciando da parte ogni teopatia dionisiaca, ci guarderemo dall’escludere anche le "manifestazioni orgiastiche”. Ci sono le feste popolari. Ma soprattutto si fa fatica ad ammettere che quel che nell’uomo ha potuto dare - o dà - luogo a manifestazioni orgiastiche, non esista più, o debba essere respinto. Sarebbe stato "superato” da qualche "momento ulteriore”? Non lo vediamo forse, disperso o falsificato, in molte manifestazioni sociali odierne? Quando, nei villaggi spagnoli, ci si riuniva per "profanare” la chiesa, decapitare le statue di cartapesta dei santi, o tirar fuori le mummie dalle loro cripte, ecc., era "l’orgia della rivoluzione”. Non diciamo che fosse sempre assolutamente esaltante, ma riguardo al fatto che fosse autentico, lo era].
Detto ciò, naturalmente nulla sarebbe più artificiale della preoccupazione di creare il "sacro”. Soprattutto perché questo significa mettersi nella logica di ottenere meccanicamente certi effetti - mentre il "mito” e il "sacro” non sono altro che le forme più significative che ogni vita sociale genera, quando gli uomini riescono a vivere "senza preoccuparsi delle conseguenze” - e tanto meno dei "fini”.
Insomma, come dice il nostro vecchio amico Pierre Joseph: "Non rinuncio a niente”.
Per la vita di una comunità che non aspira ad altro che a produrre fermenti di vita sociale autentica, sembra essenziale che non debba avere alcun pregiudizio nei confronti dell’uomo e delle sue manifestazioni. Suo compito - e anche la ragione del suo "distaccarsi” - dovrebbe essere quello di purificare, e non di eliminare o di reprimere. Poiché la sua costituzione e la sua esistenza non sarebbero alimentate da un orgoglio qualsiasi, ma da una profonda nostalgia di vera comunione e di "trasfigurazione” della società umana.
Il segno della sua nobiltà risiederebbe nella semplicità della sua adesione a ogni generoso sforzo umano. Ma probabilmente il segno della sua grandezza risiederebbe nel rigore e nella tenacia del rifiuto che sarà in grado di opporre alla tentazione di confondersi con qualsiasi "realizzazione parziale”, o "storica” in genere. Perché nel più profondo del suo essere sarà scritto che "questo non accadrà mai”. Forse perché già è?
Per concludere, ci dichiareremo profondamente solidali con la risposta di Dio Padre a San Pietro, nell’aneddoto raccontato da Degas: "La Perfezione? E’ di Bouguereau. Mettila alla porta!”

1 Mi è concesso ricordare qui che il senso etimologico di "critica” è "discernimento”?
2 L’hanno chiamata di volta in volta Borghesia, Capitalismo, Filisteismo, Democrazia, Era Vittoriana, Americanismo, Età delle Masse, ecc. In realtà, si tratta di un sistema basato sulla radicale elusione di ogni domanda riguardante la Verità -e dunque sul culto per lo stato di fatto. Ne deriva necessariamente che gli individui avranno ormai legami comuni e leggi dettate solo dai bisogni più infimi e dalla "banalità quotidiana”. Ogni espressione vera è infatti un attacco diretto al sistema, la cui legge fondamentale è quella di ridurre alla comune misura del "medio” quel che per natura è irriducibile: il destino dell’individuo, e le situazioni reali. E’ d’altra parte evidente che un tale sistema implica la complicità passiva del "maggior numero” - a questo si riduce la sua essenza "Democratica”.
3 Un mondo del tutto assurdo e perfettamente stabilito dove vi sarà un Ersatz, un surrogato per ogni cosa, anche per le creazioni dello spirito: arriveremo all’"Idea al giorno” che nel ‘48 Emile de Girardin prometteva ai suoi lettori -o alla "parola d’ordine” degli Stati totalitari (e il cinema). Il tratto distintivo di un mondo del genere sarà la Noia.

(traduzione dal francese di Monica Marino)
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